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Sorprende (e
non poco) il nuovo arresto giurisprudenziale della Suprema Corte in materia di
coltivazione.
La lettura delle motivazioni addotte a sostegno della decisione, tradisce un
algido e formalistico approccio ad un tema che nell’ultimo anno, sia in sede di
legittimità, che di merito, era, invece, stato oggetto di un dibattito ricco ed
approfondito, che aveva permesso di operare decisamente e seriamente una
fondamentale distinzione, in ordine alle singole tipologie di coltivazione,
(domestica ed agraria).
Tale distinzione era, dunque, risultata parametro assolutamente proficuo allo
scopo di verificare il livello di offensività ed antigiuridicità della
condotta.
La sentenza in commento, invece, appare desolatamente ancorata ad
un’interpretazione puramente testuale, posto che il Collegio giudicante si rifà
ad un’ermeneusi, strictu sensu, della norma di cui all’art. 73 dpr 309/90 e
ignora (volutamente?) gli approdi cui, epistemologicamente, vari giudici sono
pervenuti in epoca recente con soluzioni convincenti e condivisibili.
Sconcerta, in modo particolare, l’opinione di incentrare la ratio della scelta
sanzionatoria sull’insuperabilità del carattere di reato di pericolo che
connota il citato art. 73 T.U.S. .
Si tratta di un rilevante passo indietro – che ci si augura rimanga confinato
in limbo di totale isolamento giuridico – posto che siffatto indirizzo priva di
qualsiasi valenza e significanza la nozione di offensività della condotta.
Quest’ultimo concetto era (e, comunque, rimane), infatti, un punto fermo cui si
deve ispirare qualsiasi tipo di delibazione giurisdizionale, nell’ambito dello
scrutinio cui usualmente, in ambito procedimentale, si sottopone la condotta
che ai assume illecita e penalmente rilevante.
L’attenzione della Corte, invece, non solo si è fondata sulla circostanza che
la coltivazione non autorizzata presenta natura di reato di pericolo “presunto
o astratto, essendo punito ex se il fatto della coltivazione, senza che per
l’integrazione del reato sia necessario individuare l’effettivo grado di
tossicità della pianta…..”, che sottende al più generale richiamo alla
finalità di tutela della salute (cui il dpr 309/90 mira espressamente), ma, ad
colorandum, ha evidenziato, come propria premessa logico-giuridica, una
giurisprudenza indubbiamente antica e datata.
Da ultimo il collegio ha, anche, rammentato – sul soggettivo presupposto che la
L. 49 del 2006 non parrebbe innovativa nello specifico - quel dato promanante
dall’esito del referendum del lontano 1993, il quale – sempre nella monocola
ottica formalistica adottata – non ricomprenderebbe nel proprio alveo, tra le
varie ipotesi delittuose, la coltivazione.
Sono questi descritti, tutti paradigmi valutativi che si appalesano (sia
considerati globalmente, che atomisticamente) come insufficienti.
Essi, seppur
invocati in un contesto di contingenza, sono privi di quella forza convincente
che possa giustificare il pur solitario revirement interpretativo che si
commenta.
La regressione interpretativa appare ancor più ingiustificata, nella propria
evidenza, sol che si ricordi come la sentenza n. 40362 dell’11-31 Ottobre 2007
(Sez. VI), confermando l’indirizzo intrapreso con la decisione 6-18 Gennaio
2007 n. 17983, aveva specificato, in modo assolutamente rigoroso ed
indiscutibile, come la non punibilità della coltivazione dovesse dipendere, in
modo esclusivo, dall’esistenza della prova positiva dell’esistenza del rapporto
fra atto di coltivazione ed originaria destinazione del prodotto, così ricavato
con tale azione, ad un uso esclusivamente personale del coltivatore.
In proposito va segnalato, che pur concordando con il concetto di neutralità ed
ininfluenza specifica della novella di cui alla l. 49 del 2006, richiamato
dalla sentenza in commento, la giurisprudenza prevalente (tuttora) ha
assimilato alla generale nozione di detenzione anche quella di coltivazione,
quando tale condotta appaia priva del carattere tecnico-imprenditoriale,
elemento quest’ultimo che la rende sanzionabile penalmente.
Va, poi, sottolineato come il collegamento tra le due fasi comportamentali che
entrano in gioco (la coltivazione della pianta ed il successivo uso
strettamente personale del coltivato), individuato dalla Sez. VI con le
richiamate pronunzie, si sostanziava di un ulteriore elemento che non si poteva
prestare ad equivoci, ovvero la dimostrazione di un complessivo disegno
dell’agente e di una sua volontà, presente in origine (e mai venuta meno
neppure parzialmente), di agire per procacciarsi direttamente sostanze
psicotrope, droghe che, diversamente, egli acquisterebbe presso terzi.
In questo contesto, l’equiparazione della coltivazione domestica, (cioè
attività di portata limitata ed empirica) alla pura condotta di detenzione,
appare passaggio logico e naturale, cui non si può seriamente opporre riserve
di ordine generale, quale è quella della necessità di attivarsi per la tutela
della salute dei cittadini.
Se tra i fini del dpr 309/90 si rinviene, non ultimo, quello sacrosanto della
difesa preventiva del diritto alla salute del singolo e della collettività,
tale profilo peraltro, non collide affatto, né può configgere, con il diritto
all’autodeterminazione del singolo.
In buona sostanza, pur non esistendo un diritto del cittadino a drogarsi
(diritto che mai potrà e dovrà essere riconosciuto ad alcun titolo, al di fuori
di specifiche interinali valutazioni che potranno involgere solamente
conclamate situazioni terapeutiche) è, evidente che esiste nel nostro
ordinamento, e riverbera indubbi effetti giuridici, una condizione di non
punibilità per chi (o coloro) che destinino lo stupefacente detenuto ad un uso
esclusivamente personale.
Analogamente al fenomeno concernente la condotta della prostituzione che non è
punito a livello penale (V. l. 75/58), il nostro ordinamento – in epoche
diverse tra loro – ha sempre riaffermato una sorta di agnosticismo nei
confronti di chi faccia solamente uso di stupefacenti, relegando tale
comportamento nel novero di quelli che possono assumere (ove rivelati)
importanza sul residuale piano amministrativo.
Le
disposizioni di cui agli artt. 75 e 75 bis dpr 309/90 sono
fedeli ed incontrovertibile testimonianza in proposito.
Fermo, quindi, tale principio, sin qui esplicitato, appare evidente che un
fredda, teoretica e atona lettura della norma (l’art. 73), nel senso
prospettato ed auspicato dalla sentenza in commento, non coglie affatto quegli
ormai pacifici profili di contiguità e comunione che la condotta di detenzione e
quella di coltivazione domestica presentano indubitabilmente.
D’altronde non si può certo sostenere che le precedenti decisioni del Supremo
collegio, peraltro, supportate e supportanti, altra copiose prese di posizione
di giudici di merito, costituissero solo una stravagante fuga in avanti.
Emerge, infatti, da un esame comparativo dei due orientamenti, che la teoria
propugnata dalla VI Sezione, (a differenza di quella in esame che si chiude in
una posizione puramente e sterilmente contenutistica) manifesta un indubbio e
notevole sforzo elaborativo, che parte, soprattutto, dalla considerazione che
il contegno detentivo è previsione di chiusura, cioè previsione normativa
destinata a produrre effetti ampi in tutte quelle ipotesi che non possono
essere ricomprese nella casistica tipica della norma.
Ergo, la volontà di colmare anche il gap di atipicità di talune condotte
puramente fattuali ha sollecitato, e tuttora sollecita, la giurisprudenza
più sensibile (non più lassista!) a fornire risposte che appaiano adeguate e
proporzionali alle questioni proposte.
In questo senso va ricondotta, dunque e senza esitazione alcuna, l’opinione
giurisprudenziale, allo stato preminente e affatto condivisibile, della
necessità ed indefettibilità che l’esegeta, prima del giudizio penale, valuti i
caratteri che la specifica coltivazione non autorizzata presenta, onde inferire
da tali risultanze i criteri di inserimento del comportamento in una delle due
categorie concettuali esistenti.
Va, inoltre, rilevato come la similitudine in essere fra le due posizioni in
parallelismo ci possa offrire ulteriori spunti di riflessione.
La sentenza n. 17351 della IV Sezione, come detto, affonda le proprie radici
sulla volontà di apprezzare e privilegiare, come elemento da cui muovere, il
connotato del “pericolo”, che ammanterebbe in maniera decisiva il delitto in
questione.
Da tale premessa, il Collegio perviene ad un’affermazione, che seppur
formalmente ed astrattamente corretta (l’ingerenza efficace nella sequela
criminosa anche di fattori non direttamente collegati con la volontà
dell’agente), si pone, di fatto, in contrasto con la realtà del caso di specie.
Riconoscendo, infatti, che esistono fattori esogeni in grado di condizionare
pesantemente (se non esclusivamente) il raggiungimento della fioritura della
pianta da cui ricavare la sostanza psicotropa, la Corte contraddice il
principio sancito, in altre occasioni, in relazione alla nozione legale di
stupefacente.
Si ricorderà, certamente, come più volte il S.C. sia intervenuto affermando
come nell’ambito delle attività penalmente rilevanti, e come tali punite a
mente dell’art. 73 dpr 309/90, il mancato raggiungimento della soglia drogante
(l’assenza di un reale principio attivo) da parte di un compendio di
stupefacente, eventualmente oggetto di cessione od altra condotta diffusiva,
non esime l’agente da responsabilità penale (anche se in senso contrario si
segnala recentissimamente Cassazione penale , Sez. VI, sentenza 18.07.2007 n°
28661).
Non è, però, solo questo l’unico aspetto particolarmente opinabile e
contraddittorio che la pronunzia in oggetto offre.
Un’esegesi serena ed attenta della decisione dimostra come la S.C., nel caso di
specie, abbia eluso un ulteriore tematica insorta (e puntualmente risolta con
le precedenti disposizioni giurisdizionali) e cioè non abbia affrontato il
problema concernente la necessità di favorire una serie di comportamenti che
mirano, comunque, a contrastare il fenomeno non tanto e non solo della
diffusione dello stupefacente in genere, quanto, contingentemente, a
contrastare l’estensione del mercato dello spaccio.
In fatto, è evidente che una coltivazione che sia rigorosamente diretta, e,
pertanto, domestica, dunque, ad uso assolutamente personale, configura una
condotta che, tra l’altro, si ispira ad una volontà di eludere il circuito
dello spaccio, evitando che il consumatore possa indirettamente ed
involontariamente partecipare, seppure ai livelli meno apicali, alla
proliferazione del fenomeno del commercio illecito.
Bisogna, quindi, proporsi dinanzi al problema dell’uso personale di
stupefacenti, ed alle fonti di rifornimento cui queste persone devono
riferirsi, in maniera non ipocrita o farisaica.
E’ indefettibile, così, prendere atto che, vigendo normativamente la facoltà e
la possibilità per il cittadino di assumere droghe, senza che tale condotta
comporti a carico del medesimo la conseguenza dell’inflizione di sanzioni
penali, una scelta tendente a fare si che l’approvvigionamento del singolo, in
materia di cannabis, possa avvenire bypassando le illecite fonte commerciali,
può essere un’alternativa idonea a minare queste ultime.
La sentenza della Corte di Cassazione in esame, inoltre, manifesta un totale
disinteresse (se non addirittura non conoscenza) per il fenomeno, sempre più
esteso dell’autoterapia.
Rinviando ad altra occasione, una migliore e più completa illustrazione di
questa forma di cura pertinente a svariate patologie, e che si sta imponendo
non solo nel nostro paese, giovi osservare che la scelta della coltivazione
risponde – anche in queste dolenti e tristi situazioni – ad una logica che mira
ad evitare che persone, le quali necessitano assumere derivati dalla
cannabis, soprattutto a titolo analgesico, debbano, per ovviare a siffatta
necessità, entrare in rapporto con coloro operano professionalmente nell’ambito
dello spaccio.
E’ ben vero che il dato testuale prevede una preventiva quanto necessaria
autorizzazione in relazione a situazioni specifiche che rientrino nel concetto
di terapia.
E’, peraltro, vero che – come d’uso nel nostro paese – ciò che la destra offre,
la sinistra ritira, nel senso che troppi fardelli burocratici si oppongono ad
una sperimentazione seria e scientificamente attendibile della cannabis come
strumento antagonista nella terapia antalgica.
In conclusione, pur considerando la pronunzia del S.C. come un sussulto
dell’ancient regime giurisprudenziale, il segnale che da essa proviene non può
e non deve essere sottovalutato, in quanto la decisione, immediatamente ripresa
dai media in modo superficiale e disinformato (ma non è una novità purtroppo),
può avere effetti destabilizzanti in sede giurisprudenziale, provocando nuovi
contrasti, incertezze e conflitti interpretativi.
Non si può escludere un estremo intervento delle SS. UU.
Certo è che se dovesse prevalere il principio regressivo propugnato con la
sentenza in commento, ricadremmo in una situazione di oscurantismo giuridico
dal quale ben difficilmente si potrebbe riemergere.
Non si tratta, infatti, come in maniera demagogica e populista, taluna parte
sostiene di addivenire ad una irresponsabile libertà di assumere droga; si
tratta, invece, di ponderare e considerare, soprattutto in relazione
all’assunzione di cannabis (e non solo per scopi ludici o similari),
un’alternativa alla diffusione del mercato attuale, anche con forme di
controllo che possono essere elaborate.
* Avvocato in Rimini consulente Asaps
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