Il Tribunale
di Rovereto, con la sentenza n. 32 del 10 febbraio 2005, affronta in
maniera esplicita il problema della interpretazione della disposizione
normativa di cui all’articolo 507 c.p.p., riaffermando - in ossequio
al modello accusatorio recepito dal nuovo codice di procedura penale
- con forza il principio secondo il quale iudex iudicare debet secundum
probata partium.
Consentendo all’organo giudicante un’intrusione sul terreno della prova,
la norma - anche per come viene applicata quotidianamente - rischia
di contaminare il citato modello accusatorio: per contro, la sentenza
in commento consente di evitare tale rischio, proponendo una lettura
costituzionalmente orientata della controversa disposizione normativa,
rifacendosi ai canoni del cd. giusto processo di cui al novellato art.
111 della Costituzione, e sancendo che "l’art. 507 CPP non può
essere attualmente interpretato (.) nel senso che al giudice va riconosciuto
un ampio potere suppletivo tale da sopperire a carene e negligenze delle
parti".
Difatti, "l’unica lettura che rende la norma di cui all’art. 507
c.p.p. compatibile con il principio costituzionale è quella per
cui al giudice (previa, del caso, sollecitazione delle parti) va riconosciuto
un semplice potere di integrazione del dato acquisito qualora ciò
risulti necessitato da quanto accertato nel contraddittorio, e sempre
che non si tratti di temi di prova di cui la parte pubblica o quella
privata avevano conoscenza e hanno omesso di allegare. Solo in un tal
caso, difatti, l’attività integrativa del giudice nell’acquisizione
del dato probatorio risulta assolutamente necessaria, in quanto il particolare
strumento di prova fosse non conosciuto dalle parti e sia emerso solo
a seguito dell’instaurato contraddittorio."
(Altalex, 25 marzo 2005. Nota a cura di Nicola Canestrini)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI ROVERETO
IN COMPOSIZIONE MONOCRATICA
Sentenza 32/05 g dd. 10 febbraio 2005
Il Giudice dott. Ettore di Fazio all’udienza di data 10 febbraio 2005
ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente
SENTENZA
nei confronti di:
*** libero contumace
imputato
del reato p.e.p. dagli artt. 81 cpv 496 C.P. per avere dichiarato falsamente
in data 21/6/2000 al personale della Stazione Carabinieri di*** M.C.
C.D. e M.O. P.D. nell’ambito di un controllo di Polizia - interrogata
sull’identità nell’ambito del predetto servizio di controllo
- la propria identità, il proprio stato e qualità personali
utilizzando il nominativo di P.A. In *** il ***
Con l’intervento del Pubblico Ministero dott. L.Malacarne e del difensore
di fiducia avv.to Nicola Canestrini del foro di Rovereto.
Il Pubblico Ministero chiede: condanna alla pena di mesi due di reclusione
più gg. 15 per la continuazione;
Il difensore chiede: l’assoluzione ex art. 530 c.p.p.
Fatto e Diritto
Tratto a giudizio per rispondere del reato ascritto non compariva innanzi
a questo giudice S.A. (notificato al domicilio eletto presso il difensore
di fiducia), venendo dichiarato contumace; dato ingresso all’istruttoria
dibattimentale veniva escusso il teste M.llo cc Catalano, ed all’esito
il PM e la difesa concludevano come da pv d’udienza.
Dall’istruttoria dibattimentale è emerso che:
• nel corso di un ordinario controllo svolto presso un cantiere
edile il 21/6/2000 uno degli operai presenti in cantiere è risultato
non provvisto del permesso di soggiorno;
• tale persona è stata quindi accompagnata presso il Comando
cc di Rovereto ed in quella sede ha dichiarato di chiamarsi P.A., asserendo
di non avere con sé documenti di identità;
•l’individuo è stato quindi accompagnato presso la Questura
di Trento, i cui operanti hanno provveduto ad identificarlo.
E’ pacifico che il teste M.llo ***, indicato quale unico testimone dalla
pubblica accusa, non ha direttamente proceduto alla identificazione
del soggetto fermato e qualificatosi come P.A.; la compiuta identificazione
di tale soggetto, difatti,è stata eseguita presso la Questura
di Trento, ma di tale attività non si ha contezza alcuna agli
atti del dibattimento.
Il PM ha sollecitato il ricorso allo strumento di cui all’art. 507 CPP,
chiedendo al giudice di provvedere in via autonoma ad acquisire gli
atti dell’accertamento ed a sentire come teste l’operante che ha proceduto
alla identificazione; si tratta di un tema di prova che era nella piena
disponibilità e conoscenza della pubblica accusa e non certo
emerso ex novo nel corso del dibattimento.
Chi scrive ritiene di non poter accedere alla sollecitazione in questione.
Difatti, è preliminare il rilievo per cui il processo penale,
secondo la disciplina e l’impostazione voluta dal legislatore, è
un processo di parti ispirato al principio accusatorio, nel quale la
prova si forma in dibattimento e nel quale ciascuna delle parti incontra
veri e propri oneri di allegazione; ognuna è tenuta a presentare
le proprie richieste di prova e sulla base delle rispettive allegazioni
deve formarsi il convincimento del giudice terzo. Insito al sistema
è che il giudice è assolutamente terzo rispetto alle parti
e non deve sostituirsi all’onere di allegazione che su di esse incombe,
a differenza di quanto accadeva nel sistema previdente ispirato al principio
inquisitorio, nel quale al giudice era demandato, con ampiezza di previsione
e di portata, il compito di accertare i fatti e di procedere officiosamente
a tutto quanto necessario a tale scopo.
E’ ben vero che l’art. 507 CPP riconosce al giudice la facoltà,
se assolutamente necessario, di disporre l’ufficio l’assunzione di nuovi
mezzi di prova; tale disposizione, tuttavia, in virtù di una
interpretazione sistematica e non limitata al mero dato letterale, non
può essere intesa nel senso di riconoscere sic et simpliciter
al giudice la possibilità di accertare i fatti in quanto, in
tal modo, si tornerebbe alla concezione (peraltro rispettabilissima,
ma che il legislatore ha inteso superare) previgente.
L’introduzione del principio costituzionale del giusto processo, che
è tale in quanto si svolge nel pieno contraddittorio delle parti
innanzi ad un giudice terzo ed imparziale, ulteriormente pone come punto
nevralgico l’aspetto della terzietà e della imparzialità
del giudice; vieppiù ne consegue che le norme processuali vanno
lette secondo una interpretazione costituzionalmente orientata che muova
dal presupposto indefettibile di cui si è detto.
Se così è, a giudizio di chi scrive l’art. 507 CPP non
può essere attualmente interpretato (se se ne vuole dare una
lettura costituzionalmente orientata) nel senso che al giudice va riconosciuto
un ampio potere suppletivo tale da sopperire a carene e negligenze delle
parti; in tal modo, difatti, egli non rispetterebbe il suo ruolo, costituzionalmente
stabilito, di terzietà ed imparzialità, divenendo egli,
al contrario e ad un tempo stesso, parte attiva nell’accertamento dei
fatti e soggetto che su tali fatti va a decidere. Se così è,
l’unica lettura che rende la norma di cui all’art. 507 CP compatibile
con il principio costituzionale è quella per cui al giudice (previa,
del caso, sollecitazione delle parti) va riconosciuto un semplice potere
di integrazione del dato acquisito qualora ciò risulti necessitato
da quanto accertato nel contraddittorio, e sempre che non si tratti
di temi di prova di cui la parte pubblica o quella privata avevano conoscenza
e hanno omesso di allegare. Solo in un tal caso, difatti, l’attività
integrativa del giudice nell’acquisizione del dato probatorio risulta
assolutamente necessaria, in quanto il particolare strumento di prova
fosse non conosciuto dalle parti e sia emerso solo a seguito dell’instaurato
contraddittorio.
Nel caso in esame, è evidente che l’attivazione del potere di
cui all’art. 507 CPP non è conseguente alla avvenuta emersione,
all’esito del contraddittorio, di una nuova fonte di prova, posto che
la parte pubblica era perfettamente a conoscenza che l’identificazione
del soggetto era stata condotta da altro soggetto operante ed aveva,
quindi, la piena possibilità di indicare e far assumere il relativo
mezzo istruttorio.
Detto questo, nessun elemento di prova consente di ritenere che
la persona fisica che ha dichiarato al M.llo *** di chiamarsi P.A. va
individuata nella persona di S.A.; certamente esiste una persona con
tali generalità, come è confermato dalla copia del passaporto
della Repubblica d’Albania acquisito agli atti, ma nulla consente di
affermare che in tale soggetto va individuata la persona con cui è
venuto in contatto l’operante.
L’impossibilità di identificare fisicamente la persona che ha
dichiarato di chiamarsi P.A., di conseguenza, comporta l’adozione di
una pronunzia assolutoria nei confronti di S.A. con la formula per non
aver commesso il fatto (Cass. 1999/2700).
P.Q.M.
Visto l’art. 530 CPP;
assolve S.A. dall’imputazione ascritta per non aver commesso il fatto.
Motivi nei trenta giorni.
Rovereto, 10 febbraio 2005
Il
Giudice Dr. E. Di Fazio