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da "Altalex" - Danno esistenziale e risarcimento per lite temeraria

Tribunale Bologna, sez. II civile, sentenza 27.01.2005

da "Altalex"
Danno esistenziale e risarcimento per lite temeraria
Tribunale Bologna, sez. II civile, sentenza 27.01.2005

 

L’ingiustificata iniziativa di introdurre una causa per il pagamento di prestazioni professionali nei confronti di una persona che per due procedure su tre non aveva conferito alcun mandato, oltretutto con decreto ingiuntivo, quindi in modo più " invasivo " e incalzante di un atto introduttivo ordinario, produce un danno esistenziale nella persona così immotivatamente "aggredita" sul piano processuale.
Lo ha stabilito il Tribunale di Bologna, sez. II civile, con la sentenza del 27 gennaio 2005, accertando l’illecito processuale, ex art. 96 cpc. ("lite temeraria"), verificatosi per l’utilizzo con colpa grave dello strumento processuale in una fattispecie sostanziale infondata.
Il Tribunale, pur riconoscendo da un punto di vista processuale il diritto di azione, non ritiene sussistente, dal punto di vista sostanziale, il diritto di credito sotteso al diritto di azione. Lo svolgimento, infatti, di attività processuale in difetto di procura rientra nelle fattispecie di colpa grave ai sensi dell’art. 96 cpc, nell’accezione elaborata dalla giurisprudenza secondo cui “la colpa grave è la coscienza dell’infondatezza o la carenza della normale diligenza volta all’acquisizione di detta coscienza” ( Cass. 1983/3799).
L’art. 96 cpc. ha natura di norma speciale rispetto all’art. 2043 c.c. e ne inibisce, pertanto, l’invocazione, ma non pone chi agisce per il risarcimento di danni di origine processuale in una posizione deteriore e differente rispetto a chi agisce per danni extracontrattuali di diversa origine.
Il tribunale, qualificando il danno esistenziale come una delle categorie risarcibili del danno non patrimoniale previsto in generale dall’art. 2059, e precisamente come quella sofferenza che scaturisce dalla menomazione della qualità della vita derivata dall’illecito, ne ritiene la configurabilità anche nel caso prospettato, per l’impatto della vicenda processuale sull’esistenza della persona che si asserisce danneggiata e come "conseguenti preoccupazioni ".
Il valore della qualità della vita di relazione trova riscontro anche a livello costituzionale: è identificabile nell’art. 2 Cost., intendendosi la qualità della vita come estrinsecazione concreta del diritto alla realizzazione personale, sia per quanto attiene la propria condizione " interiore " rispetto alla vita stessa - vale a dire il diritto a realizzarsi senza dover fronteggiare psicologicamente situazioni di disagio e di stress-, sia per quanto attiene alle relazioni interpersonali e sociali.

 


(Altalex, 10 febbraio 2005. Nota a cura della dott.ssa Emanuela Tiramani. Si ringrazia il Prof. Paolo Cendon. Si veda anche il Forum sul tema)

 

 


 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI BOLOGNA - SECONDA SEZIONE CIVILE


nella persona del giudice unico Dott. Chiara GRAZIOSI ha pronunciato la seguente
 

SENTENZA


nella causa civile di I Grado iscritta al N. 12351/1999 R.G. promossa da:


S. R. CHE INOLTRE AGISCE IN QUALITA’ DI MANDATARIA GENERALE DEL PADRE I. S.
S. T.
elettivamente domiciliati in VIALE GOZZADINI, 1 - BOLOGNA, presso e nello studio dell’avv. VILLANI ELENA che li rappresenta e difende;

OPPONENTI

contro:

 

P. M.
elettivamente domiciliato in VIA DEL CANE, 8 - BOLOGNA, presso e nello studio dell’avv. GUIDA GUIDO che lo rappresenta e difende;
OPPOSTO


in punto a:
“OPPOSIZIONE A DECRETO INGIUNTIVO”.

 

CONCLUSIONI

Il procuratore degli opponenti chiede e conclude:
“Voglia il Tribunale di Bologna, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione reietta, revocare perché illegittimo, infondato o come meglio per le ragioni di cui in premessa il decreto ingiuntivo n. 1399 del Presidente del Tribunale di Bologna notificato il 15.10.99.
Autorizzarsi la chiamata in causa dei mandanti obbligati in solido con gli opponenti per le somme che potrebbero essere ritenute provate e dovute dagli attori al netto delle somme già corrisposte pari a Lire 15.125.000.
Con condanna del convenuto ex art. 96 comma 1 cpc al risarcimento dei danni da liquidarsi d’ufficio in favore delle opponenti R. e T. S..
Con vittoria di spese, competenze ed onorari”.
Il procuratore dell’opposto chiede e conclude:
“Piaccia al Giudice adito,
In via principale:
Respingere l’opposizione proposta dal Sig. Italo S. siccome infondata;
Accertare quanto dovuto dalle opponenti R. S. e T. S., in solido con il Sig. Italo S. e condannare le stesse a pagare detta somma in solido con quest’ultimo, oltre interessi;
In via subordinata:
Accertare quanto dovuto dal Sig. S. e condannare quest’ultimo al pagamento di quanto dovuto, oltre interessi;
Accertare quanto dovuto dalle opponenti R. S. e T. S., in solido con il Sig. Italo S. e condannare le stesse a pagare detta somma in solido con quest’ultimo, oltre interessi.
Con vittoria di spese, diritti ed onorari”.


Svolgimento del processo

Con citazione notificata il 23 novembre 1999 S. R., Italo e T. si opponevano a decreto ingiuntivo del pagamento all’avvocato M. P. di lire 87.911.330 oltre interessi legali e spese per prestazioni professionali. Esponevano che controparte aveva svolto attività professionale davanti al Tar, al Consiglio di Stato e al giudice penale per conto di una pluralità di parti. Rilevavano che davanti al Tar controparte aveva assistito 39 ricorrenti; davanti a Consiglio di Stato ne aveva assistiti sette, tra i quali non vi era l’opponente T.; quanto alla denuncia penale, essa era stata presentata il 20 ottobre 1991 solo da due persone, tra le quali l’opponente Italo ma non le altre due opponenti, sue figlie. Eccepivano pertanto il difetto di procura da parte delle figlie come appena esposto e asserivano che,una volta esaurita la fase cautelare davanti a Consiglio di Stato con esito negativo per i ricorrenti nel giugno 1992, da allora l’opposto non aveva più svolto attività a favore degli opponenti stessi. Questi, avvisati telefonicamente dell’imminente udienza fissata davanti al Tar per la discussione del merito del ricorso, il 5 febbraio 1997 revocavano il mandato all’opposto, che continuava a rappresentare gli altri ricorrenti. Il 14 ottobre 1998 gli opponenti "erano destinatari della richiesta di pagamento " di lire 119.487.503 (da cui controparte non aveva detratto l’acconto ricevuto di lire 15.125.000) e immediatamente la contestavano. Quanto alla vicenda penale eccepivano la prescrizione ai sensi dell’art.2956 c.c. dato che il procedimento si concluse con archiviazione del 12 marzo 1992, senza che dopo di allora controparte richiedesse alcun pagamento. Contestavano il parere del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati in ordine alla congruità dell’onorario, e asserivano l’esistenza di scorrettezze nella parcella presentata, chiedendo la chiamata in causa degli altri ricorrenti come obbligati in solido. Concludevano per la revoca del decreto e per la chiamata in causa dei suddetti vista la solidarietà " per le somme che potrebbero essere ritenute provate e dovute dagli attori al netto delle somme già corrisposte "; chiedevano anche la condanna di controparte ai sensi dell’art. 96 cpc. Si costituiva l’opposto ribadendo la propria pretesa. Disattesa l’istanza di chiamata in causa, era espletata una consulenza tecnica e, precisate le conclusioni, la causa era trattenuta all’esito dei termini difensivi.


Motivi della decisione

il decreto ingiuntivo è stato emesso nei confronti di tutti e tre gli attuali opponenti, nonostante la diversa posizione degli stessi rispetto al conferimento della procura all’avvocato P.. L’opposto ha poi ammesso che quanto al conferimento della procura la realtà è quella rappresentata dalla controparte in atto di citazione, e cioè solo Italo aveva conferito la procura per tutti e tre procedimenti, T. lo aveva conferito solo per la fase davanti al Tar e R. lo aveva conferito anche per la fase davanti al Consiglio di Stato ma non per la denuncia penale. L’opposto ha tuttavia affermato che la famiglia agiva come un’unica entità, e che il mancato conferimento di procura da parte delle figlie sarebbe stata soltanto una mancanza formale, in quanto gestivano la vicenda insieme al padre. Questo asserto tuttavia non è stato adeguatamente dimostrato dall’opposto, non sussistendo documenti che confermino la sua versione nè essendo stata questa oggetto di ammissione di controparte - la mera estrapolazione di qualche frase dalla lettera di contestazione e dalle difese degli opponenti (come quella che essi agivano " nel loro interesse " ) non è certo sufficiente a integrare la dimostrazione che doveva essere fornita, in quanto, oltre a dover tali frasi essere lette nel contesto di negazione di tale unicità di azione e gestione, esse possono agevolmente spiegarsi vista anche l’esistenza di una procedura nella quale effettivamente era stato conferito il mandato da tutte e tre le persone attuali opponenti, cioè la fase davanti al Tar. E naturalmente non può affermarsi che per il mero fatto di essere figlie d’Italo anche R. e T. assumevano solidamente le obbligazioni del padre, per cui è evidente che il decreto, che non differenzia in alcun modo le posizioni degli ingiunti, deve essere revocato. Riguardo poi alla questione della prescrizione, sollevata in relazione alla vicenda penale, l’opposto ribatte che controparte avrebbe ammesso di non avere estinto l’obbligazione il che comporterebbe l’inapplicabilità, ex art. 2959 c.c., dell’invocato art. 2956 c.c. In realtà, come si evince facilmente dalle conclusioni della citazione, oltre che dal corpo argomentativo della stessa, gli opponenti hanno negato di dover alcunché a controparte: han chiesto infatti la revoca del decreto, aggiungendo la richiesta di chiamata in causa degli altri ricorrenti per un’ evidente denegata ipotesi. Tali conclusioni sono state riproposte in sede di conclusioni precisate, e non appare certo sufficiente a superare questo dato il fatto che, nella conclusionale, tra le varie argomentazioni gli opponenti inseriscano anche quella della non conoscenza dell’obbligazione in questione. Si deve pertanto ritenere, non esistendo effettivamente atti di interruzione, che la prescrizione sia maturata per la prestazione relativa alla denuncia penale, non apparendo del resto condivisibile l’ulteriore argomentazione dell’opposto, nel senso che la prescrizione non opererebbe trattandosi di una prestazione unitaria: è evidente infatti che, anche se dal punto di vista storico la vicenda dovesse qualificarsi unitaria, si tratta di procedimenti separati dal punto di vista giuridico, attivati dinanzi a organi giurisdizionali diversi e da soggetti solo in parte coincidenti.
Deve ora vagliarsi l’aspetto, pure contestato, della congruità della parcella, ovviamente a questo punto solo per le procedure davanti ai giudici amministrativi, e tenendo conto dell’estraneità di T. alla procedura davanti al Consiglio di Stato. è stata svolta una consulenza tecnica i cui esiti sono stati contestati dall’opposto, il quale imputa al consulente di aver travalicato dai confini del suo compito tecnico intromettendosi in settori giuridici. In realtà il consulente non ha travalicato il suo compito, in quanto ha ben compreso il senso del quesito che gli era stato posto: alla luce degli atti di causa, questo non poteva certo consistere solo in una valutazione aritmetica dei rapporti di dare-avere tra le parti, ma si estendeva -come di frequente accade nelle cause relative a prestazioni professionali regolate da tariffe normative-a valutare la correttezza delle varie poste in relazione alle tariffe professionali applicabili. La valutazione del consulente tecnico appare corretta e lucidamente argomentata. Pertanto, per i dettagli si ritiene di poter rimandare alla sua condivisibile relazione, in particolare per quanto concerne l’eliminazione di alcune poste tra i diritti che sono state introdotte in contrasto con le tariffe applicabili. Appare corretta anche la valutazione del consulente sul valore delle controversie, valutazione indispensabile ai fini dell’applicazione delle tariffe, regolate com’è noto per scaglioni di valore, come pure la menzione del criterio dell’utilità per il cliente della prestazione eseguita dal professionista, da utilizzarsi-insieme alla considerazione della natura e della complessità della controversia- ai fini della determinazione concreta degli onorari. Il consulente inoltre ha correttamente valutato anche il profilo delle spese, riconoscendo come attribuibili, in modo del tutto condivisibile, solo quelle sostenute da " pezze " documentali. In sintesi, rimandando si ripete per i dettagli alla pregevole relazione del consulente, per la fase dinanzi al Tar appaiono riconoscibili all’opposto lire 226.940 di spese e lire 1.620.000 di diritti, mentre gli onorari secondo le tariffe si collocano tra Lit 1.720.000 e Lit 20.640.000. Per quanto riguarda la fase dinanzi al Consiglio di Stato, le spese ammontano a lire 560.000, i diritti a lire 1.792.000 e gli onorari si collocano tra lire 1.950.000 e lire 22.115.000. Deve tenersi conto del fatto che è pacifico che l’attività difensiva dell’opposto non ha recato un vantaggio concreto ai suoi assistiti al di là della sospensiva disposta dal Tar, sospensiva che è stata poi revocata ( dopo pochi mesi: la sospensiva è di gennaio, la revoca di maggio, nello stesso anno 1992 ) dal Consiglio di Stato; come evidenzia anche il consulente " la delibera comunale presunta illegittima ha trovato piena applicazione ". Tenuto conto di questo, e tenuto conto anche del grado effettivo di complessità della controversia anche alla luce dei provvedimenti giurisdizionali, nonché dell’intrinseco contenuto degli atti difensivi posti in essere da professionista, appare corretto quantificare gli onorari in lire 4.200.000 per la fase davanti al Tar e lire 3.300.000 per la fase davanti al Consiglio di Stato. Tale quantificazione appare corretta, alla luce dei criteri sopra citati, e anche se si riflette sul fatto che, nonostante la revoca del mandato sia avvenuta come si è visto a distanza di anni, cioè il 5 febbraio 1997, l’attività effettiva si è svolta quasi completamente in un periodo di tempo molto circoscritto ( alcuni mesi a cavallo tra 1991 e il 1992 ). D’altronde a questa valutazione non osta quella del Consiglio dell’Ordine relativa all’opinanento della parcella, che com’è noto non vincola il giudicante nella fase di cognizione piena, costituendo soltanto il presupposto perché si formi la prova legale idonea a sostenere la pretesa del professionista nella fase del decreto ingiuntivo. Si avrà pertanto lire (7.500.000 + 226.940 + 1.620.000 + 560.000 + 1.792.000 ) = lire 11.698.940. Di questa somma sarebbero debitori solidali Italo e R., nonché, fino alla concorrenza di lire 6.046.940, corrispondenti alla fase davanti al Tar, T.. Ma in effetti, come risulta anche dalla consulenza e non è in realtà discusso, Italo corrispose lire 12.500.000 in acconto. Ne consegue che non sussiste alcun credito dell’opposto nei confronti di nessuno degli opponenti, essendo risultati già estinti i debiti relativi alle fasi davanti al giudice amministrativo. La domanda monitoriamente introdotta va dunque respinta. Riguardo alle spese, seguono la soccombenza, liquidate come da dispositivo.
Come si è visto, gli opponenti propongono anche domanda per lite temeraria, specificando nelle difese conclusive che i danni di cui si chiede così il risarcimento deriverebbero dalla " colpa grave consistente nell’aver omesso quel minimo di diligenza che avrebbe dovuto far ritenere infondata la propria pretesa ". Si indica come danno quello che viene definito " impatto " che avrebbe "avuto la vicenda sull’esistenza delle sorelle S. destinatarie di una ingiunzione di pagamento per circa 90 milioni " quando " erano molto giovani ( una di loro ancora studentessa ) e con capacità economiche alquanto limitate ". Non essendo il padre Italo in condizioni di gestire direttamente la vicenda processuale, tale gestione sarebbe stata effettuata dalle opponenti dal 1999, " e le conseguenti preoccupazioni e disagi derivati sotto profilo economico " potrebbero secondo la difesa degli opponenti " essere causa di un danno comunque risarcibile e liquidabile secondo l’apprezzamento del giudice ". Sotto tale profilo nulla ribatte l’opposto nella replica, riferendosi, quanto alla domanda per lite temeraria, piuttosto alla sussistenza del presupposto della temerarietà della lite rispetto al diverso e ulteriore profilo dei danni ( si veda la replica dell’opposto alla fine della pag. 3). E quello che l’opposto ribadisce è, come già ricordato, il suo asserto che la mancanza delle firme delle figlie era qualcosa di puramente formale, che il padre si era impegnato " per sé e la sua famiglia " (replica citata, pag. 2 ) e che la famiglia agiva come un’unica entità. Si rimanda al riguardo a quanto già osservato più sopra, ricordando che, ovviamente, spettava al professionista dimostrare, in difetto di procura, l’esistenza del rapporto professionale. Si tratta di un’impostazione giuridica del tutto conforme ai principi generali e che è stata chiaramente affermata anche dalla Cassazione (si veda da ultimo la sentenza n. 24010 del 2004: " Per individuare il soggetto obbligato a corrispondere compenso professionale al difensore, occorre distinguere tra rapporto endoprocessuale nascente dal rilascio della procura alle liti e rapporto che si instaura tra il professionista incaricato e il soggetto che ha conferito l’incarico, il quale può anche essere diverso da colui che ha rilasciato la procura. In tal caso, chi agisce per il conseguimento del compenso ha l’onere di provare il conferimento dell’incarico da parte del terzo, dovendosi in difetto presumere che il cliente è colui che ha rilasciato la procura " ). Vista la qualità professionale della parte, non si può non ritenere che citare unitariamente i componenti di una famiglia senza distinguerne le singole posizioni - pur essendo l’attore ben consapevole ( infatti l’ha poi ammesso in corso di causa ) che queste posizioni quanto al rilascio della procura erano diverse -, e senza avere alcuna prova da fornire sull’esistenza di un rapporto diverso e ulteriore rispetto a quello generato dalla procura, rientra nelle fattispecie di colpa grave ai sensi dell’art. 96 cpc. così come da tempo illustrato dalla giurisprudenza consolidata ( si vedano già Cass. 1983/1308, secondo cui colpa grave è da intendersi " nel senso della consapevolezza, o dell’ignoranza derivante dal mancato uso di un minimo di diligenza, dell’infondatezza " della tesi fatta valere, oppure Cass. 1983/1973, per cui incorre in colpa grave chi ha "agito o insistito in una pretesa coscientemente infondata, e cioè senza il minimo esame della giustezza e della ragionevolezza della pretesa ", oppure ancora Cass. 1983/3799, per cui la colpa grave è la coscienza dell’infondatezza o la carenza della normale diligenza volta all’acquisizione di detta coscienza; su tale linea si collocano anche le più recenti 1990/4651, 1994/7101, 2000/9579, 2003/73 ).
L’elemento soggettivo, vista la qualità professionale dell’attore e la conformazione della sua pretesa, appare sussistente nei confronti delle opponenti R. e T. in relazione alla parte di ingiunzione riguardante le procedure per le quali esse non avevano rilasciato procura. Poiché R. non ha rilasciato procura esclusivamente per la procedura penale, a quest’ultima deve quindi limitarsi il vaglio dell’eventuale danno, mentre per T. esso riguarda anche la procedura davanti al Consiglio di Stato. Si ricorda che l’importo base indicato nel ricorso era di lire 103.036.330, comprendente le spese di opinanento per Lit 940.000; tale somma è stata ridotta, per l’acconto di Lit 15.125.000, a lire 87.911.330, che è la sorte ingiunta. Va altresì ricordato che, secondo il doc. 50 allegato al ricorso, cioè la nota spese, su un totale di lire 102.104.100, al netto da contributi e Iva, solo Lit 5.215.000 erano relative alla fase penale, mentre Lit 41.055.000 riguardavano la fase davanti il Consiglio di Stato nonché lire 38. 262. 940 la fase davanti al Tar.
E’ dunque evidente che la carenza di procura per la posizione di R. riguarda una parte assai modesta dell’ingiunzione, non tale quindi da potersi ritenere di per sé produttiva di danni ex art. 96 cpc. nei confronti della suddetta. D’altronde nel caso di specie la colpa grave, come si è già detto, si riscontra nell’aver agito contro chi non aveva rilasciato procura in difetto di alcun altro elemento idoneo a dimostrare l’esistenza di un rapporto professionale. Aver agito per un credito prescritto, invece, appare nel caso in esame una mera pretesa infondata, che non integra quindi di per sé il presupposto soggettivo dell’art.96. E’ dunque soltanto nei confronti di T. che può configurarsi una fattispecie ex art.96, avendo la stessa parte opponente in sostanza rinunciato alla pretesa ex art. 96 in relazione al padre Italo, visto quanto affermato -e sopra riassunto- in conclusionale. Per T. infatti le due pretese relative a vicende in cui non aveva rilasciato procura - Consiglio di Stato e procedimento penale - ammontano come si è appena visto a più della metà del credito complessivo per cui l’opposto ha agito. Appare quindi ragionevole ritenere che possano sussistere effetti dannosi specificamente collegabili a tale notevole parte della regiudicanda. Occorre a questo punto rilevare che quello che la difesa dell’opponente delinea è in sostanza in parte un danno patrimoniale e in parte un danno non patrimoniale. Da un lato infatti si mette in evidenza quello che viene definito " impatto " della vicenda sull’esistenza della persona convenuta in giudizio, successivamente sottolineando altresì anche le "preoccupazioni " che sarebbero scaturite dalla gestione della vicenda processuale stessa: e questo è chiaramente un profilo non patrimoniale, come conferma anche l’ulteriore distinta indicazione relativa ai profili patrimoniali ( si sottolinea che le " capacità economiche " sarebbero state " alquanto limitate ", nonché si citano i " disagi derivati sotto il profilo economico " dalla vicenda in questione ). Si deve pertanto ricordare la natura della responsabilità prevista dall’art. 96 cpc. Si tratta, com’è noto, di una norma speciale rispetto a quella generale rappresentata dall’art. 2043 c.c.; se dunque essa inibisce l’invocazione dell’art. 2043, non pone peraltro chi agisce per il risarcimento di danni di origine processuale in una posizione deteriore e differente rispetto a chi agisce per danni extracontrattuali di diversa origine. Da tempo infatti la giurisprudenza insegna che peculiare è la causa, non l’effetto: la responsabilità ex art. 96 cpc. ha natura processuale ma " i danni da risarcire sono di qualsiasi tipo... purché causati da uno dei comportamenti tipizzati nella norma " ( Cass. 1987/8872; conformi, più di recente,Cass. 1998/4624, 1999/253,2001/4947, 2002/3573 ). Naturalmente questo insegnamento della giurisprudenza, proprio perché consolidato, è alquanto risalente e si è quindi formato prima della recente evoluzione che ha dilatato ampiamente i confini di risarcibilità del danno non patrimoniale. La giurisprudenza citata infatti intendeva come danni concretamente risarcibili ex art.96 quelli patrimoniali rappresentati dal danno emergente e dal lucro cessante, non potendosi all’epoca ipotizzare una risarcibilità del danno non patrimoniale derivante da illecito processuale riconducibile puramente all’art. 96 c.p.c., e non quindi dotato di rilevanza penale e perciò produttivo anche del cosiddetto danno morale, nè tantomeno riconducibile alla species del biologico. Com’è noto, l’interpretazione che ora è parte del diritto vivente in relazione all’art. 2059 c.c. è un’interpretazione costituzionalmente orientata, che ha consentito di riconoscere la risarcibilità non solo del danno morale in senso stretto, e comunque non solo del danno non patrimoniale derivante da illecito penale, ma anche del danno non patrimoniale lesivo di interessi di rango costituzionale relativi alla persona pur se non tipizzati e " presidiati " da fattispecie penali. Questo orientamento, scaturito com’è noto da una sorta di combinato disposto tra la giurisprudenza della Suprema Corte - sentenze 8827 e 8828 del 2003 - e un successivo intervento della Corte Costituzionale - sentenza 233 del 2003 - e ormai da ritenersi definitivo, se da un lato ha esteso l’area del danno risarcibile in misura decisamente notevole, dall’altro, innestandosi nell’ambito di una querelle sorta contemporaneamente alla " estrazione " della categoria dottrinale dalla varietà della pratica, ha indotto a una rimeditazione della categoria di danno che anteriormente veniva (seppur in modo non incontroverso) sempre più utilizzata proprio per supplire e ovviare alla carenza di risarcibilità di una vasta area che la coscienza sociale e giuridica comunque percepivano come danno, vale a dire la categoria del danno esistenziale. In un contesto in cui il danno non patrimoniale risarcibile si circoscriveva alla sofferenza (già di per sé intesa in senso restrittivo ) da reato e il danno biologico era stato definitivamente confinato nella lesione psicofisica accertabile sul piano medico legale, restava infatti estranea alle categorie tradizionali di danno risarcibile un’area che, con la progressiva attenzione che l’ordinamento giuridico veniva attribuendo al "valore uomo" inteso nella sua complessità anche relazionale, era appunto percepita come rilevante dal punto di vista giuridico e non più solo dal punto di vista psicologico o sociologico: un’ampia area di pregiudizio alla, per così dire, normalità della vita di una persona, normalità intesa nel senso positivo di qualità della vita. E per aggirare il " blocco "ermeneutico che asserviva il danno non patrimoniale non biologico alla fattispecie penale, si era prospettata appunto la categoria del " danno esistenziale ", che era stata riconosciuta, dopo varie sue applicazioni ad opera dei giudici di merito, anche dalla Cassazione ( si vedano, per esempio, le sentenze 7713 del 2000, 9009 del 2001 e del 15449 del 2002 ). Essendo sorto in effetti per " coprire " un settore del danno non patrimoniale all’epoca non risarcibile ai sensi dell’art. 2059 cc., una volta " dilatato " quest’ultimo non sussiste ormai alcun motivo per non riconoscere che il danno esistenziale indica una categoria del danno non patrimoniale disciplinato da detto articolo, non apparendo più neppure " utile " sostenere la sua estraneità a tale norma ( vale a dire ricondurlo, del tutto immotivatamente ormai, all’art. 2043 c.c. ). Dunque, allo stato del diritto vivente il danno esistenziale può ritenersi - risolvendo in tal senso la questione di qualificazione che gli è in fondo da sempre connessa - una delle categorie risarcibili del danno non patrimoniale previsto in generale dall’art. 2059, e precisamente quella sofferenza che scaturisce dalla menomazione della qualità della vita derivata dall’illecito. è identificabile nell’art. 2 Cost. il riscontro a livello costituzionale di questo valore, intendendosi la qualità della vita come estrinsecazione concreta del diritto alla realizzazione personale, sia per quanto attiene la propria condizione " interiore " rispetto alla vita stessa - vale a dire il diritto a realizzarsi senza dover fronteggiare psicologicamente situazioni di disagio e di stress-, sia per quanto attiene alle relazioni interpersonali e sociali. Così intendendo il danno esistenziale, non si può non qualificare tale quello che viene qui prospettato, come si è visto più sopra, come impatto della vicenda processuale sull’esistenza della persona che si asserisce danneggiata e come " conseguenti preoccupazioni ".


Identificati quindi i tipi di danni richiesti ex art.96 cpc.- quello patrimoniale da "disagi sotto profilo economico" e quello che nel genus non patrimoniale è qualificabile della species esistenziale - occorre valutare se sia stata fornita la prova dell’esistenza e del quantum di tali danni. Al riguardo va ricordato quanto insegna la giurisprudenza in ordine all’onere della prova per danni da illecito processuale ex art. 96 cpc. Se da un lato si è affermato che sulla parte che si dichiara danneggiata grava l’onere della prova secondo i principi generali (si vedano, da ultimo, Cass.1998/1200, 2002/3941 e 2004/18169), dall’altro sì è valorizzato anche un ruolo ufficioso del giudice. Particolare sensibilità su questo piano -sulla scorta peraltro di giurisprudenza precedente- hanno dimostrato alcune tra le più recenti sentenze di legittimità, spesso congiungendo tale aspetto con la evidenziazione del fatto che il risarcimento ex art. 96 cpc. è onnicomprensivo ( si veda per esempio Cassazione 2003/6796, secondo la quale " all’ accoglimento della domanda da risarcimento dei danni da lite temeraria non osta l’omessa deduzione e dimostrazione dello specifico danno subito dalla parte vittoriosa, che non è costituito dalla lesione della propria posizione materiale, ma dagli oneri di ogni genere che questa abbia dovuto affrontare per essere stata costretta a contrastare l’ingiustificata iniziativa dell’avversario e dai disagi affrontati per effetto di tale iniziativa, danni la cui esistenza può essere desunta dalla comune esperienza "; si veda anche Cassazione 2001/10731 ).


Per quanto concerne i danni economici, se nel caso di specie non può in astratto escludersi che, " per essere stata costretta a reagire all’iniziativa del tutto ingiustificata dell’avversario ", l’opponente T. S. abbia subito un pregiudizio che " non possa essere adeguatamente compensato, sul piano strettamente economico, dal rimborso delle spese giudiziali " (così Cass. 1994/1592), in effetti non si ha alcuna prova concreta di questo, che non risulta in alcun modo dagli atti e che non appare quindi riconoscibile sulla base della mera non contestazione specifica di controparte. D’altronde, le nozioni di comune esperienza che la giurisprudenza evidenzia come utilizzabili in questo settore non sono tali da indurre a ritenere che la rifusione delle spese legali non reintegri dal danno economico nella specie sussistente. Diverso discorso può farsi per il danno non patrimoniale, nella specie il danno esistenziale.


Può considerarsi infatti notorio che un "assoggettamento" a un’iniziativa processuale del tutto ingiustificata per un importo tutt’altro che indifferente, considerata anche l’età assai giovane della persona in questione e la sua conseguente presumibile condizione di soggetto ancora privo di una propria capacità reddituale, leda la qualità della vita di questo soggetto, nel senso di sottoporlo a una situazione di disagio interiore da preoccupazione in relazione al proprio futuro, e ciò in un momento in cui - per quanto si desume alla luce del notorio dalla giovane età risultante dagli atti - si trovava in un’oggettiva condizione di " costruzione " del proprio futuro e di apertura a una vita adulta indipendente. Una situazione come quella creata dall’ingiunzione di cui è causa, sempre alla luce del notorio ( congiunto al fatto della mancanza di specifiche contestazioni sul punto dell’opposto ) non poteva poi non incidere anche sulla serenità dei rapporti interpersonali nonché sul grado di autostima e sicurezza con la quale il soggetto poteva intraprenderli. Le preoccupazioni e le appena evidenziate inevitabili "compressioni " della personalità in un momento della vita particolarmente importante per la sua realizzazione non possono non riconoscersi come danno esistenziale nel senso di danno non patrimoniale lesivo dei diritti della personalità di cui all’art. 2 Cost.
L’illecito processuale rappresentato dalla ingiustificata iniziativa di introdurre, tra l’altro in modo più " invasivo " e incalzante di un atto introduttivo ordinario, cioè con decreto ingiuntivo, una causa per il pagamento di prestazioni professionali nei confronti di una persona che, come si è visto, per due procedure su tre non aveva conferito alcun mandato si deve quindi riconoscere che ha prodotto un danno esistenziale nella persona così immotivatamente "aggredita" sul piano processuale. Non si può ritenere infatti che il mero esercizio del diritto di azione, in quanto lecito, non possa generare tale tipo di danno. Se infatti dal punto di vista processuale sussisteva il diritto di azione, nel caso di specie dal punto di vista sostanziale non sussisteva il diritto di credito sotteso al diritto di azione; di qui l’illecito processuale, ex art. 96 cpc., verificatosi per l’ utilizzo in difetto di un grado accettabile di diligenza -quindi con colpa grave- dello strumento processuale in una fattispecie sostanziale infondata. Riguardo alla quantificazione del danno - che per la natura dello stesso non può che essere equitativa -, considerate, oltre all’importo ingiunto relativo alle due procedure di cui sopra, tutte le circostanze proprie della vicenda processuale in rapporto alle caratteristiche specifiche della persona lesa, si stima equo riconoscere un importo all’attualità di euro 5000 , somma sulla quale decorrono dalla pubblicazione della sentenza al saldo gli interessi legali di mora.


P.Q.M.

 

Ogni diversa domanda, istanza ed eccezione disattesa:


1. Revoca il decreto ingiuntivo con ogni conseguenza di legge;
2. Respinge le domande dell’opposto;
3. Condanna l’opposto a rifondere a controparte le spese di causa per €223,72 di diritti, €3900,61 di spese ed € 4000 d’onorari, oltre a spese generali, IVA e CPA come per legge;
4. Pone a carico dell’opposto le spese di CTU come liquidate in corso di causa;
5.Condanna l’opposto a risarcire l’opponente T. S. ex art. 96 cpc. nella misura di euro 5000, oltre interessi legali di mora dalla pubblicazione della presente sentenza al saldo.

 

Bologna, 27 gennaio 2005 Il Giudice Unico
 

Dr. Chiara Graziosi

 



Sabato, 12 Febbraio 2005
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