Nel procedimento
disciplinare instaurato nei confronti di un pubblico dipendente a seguito
di patteggiamento, non si applica il termine di decadenza di cui all’art.
9 l. 19/1990 di novanta giorni per la conclusione del procedimento disciplinare,
ma la disciplina generale, e più ampia, di cui al t.u. 10 gennaio
1957, n. 3.
Lo ha ribadito la Sezione IV del Consiglio di Stato, con la sentenza
n. 1275 del 25 marzo 2005, precisando che in caso di sentenza penale
di condanna di un pubblico dipendente, conseguente a patteggiamento,
non si verifica quella compiutezza nella raccolta degli elementi di
prova, tipica del rito ordinario, onde non può escludersi che
la pubblica amministrazione, datrice di lavoro, allo scopo di valutare
i fatti commessi dall’impiegato a fini disciplinari, effettui autonomi
accertamenti.
(Altalex, 7 aprile 2005)
Consiglio di Stato
Sezione IV
Sentenza 25 marzo 2005, n. 1275
FATTO
Con la impugnata sentenza il giudice di primo grado rigettava il ricorso
proposto dall’odierno appellante, C.S., già ispettore della Polizia
di Stato, avverso il provvedimento con il quale era stato destituito
dal servizio, a seguito di patteggiamento penale per fatti gravi - avere
intrattenuto rapporti con pregiudicati, avere agevolato la vendita di
autoveicoli di provenienza furtiva, avere ottenuto rimborsi non dovuti
da assicurazioni, avere gestito sul conto corrente bancario somme non
proprie, avere agevolato "extracomunitari" - deducendo le
censure di illegittimità ed eccesso di potere sotto vari profili.
Deduceva la tardività dell’inizio del procedimento disciplinare,
la carenza nell’accertamento dei fatti, la illogicità e ingiustizia
della sanzione, la inversione procedimentale, perché l’amministrazione
avrebbe dovuto collocare a riposo il dipendente, già colpito
da infermità.
Il giudice di primo grado rigettava tutte le censure con la impugnata
sentenza, fatta oggetto di gravame sotto i seguenti profili.
Si reitera nuovamente la censura di tardività dell’inizio del
procedimento disciplinare, rispetto alla conoscenza (pubblicazione in
luogo del giudicato) della sentenza patteggiata; si deduce l’eccesso
di potere per difetto di istruttoria e la ingiustizia rispetto ad altre
vicende, derivanti da patteggiamenti penali, in danno di colleghi dell’appellante,
che si erano chiuse con provvedimenti meno punitivi della destituzione;
si deduce altresì che l’amministrazione avrebbe dovuto provvedere
a collocare a riposo il dipendente per proclamata inabilità,
stante la sua situazione di salute.
Si è costituito il Ministero appellato, chiedendo il rigetto
dell’appello in quanto infondato.
Alla udienza pubblica del 22 febbraio 2005 la causa è stata intrattenuta
in decisione.
DIRITTO
1. L’appellante deduce, in sostanza, i medesimi motivi di censura ritenuti
infondati dal primo giudice, relativamente alla tardività dell’inizio
del procedimento disciplinare, al difetto di istruttoria e autonoma
valutazione, alla ingiustizia della pena, perché troppo severa
e al dovere della amministrazione di collocarlo preventivamente, rispetto
al provvedimento disciplinare, a riposo, a causa delle sue condizioni
di salute.
Con il primo motivo di appello l’appellante insiste sulla censura, già
rigettata in prime cure, relativa all’asserito mancato rispetto dei
termini previsti dall’art. 9 l. 19/1990.
La doglianza è infondata.
La sentenza della Corte costituzionale n. 197/1999 ha stabilito al proposito
che nel procedimento disciplinare instaurato a seguito di patteggiamento
(sentenza che applica la pena su richiesta delle parti), come nel caso
all’esame del Collegio, per la conclusione del procedimento non si applica
il termine di decadenza (che pertanto non assume carattere di perentorietà)
di cui all’art. 9 l. 19/1990 di novanta giorni, poiché la suddetta
sentenza non presuppone quella completezza nella raccolta degli elementi
di prova, che è invece tipica del rito ordinario, sicché
non può escludersi la necessità di nuovi accertamenti
da parte dell’amministrazione.
Anche questa sezione ha ribadito, in più occasioni (da ultimo
7 giugno 2004, n. 3619) che il termine per la conclusione del procedimento
disciplinare stabilito a pena di decadenza dall’art. 9 l. 19/1990 non
trova applicazione nel caso in cui lo stesso sia stato attivato a seguito
di sentenza di condanna patteggiata (anche, in tal senso, C. Stato,
VI, 2565, del 3 maggio 2000).
In caso di sentenza penale di condanna di un pubblico dipendente, conseguente
a richiesta delle parti (c.d. patteggiamento), non si verifica quella
compiutezza nella raccolta degli elementi di prova, tipica del rito
ordinario, onde non può escludersi che la pubblica amministrazione,
datrice di lavoro, allo scopo di valutare i fatti commessi dall’impiegato
a fini disciplinari, effettui autonomi accertamenti.
In tale ipotesi, pertanto, non è applicabile in ogni caso il
termine di novanta giorni posto dall’art. 9 l. 19/1990 per la conclusione
del procedimento disciplinare, ma la disciplina generale, e più
ampia, di cui al t.u. 10 gennaio 1957, n. 3 (in tal senso, C. Stato,
V, 4440/2001, 175/2003, VI, 2639/2002).
In ogni caso, la dedotta violazione dei termini non sussiste, anche
ad applicare il termine perentorio, facendo decorrere il dies a quo
dal giorno di irrevocabilità della sentenza e non dal giorno
di pubblicazione.
Né sono meritevoli di apprezzamento le censure relative al mancato
rispetto, nel non meglio precisato senso, dei termini interni del procedimento
disciplinare.
In materia di infrazioni, che possono sfociare in provvedimenti sanzionatori,
vale il generale principio della immediatezza soggettiva e relativa.
L’immediatezza significa che la amministrazione deve contestare i fatti
subito dopo esserne venuta a conoscenza e solo nel caso che la conoscenza
tardiva sia imputabile al medesimo datore di lavoro pubblico, al quale
è attribuito, per esempio, un potere di controllo sul dipendente,
potrebbe ritenersi illegittima la contestazione avvenuta molto tempo
dopo la commissione del fatto.
D’altronde, proprio il tenore della seconda censura proposta dall’appellante
(di difetto di istruttoria, perché basata quasi esclusivamente
sulla sentenza di patteggiamento) rafforza la infondatezza della prima
censura, appuntata sulla pretesa perentorietà dei termini per
iniziare il procedimento disciplinare.
La sentenza resa ai sensi dell’art. 444 c.p.p., proprio perché
esige una autonoma valutazione in sede disciplinare dei fatti ascritti
al dipendente, comporta che il dipendente medesimo non può pertanto
lamentarsi della tardività, necessaria e sufficiente, dovuta
al tempo occorrente per tale valutazione.
2. Con riguardo appunto a tale seconda censura, con la quale si lamenta
che la sanzione disciplinare sia stata assunta sulla base pressoché
esclusiva della sentenza penale di condanna, anche essa è da
rigettarsi perché infondata.
Se è vera la esigenza di una autonoma valutazione dei fatti in
sede disciplinare, pure a seguito di sentenza penale di patteggiamento,
che non può essere assunta a presupposto unico della applicazione
del provvedimento sanzionatorio, tuttavia è consentito il richiamo
agli atti del procedimento penale definito con il patteggiamento, per
ritenere accertati fatti che siano stati espressamente ammessi, o che
risultino, comunque addebitabili all’incolpato, sicché il riferimento
esclusivo alle risultanze processuali penali, se non addotto quale esclusivo
fondamento della valutazione disciplinare, è autorizzato ed idoneo
a concorrere validamente alla formulazione del giudizio conclusivo di
responsabilità di dipendenti.
Ma vi è da aggiungere che, nella specie, come puntualmente osservato
dal primo giudice, l’appellante non nega, né confuta, in alcun
modo la effettività storica dei fatti, così come posti
a fondamento della sentenza di patteggiamento, ma deduce soltanto a
proposito della "minore gravità" che soggettivamente,
a suo avviso, sarebbe da attribuire agli stessi, a causa del ruolo (ridimensionato,
come emerge dalla istruttoria disciplinare, da "capo della organizzazione
a pollo") che egli avrebbe assunto nella commissione e perpetrazione
dei vari reati ascrittigli, congiuntamente ad altre persone.
3. Con riguardo alla censura di sproporzione ed estrema gravità
della pena inflittagli, alla presunta disparità di trattamento,
occorre osservare che essa attiene ad aspetti di valutazione riservata
alla amministrazione.
In ogni caso, anche a voler sindacare la sanzione di destituzione sotto
il profilo dell’eccesso di potere perché sproporzionata, il Collegio
osserva che il principio di proporzionalità, a parte la sua derivazione
comunitaria, è principio generale dell’ordinamento: esso implica
che la pubblica amministrazione debba adottare la soluzione idonea ed
adeguata, comportante il sacrificio minore possibile per gli interessi
compresenti di vario tipo.
In materia sanzionatoria tale principio è specificato, quale
principio di giustizia sostanziale, dall’art. 2106 c.c., in ambito della
disciplina del rapporto di lavoro, che fa riferimento alla gravità
della infrazione.
La determinazione relativa alla entità della sanzione è
pertanto espressione di tipica valutazione discrezionale della pubblica
amministrazione datrice di lavoro, di per sé insindacabile da
parte del giudice amministrativo, tranne in casi in cui appaia manifestamente
anomala o sproporzionata o particolarmente severa in quanto determinata
nel massimo consentito, e il giudice non può sostituire la propria
valutazione a quella della amministrazione, ma può solo verificare
che l’atto sia sorretto da adeguata motivazione e basato su fatti particolarmente
gravi tali da indurla a considerali incompatibili con la prosecuzione
del rapporto di lavoro.
Al Collegio non pare illogico e sproporzionato l’apprezzamento dell’amministrazione
che, sulla base di fatti risultanti dal processo penale, come sopra
descritti (capo ispettore di polizia che si rende colpevole di intrattenere
rapporti con pregiudicati, si attiva per agevolare vendite di autoveicoli
di provenienza da furti, ottiene rimborsi indebiti da compagnie assicurative,
si attiva per favorire illegittimamente "extracomunitari"
e per tali fatti condannato a un anno e otto mesi), conclusosi con sentenza
di condanna a seguito di patteggiamento, sottoponendo comunque i fatti
ad autonoma valutazione, adotti il grave provvedimento della destituzione,
ritenendo incompatibile tali comportamenti con la prosecuzione del servizio.
4. Del tutto infondata è la censura di disparità di trattamento,
in relazione a fatti e soggetti del tutto differenti, così come
ogni vicenda relativa a comportamenti suscettibili di essere valutati
dal punto di vista disciplinare non può non assumere una valenza
del tutto propria, difficilmente rapportabile ad altre situazioni personali.
5. Allo stesso modo, del tutto infondata è la pretesa relativa
ad una asserita pregiudizialità o preferenza che l’amministrazione
avrebbe dovuto riservare alla possibilità di collocare il dipendente
a riposo, anziché provvedere alla destituzione.
In primo luogo, in senso contrario depone la completa diversità
e indipendenza tra i due procedimenti. In secondo luogo, la pretesa
di parte appellante è del tutto infondata, non trovando appiglio
normativo alcuno, dipendendo la anteriorità della fine di un
procedimento rispetto all’altro soltanto dagli apprezzamenti fattuali
e dai comportamenti assunti nella realtà dall’amministrazione,
senza, a tal fine, vincoli funzionali di sorta.
6. Per le considerazioni sopra svolte, l’appello va respinto.
La condanna alle spese del giudizio segue il principio di soccombenza;
le spese sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione quarta, definitivamente
pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, così provvede:
rigetta l’appello, confermando la impugnata sentenza. Condanna parte
appellante al pagamento delle spese del giudizio, liquidandole in euro
duemilacinquecento.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dalla autorità
amministrativa.