Un’immagine dell’incidente che si è verificato il 22 febbraio sulla A22 per nebbia - foto Corriere.it (Asaps), FORLÌ, 1 Marzo 2008 – Avete voglia, voi, di gridare “nebbia killer”. Avete voglia di lanciare anatemi contro chi vi dice che sulla strada c’è qualcosa che non funziona, qualcosa che dobbiamo fermare. A Treviso, lunedì sera, un camion piomba su una colonna di veicoli fermi in A27 e provoca tre morti. Ieri si sono tenuti i funerali di due delle vittime di Fiumicino, e la colpa è ancora una volta di una strada. A volte si parla di “autostrada della morte”, altre ancora di “incrocio maledetto” o di “nebbia killer”. Dello svincolo autostradale della A27, si dice un gran male. È quello che conduce alla tangenziale di Mestre e sulle agenzie si legge che è “tristemente conosciuto per la sua pericolosità, al punto che si è tentato di ridurne i rischi con l’introduzione di sistemi luminosi e di segnalazione di velocità”. Già, la velocità. Ma attenzione: noi siamo i primi a sostenere la necessità di riportare le nostre infrastrutture a livelli degni di un paese civile, e non si dimentichi che fummo noi dell’Asaps a condurre un’equipe di Speciale Tg1 lungo il vergognoso tracciato della “famigerata” E45, rimasto tale anche dopo la denuncia della tv di Stato. Tre chilometri di strada urbana, come quella in cui è avvenuto il terribile schianto di Fiumicino, possono rappresentare solo un fattore favorente della velocità, nel senso che si tratta di un rettilineo: il resto lo ha fatto lo sciagurato che sembra aver perso il controllo della sua auto più o meno a 200 all’ora, finendo sulla fermata dello scuolabus. Ovviamente, ci viene da pensare a quanto pericolose siano le fermate italiane: un palo con un cartello, spesso senza luci e nemmeno orari, sul selciato sterrato a 10 centimetri dalla striscia longitudinale continua. Comunque la si veda, non è però colpa dell’arteria: la strada è senza vita, non ha un’anima, non pensa, non si muove. Sta semplicemente lì, granello su granello, buca su buca. Siamo noi che ci stiamo sopra, siamo noi che decidiamo di correre in autostrada nella nebbia (50 km/h) o sotto la pioggia (110 km/h). L’investitore dell’A27 era sotto l’effetto di cocaina. Si dice che siano in molti a farne uso: lo hanno detto Le Iene, lo hanno rivelato le analisi sulle acque di fiumi come l’Arno, lo dicono i rarissimi servizi a campione sulle nostre strade. Lo dicono le autopsie. Questo riconduce l’uomo al suo ruolo, alla sua colpa, alla circostanza che purtroppo dobbiamo scientificamente rilevare: è carnefice di sé stesso. Ma non vogliamo accettarlo e ciò è senza dubbio un problema. Ci spieghiamo: un motociclista che a 200 all’ora rovina a terra su una strada statale, e non su una pista, è destinato ad impattare con il corpo contro gli ostacoli che la stessa orografia impone. Ovviamente, con molta probabilità, muore. Certo, la segnaletica selvaggia e l’incuria completano l’opera, ma il limite di velocità serve ad indicare una soglia di sicurezza attiva e passiva, la sopravvivenza propria e degli altri. Vogliamo parlare di auto? Di camion? di infrastrutture? Di regole, anche da parte dei controllori, puntualmente trasgredite? Facciamo notte. Parliamo di noi, piuttosto. Fateci caso: è sempre colpa degli altri o del contesto. Sarà per il vezzo di dare al titolo d’apertura l’effetto di uno strillo, ma quando ad uccidere è un extracomunitario, allora ci ricordiamo che le braccia che tengono il volante sono quelle di un uomo, che ha i piedi sull’acceleratore e la testa chissà dove, magari rapita dai fumi dell’alcol o dall’estasi di una sniffata di coca o da un tiro di marijuana. Nossignori, troppo comodo. Qui gli assassini siamo noi. La strada è degli uomini e sono loro che ogni giorno tirano quella striscia di sangue che li divide dal diritto alla vita, dal diritto alla salute, dal diritto di tornare a casa. Lo dice la Costituzione, A Treviso, lunedì, un uomo che guidava un camion finito sulle auto incolonnate, è morto, imponendo la stessa sorte a due persone che viaggiavano su un’Alfa 156. Tutto è finito così, in un attimo. Così, si indaga a Fiumicino ed a Cremona, dove la “nebbia killer” ha fatto 7 morti, e tutti sono lì magari a studiare come far alzare la nebbia. Si pensa a giganteschi impianti di riscaldamento, a lanci di razzi con il sale. Ma di andare a 50 all’ora, quando c’è la nebbia, non ci pensa mai nessuno? Possibile che solo dove c’è il Tutor – in grado di immortalare i veicoli anche nella nebbia – certe sciagure non accadono più? Possibile che tutti sanno a quali livelli è ormai arrivata la concorrenza nel trasporto merci su strada (tale da indurre i più tartassati a guidare 20 ore di fila, contro la legge ma per la propria sopravvivenza lavorativa), e che nessuno pensi a dotare massicciamente le forze di polizia di precursori per le sostanze stupefacenti? E, soprattutto, che sulla strada quelle forze di polizia finalmente ci tornino con organici ripianati e con un progetto vero? Perché, vedete, qui c’è bisogno di un grande, grandissimo sforzo. A cominciare proprio da chi la divisa la indossa, certo, ma anche dal resto dell’immaginaria catena di operatori e responsabili. Quando un anello della catena è più debole degli altri, si spezza. E allora non servirà a niente avere maglie d’acciaio tenute insieme dallo spago. L’iniziativa di Antonio Fojadelli, il procuratore capo di Treviso, che ha coraggiosamente confermato la presenza di coca nel sangue di una vittima, in particolare di colui che ha provocato il disastro, è un grido di dolore che dobbiamo raccogliere. È il Paese stesso che ne ha bisogno. Siamo sotto l’attacco che noi stessi ci sferriamo, gli uni contro gli altri, terribilmente indifesi. E, soprattutto, assolutamente ignari di ciò che sta accadendo. (Asaps) |
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