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Articoli 08/03/2005

Assumersi il rischio di essere risarciti

 

Assumersi il rischio di essere risarciti

di Michele Leoni*

Con un’importante sentenza (11.3.2004, n. 4993), la Suprema Corte ha di recente puntualizzato che accettare di salire in auto o in moto in condizioni di non normalità o di irregolarità, se da un lato comporta la condivisione dei rischi, così riferibili a entrambi (conducente e trasportato), dei danni provocati dal conducente, dall’altro però non determina la perdita, per il trasportato, del proprio diritto al risarcimento nei confronti del conducente stesso, in caso di incidente. Più precisamente, la Corte ha affermato che “qualora la messa in circolazione dell’autoveicolo in condizioni di insicurezza sia ricollegabile all’azione o all’omissione non solo del trasportato, ma anche del conducente (che prima di iniziare o proseguire la marcia deve controllare che essa avvenga in conformità alle normali norme di prudenza e sicurezza), fra costoro si è formato il consenso alla circolazione medesima con consapevole partecipazione di ciascuno alla condotta colposa dell’altro e accettazione dei relativi rischi. Pertanto si verifica un’ipotesi di cooperazione nel fatto colposo, cioè di cooperazione nell’azione produttiva dell’evento (diversa da quella in cui i distinti fatti colposi convergono autonomamente nella produzione dell’evento). In tale situazione, a parte l’eventuale responsabilità verso terzi, secondo la disciplina dell’art. 2054 cc, deve ritenersi risarcibile, a carico del conducente del suddetto veicolo e secondo la normativa generale degli artt. 2043, 2056, 1227 cc, anche il pregiudizio all’integrità fisica che il trasportato abbia subito in conseguenza dell’incidente, tenuto conto che il comportamento dello stesso non può valere ad interrompere il nesso causale fra la condotta del conducente ed il danno, né ad integrare un valido consenso alla lesione ricevuta, vertendosi in materia di diritti indisponibili”.
Il caso di specie riguardava l’ipotesi classica del trasportato che, con l’assenso del conducente, omette di allacciarsi le cinture di sicurezza. La Corte ha qui riaffermato il principio secondo cui la trascuratezza verso le norme di sicurezza e di prudenza non supera comunque, a beneficio del trasportato, il limite costituzionale della indisponibilità del diritto alla vita e all’integrità fisica (ma anche psichica, cioè psico-fisica).
Apparentemente, questa pronuncia non sembra poi così particolare, in quanto il conducente, comunque, dovrebbe essere responsabile dei danni causati al trasportato quando la situazione illegittima in cui o per cui si è verificato il sinistro e si sono determinate le lesioni in capo al trasportato, è a lui imputabile. Nel caso delle cinture dei sicurezza, infatti, avendo egli comunque la disponibilità dell’auto (o comunque potendo egli decidere di non guidare se il trasportato non si mette in regola con le norme di sicurezza), e quindi dipendendo in ogni caso da lui la situazione di fatto che si è determinata, egli dovrebbe essere comunque responsabile dei danni che il trasportato ha subito.
In altri termini, l’accondiscendenza del trasportato a “imbarcarsi” senza cinture (ad esempio, anche nel caso in cui queste non funzionino), se da un lato realizza il cosiddetto consenso dell’avente diritto, dall’altro, però, non è il frutto di un accordo fra le parti, conducente e trasportato, come tale riconducibile a uno schema di contrattazione. Infatti, come detto, se il conducente non voleva, non si poneva alla guida. E allora? Dov’è la peculiarità di una simile pronuncia? E’ nel fatto che essa riafferma in radice il principio dell’indisponibilità dei beni dell’integrità fisica e della vita, i quali non possono essere sottoposti a rischi gratuiti e non bilanciati da interessi antagonisti. Viene cioè ribadito, per una via assolutamente sottile, quel caposaldo morale (peraltro variamente dibattuto), che, ragionando per massimi sistemi, conduce poi al divieto dell’eutanasia (e altro), e impone comunque il sacrificio del bene della libertà. Ma, a parte questo risvolto così “importante”, questa sentenza impone anche altre, apparentemente spicciole, ma, a ben vedere, comunque incisive. In fatti la decisione della Corte, se appare di così semplice intuizione nel caso di mancato allacciamento delle cinture di sicurezza, non è invece così lineare se proiettata a tutti i possibili casi in cui conducente e trasportato si pongano in marcia in condizioni comunque di insicurezza. Facciamo, infatti, l’esempio eclatante del conducente che si ponga alla guida in stato di ebbrezza da alcool o di stupefazione da uso di droga (si tratta del solito tasto dolente e drammatico delle stragi del sabato sera, e quant’altro affine in termini di sballo). Anche in questo caso, il conducente è comunque responsabile di tutto ciò che compie in quanto la sua condizione di precarietà psico-fisica, per essere riconducibile a una sua libera scelta, non lo scusa. Ma, nella oggettiva concretezza di una simile situazione, ci si deve anche rappresentare il fatto che egli, forse, non può neppure rendersi conto di ciò che fa (su un piano strettamente naturalistico, oggettivamente, egli non è compos sui) e che, quindi, più razionalmente, in un simile frangente, competerebbe al trasportato (se lucido) impedirgli di guidare. In questo caso, e sotto questo angolo visuale, allora, la sentenza sopra citata non rappresenta un incentivo alla responsabilizzazione del trasportato (soprattutto giovane), al quale, così, viene comunque assicurata una ragione in più per pretendere il risarcimento del danno, e viene data una ragione in meno sul piano della deterrenza.


* Gip Tribunale di Forlì.

 

di Michele Leoni

da "Il Centauro n. 93"
Martedì, 08 Marzo 2005
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