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Articoli 18/03/2005

Lavoro e fatica fisica e mentale

 

Lavoro e fatica fisica e mentale

di Antonia Liaci *

Sul posto di lavoro capita a volte di sentirsi stanchi, giù di tono, non perfettamente in grado di affrontare gli impegni quotidiani.
L’attività lavorativa fisica e mentale comporta, infatti, un dispendio di energie ed il rischio di affaticamento.
Le cellule dell’organismo funzionano per mezzo di energia derivata dall’assorbimento degli alimenti e dal consumo di ossigeno, con produzione di cataboliti (prodotti di rifiuto) che devono essere, poi, eliminati o modificati, perchè il loro accumulo determinerebbe un rallentamento delle funzioni fino alla lesione ed alla morte cellulare. L’attività intensa e prolungata provoca uno stato di “intossicazione cellulare”, denominata fatica cellulare.
Comunemente con la parola fatica si fa riferimento all’affaticamento fisico, ma l’attività mentale e quella muscolare sono funzioni analoghe di elementi cellulari, per cui la fatica mentale non può essere nettamente differenziata dalla fatica muscolare.
Anche gli organi sensoriali determinano affaticamento, perchè trasmettono ai centri cerebrali stimoli continui, mettendo in atto riflessi generali e locali, e contrazioni muscolari.

Si possono, perciò, identificare tre tipi di fatica: fisica, mentale e sensoriale. A queste si deve aggiungere la cosiddetta “fatica generica”, che non è determinata dal lavoro in sè, ma dalle attività basali dell’organismo che ne consentono lo stato di coscienza, e che sono regolate da una formazione posta nel tronco cerebrale, il sistema reticolare mesencefalico (SRE), strettamente correlato con il sistema nervoso autonomo che regola l’attività involontaria, ed esplica la sua azione su tutte le attività nervose della vita vegetativa e di relazione del soggetto.
Nel lavoro che comporta impegno fisico l’attività muscolare può essere di tipo dinamico o statico. Nel primo caso vi sono fasi alterne di contrazione e di rilasciamento, che consentono il rifornimento di ossigeno e l’eliminazione dei cataboliti; nel secondo, invece, il muscolo permane in contrazione, con aumento della tensione delle fibre muscolari e della pressione sui vasi sanguigni, conseguente arresto del flusso di sangue, ed insufficiente apporto di ossigeno e di sostanze energetiche.Il lavoro statico è, quindi, più faticoso di quello dinamico. Ad esempio, un servizio svolto stando a lungo in piedi e nella stessa posizione stanca di più di uno della stessa durata svolto camminando. L’affaticamento muscolare si manifesta con calo del rendimento, per cui il muscolo non riesce più a mantenere la contrazione, con aumento dell’acido lattico e diminuzione del glicogeno, comparsa di sensazioni dolorose, rigidità ed indolenzimento, e dipende dalla capacità di ossigenazione dei muscoli, quindi, dallo stato di funzionalità del sistema respiratorio e cardiocircolatorio, dall’allenamento fisico, dalla durata e dal tipo del lavoro, dalla sua intensità e velocità di esecuzione e dalle condizioni ambientali.

La fatica mentale insorge, invece, in lavori che implicano un grande sforzo di concentrazione, di percezione sensoriale e di particolare abilità, nonchè nelle attività fisiche e psichiche di lunga durata, nei lavori ripetitivi, in attività di grande responsabilità, in condizioni di disagio ambientale e sociale e di cattiva salute.
Il sistema di controllo mentale deve in questi casi spendere grande quantità di energia per integrare le risposte agli stimoli provenienti dai vari sottosistemi.
Il lavoro automatico e sempre uguale a se stesso ingenera disinteresse e noia, con effetti deleteri sul rendimento, perchè i fattori emozionali e gli stimoli che arrivano dall’ambiente esterno ed interno sono scarsi ed inefficienti, per cui il centro diencefalico della fatica, che provoca inibizione delle funzioni psicosensoriali e psicomotorie, prevale sul SRE attivante, facendo insorgere uno stato di vera e propria “fatica da scarso lavoro mentale”.
Perciò, sia nel lavoro mentale sia in quello fisico la previsione di un successo lavorativo, la soddisfazione di un bisogno o un congruo compenso possono diminuire il senso di fatica. Alla base di questo meccanismo vi è la motivazione al lavoro, che modifica gli effetti in senso favorevole.

I sintomi della fatica mentale sono umore depresso, senso di stanchezza, nervosismo, insonnia, desiderio di sospendere il lavoro.
Se gli episodi acuti di fatica vengono accumulati nel tempo e non adeguatamente smaltiti con il riposo, può subentrare uno stato di “fatica cronica”, che in molti casi conduce alla somatizzazione dei disturbi, in particolare dell’apparato cardiocircolatorio e gastrointestinale, fino all’insorgenza di vere e proprie malattie psicosomatiche.
Esiste un meccanismo di preservazione dell’organismo nei confronti della fatica, che è la stanchezza, ossia uno stato fisiologico di esaurimento funzionale di organi ed apparati, la cui insorgenza dipende dal tempo impiegato a consumare le riserve energetiche destinate alle varie attività, e che, anzichè sollecitare una risposta agli stimoli, abbassa il livello di vigilanza e di percezione degli stimoli sensoriali, creando una barriera difensiva contro gli stessi, ed inducendo al riposo ed al sonno.
I sintomi della stanchezza sono gli stessi della fatica, ma quest’ultima si determina quando l’organismo non rispetta l’allarme dettato dalla stanchezza, contrastando, volontariamente o per il persistere degli stimoli, la fisiologica necessità di riposo, e così il recupero delle riserve energetiche.
Subentrano allora sensazioni di malessere e calo del rendimento più accentuati, che possono arrivare alla perdita di capacità di concentrazione e di attenzione, e quindi ad errori, anche pericolosi, nella conduzione del lavoro.
Di qui l’importanza dell’introduzione nei ritmi di lavoro dei cosiddetti “tempi di recupero”.
Lavorare per periodi prolungati che portano all’affaticamento, anzichè determinare l’aumento del rendimento, finisce, infatti, per farlo diminuire. L’organismo ha la tendenza ad adeguare spontaneamente il ritmo di lavoro al proprio ritmo biologico, in modo da ottimizzare la propria efficienza, e l’allenamento fisico e mentale riduce il dispendio di energia, aumentando il livello di resistenza alla fatica; ma i tempi di recupero sono fondamentali, proprio perchè la fatica è legata ad un eccessivo consumo energetico proporzionale all’impegno ed alla durata del lavoro.
Per una corretta pianificazione del lavoro bisogna, perciò, predisporre il numero e la durata di pause necessarie per evitare di raggiungere lo stato di affaticamento, tenendo anche presente che esistono pause imposte dal lavoro stesso (ad esempio i tempi di attesa per una fotocopia, i tempi per cercare un fascicolo da trattare o per la manutenzione ordinaria degli strumenti di lavoro), e le pause spontanee, indotte, invece, dalla necessità fisiologica di riposarsi per un momento.
È evidente che le pause devono essere proporzionate alla “pesantezza” del lavoro (il lavoro statico richiede, per esempio, tempi di recupero maggiori del lavoro dinamico), e che la necessità di pause è maggiore nella parte finale dell’orario di servizio.
È stato, inoltre, dimostrato che il recupero fisico si attua in prevalenza nella parte iniziale della pausa, perciò si rivelano più produttive pause brevi, ma frequenti, nel corso della giornata lavorativa rispetto ad un’ unica lunga pausa.


* Medico Capo della Polizia di Stato
Questura di Ragusa - Ufficio Sanitario.

 

 

di Antonia Liaci

da "Il Centauro n. 93"
Venerdì, 18 Marzo 2005
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