Chi lancia
sassi da un cavalcavia sulle auto sottostanti è consapevole del
rischio di potere causare gravi incidenti, e quindi risponde di omicidio
volontario se dalla sua condotta derivi la morte di una persona. Lo
ha stabilito la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione respingendo
il ricorso di un uomo imputato di tentato omicidio per aver lanciato
sassi dal cavalcavia di Tortona colpendo un’autovettura; in quell’occasione
era stata solo l’abilità del guidatore ad evitare il peggio.
La difesa dell’imputato aveva sostenuto che l’omicidio era stata una
conseguenza non voluta e pertanto non sussisteva il dolo diretto, cioè
la volontarietà. Ma la Suprema Corte non è stata dello
stesso avviso, e ha spiegato che il lancio di sassi da un cavalcavia
è un comportamento volontario e consapevole, e pertanto, qualora
sia univocamente diretta a colpire le auto che transitano nella sottostante
autostrada e a creare di conseguenza il concreto pericolo di incidenti
anche mortali, sussiste l’elemento doloso, consistente nell’accettare
il rischio di poter uccidere qualcuno, evento nella fattispecie non
verificatosi per cause indipendenti dalla volontà dell’autore.
(24 marzo 2005)
Suprema Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, sentenza n.5436/2005
(Presidente: R. Teresi; Relatore: G. Corradini)
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I PNALE
SENTENZA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza 14/6/2004 la Corte d’Appello di Torino confermò
la sentenza emessa a seguito di rito abbreviato dal Tribunale di Tortona
in data 11/7/2003 con cui M. S. era stato ritenuto colpevole dei reati
di tentato omicidio ai danni di S. S. e di attentato alla sicurezza
dei trasporti, per avere, l’8 luglio 2003, in Castelnuovo Scrivia,
lanciato un sasso dal diametro di dodici centimetri dal cavalcavia n.
49 sulle autovetture che transitavano sulla sottostante autostrada A7
in direzione di Milano, così colpendo l’autovettura Mercdes
condotta da S. S. e ponendo in pericolo la sicurezza dei trasporti,
non riuscendo nell’intento per la pronta reazione della persona
offesa che riusciva a controllare l’autovettura e ad arrestare
la cosa, e, ritenuta la continuazione fra i due reati contestati, lo
aveva condannato alla pena di anni quattro e mesi quattro di reclusione,
con la concessione delle attenuanti generiche e della diminuente per
il rito.
Nella mattinata dell’8 luglio 2003 erano giunte ai Carabinieri
alcun segnalazioni da parte di automobilisti che transitavano sulla
A7 i quali avevano notato un giovane, accuratamente descritto dai segnalanti,
posto a fianco di una autovettura di piccola cilindrata, che aveva appena
lanciato un sasso sulla autostrada sottostante dal cavalcavia n. 4.
Altra segnalazione proveniente da una insegnante, M. E., specificava
che il giovane che aveva lanciato il sasso era un suo ex alunno, certo
S. M., che era stato visto nella circostanza dalla M. mentre si sforzava,
essendo di bassa statura, alla fine comunque riuscendoci, di fare superare
al sasso una rete di recinzione, alta m. 1,80, che era stata posta sul
cavalcavia proprio per evitare il lancio di sassi in quanto, qualche
anno prima, vi era stato un episodio mortale nel vicino cavalcavia della
Callosa che aveva avuto grande eco giornalistica.
La M. aveva visto bene in viso il giovane allorché si era voltato
verso di lei, dopo il fatto, mentre si puliva le mani ed aveva visto
la macchina del giovane, una Punto grigia.
I carabinieri, giunti sul posto, avevano rinvenuto una Mercedes con
un ce4rchione ed un pneumatico rotto, il cui conducente, S. S., al contrario
di altri conducenti di autovetture in transito in quel momento, non
era riuscito ad evitare un sasso, dal diametro di 12 cm. Circa e del
peso di circa 3 kg., che si trovava al centro della sua corsia di percorrenza.
Sul cavalcavia furono rinvenuti un paio di occhiali che in seguito risultarono
appartenere al M. e che il ragazzo aveva dimenticato sul luogo del fatto.
Il M. era stato rintracciato dopo circa un’ora alla guida della
Punto grigia con cui era andato nel frattempo a prendere sul posto di
lavoro la propria madre, che aveva a bordo, proprio mentre stava tornando
sul cavalcavia alla ricerca degli occhiali li dimenticati.
La perquisizione immediatamente eseguita sulla vettura aveva consentito
di rinvenire altri nove sassi delle stesse dimensioni di quello lanciato
sull’autostrada.
L’imputato aveva ammesso la condotta sostenendo che aveva prelevato
il sasso dai dieci che aveva in macchina, a suo dire li collocati per
difesa personale, e di averlo lanciato dopo aver guardato bene la strada
stando attento a non colpire nessuno, aggiungendo che però, essendo
diagnosticato che ho colpito la macchina, ammetto di aver sbagliato.
Aveva altresì sostenuto di avere agito a causa delle sue condizioni
di infelicità e solitudine dovute a problemi di disoccupazione
e familiari collegati anche alla morte di suo padre avvenuta dodici
anni prima.
In sede di appello fu disposta una perizia psichiatrica sull’imputato,
sollecitata dalla sua difesa e motivata d alcuni episodi della vita
del giovane M. che avevano anche determinato un trattamento terapeutico
presso il Servizio psichiatrico di base di Voghera, ma il perito concluse
nel senso che l’imputato, pur risultando affetto da ritardo mentale
lieve e da disturbo passivo, aggressivo di personalità, era soggetto
capace pienamente di intendere e di volere all’epoca dei fatti
e capace di stare in giudizio in quanto i predetti disturbi avevano,
per entità ed essenza, rilevanza unicamente clinica e non anche
psichiatrica, forense.
La Corte di Appello, investita dall’appello del M., confermò
pertanto il giudizio di imputabilità ma anche quello di colpevolezza
espresso dai giudici di primo grado, rilevando in particolare che sussisteva
la idoneità e la univocità degli atti posti in essere
dall’imputato a provocare la morte dell’automobilista che
transitava nella sottostante autostrada, avendo egli lanciato, in corrispondenza
della corsia di scorrimento delle auto, un sasso di rilevante massa
da un punto del cavalcavia da cui, come era stato accertato, non era
possibile vedere le auto che transitavano in basso e che in quel momento
erano numerose, essendo notoriamente quella autostrada a quell’ora
notevolmente trafficata, addirittura sforzandosi per superare con il
lancio la rete metallica posta proprio per impedire che un sasso lanciato
da quel punto potesse provocare la morte degli automobilisti in transito,
così evidenziando la volontà di cagionare la morte, almeno
sotto il profilo del dolo alternativo essendosi posto quanto meno in
una posizione di indifferenza rispetto alle possibili conseguenze del
suo gesto così accettando una altissima probabilità che
la massa del sasso scagliato colpisse una vettura in transito provocando
la morte degli occupanti nonostante la residua possibilità di
un evento diverso.
Nel contempo la Corte di Appello ritenne che la mancata reiterazione
del lancio di sassi, pur presenti nella vettura del M., non escludesse
il dolo omicidiario considerato che era comparsa sulla scena la sua
insegnante M e che comunque quell’unico lancio già integrava
gli estremi del reato contestato.
Ha proposto ricorso per cassazione la difesa dell’imputato chiedendo
l’annullamento della sentenza impugnata e lamentando con due motivi
distinti: erronea applicazione degli artt. 56 e 575 c.p. [1] laddove
la sentenza aveva ritenuto la sussistenza del tentativo di omicidio,
in assenza del dolo diretto di tale reato, avendo la dottrina dominante
e la giurisprudenza consolidata escluso la compatibilità del
dolo eventuale con il tentativo e dovendosi nella specie escludere che
l’imputato volesse uccidere il S. che neppure conosceva o qualsiasi
altro automobilista in transito, posto che aveva lanciato il sasso,
senza poter vedere le autovetture in transito, dalla parte opposta del
cavalcavia rispetto alla direzione di marcia della sottostante autostrada
e che il sasso non aveva colpito direttamente la vettura del S., bensì
era caduto sulla carreggiata dove era stato schivato da due autovetture
mentre il S. non era stato capace di evitarlo e lo aveva urtato con
una ruota, riuscendo comunque ad arrestare la marcia; manifesta illogicità
della motivazione della sentenza impugnata laddove, ai fini della valutazione
della sussistenza o meno del dolo omicidiario, non aveva considerato
la particolare situazione di anormalità psicologica dell’imputato
e la irrazionalità del suo gesto e della condotta successiva
che lo aveva portato a tornare verso il luogo del fatto insieme alla
madre, al fine di escludere la coscienza e la volontà del fatto
quanto meno sotto il profilo dell’elemento psicologico.
Il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso per il rigetto
del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di gravame attiene alla individuazione dell’elemento
psicologico del reato contestato che, ad avviso della difesa dell’imputato,
non potrebbe essere caratterizzato come dolo diretto, bensì,
al massimo, come dolo eventuale, in quanto tale incompatibile con oil
tentativo di omicidio, come ormai ritenuto da tempo dalla giurisprudenza
consolidata.
Secondo la difesa del ricorrente il dolo diretto dovrebbe essere escluso
poiché l’imputato non conosceva neppure la persona offesa
e non aveva quindi alcun motivo per ucciderla e comunque aveva lanciato
il sasso senza poter vedere le autovetture in transito, dal lato del
cavalcavia opposto rispetto alla direzione di marcia delle vetture sulla
sottostante autostrada, così rivelando che la sua volontà
non era quella di uccidere il S. o qualunque altro automobilista in
transito.
La doglianza è infondata.
La giurisprudenza di questa Corte è nel senso che costituisce
tentativo di omicidio il lancio di sassi da un cavalcavia sulla sottostante
autostrada in quanto tale azione, seppure non diretta, in ipotesi, a
colpire singoli autoveicoli, è idonea, per la non facile avvisabilità
degli oggetti che cadono all’improvviso dall’alto o che comunque
siano già giunti al suolo sulla carreggiata mentre i conducenti
sono intenti ad osservare le macchine che precedono e seguono e per
la consistente velocità tenuta generalmente dai conducenti in
autostrada, a creare il concreto pericolo di incidenti stradali, anche
mortali, al cui verificarsi, quindi, sotto il profilo soggettivo, deve
intendersi diretta la volontà dell’agente (cfr. Cass. 30/4/2003
n. 1989).
A tali corretti principi si è attenuto il giudice di merito il
quale ha ritenuto che il lancio di sassi da un cavalcavia, oltretutto
protetto da uno sbarramento laterale alto un metro e ottanta centimetri
proprio per impedire qual lancio che aveva provocato poco tempo prima
un evento mortale su quella stessa autostrada, evento che aveva suscitato
grande allarme pubblico anche per la tragica emulazione che ne era seguita,
costituisse una specifica condotta per ritenere che l’imputato
volesse provocare la morte degli automobilisti che transitavano sulla
sottostante autostrada, alla stregua degli elementi sintomatici solitamente
indicati dalla giurisprudenza per la individuazione del dolo diretto
omicidiario, ed in particolare della raccolta di un rilevante numero
di grossi sassi, rinvenuti all’interno della sua macchina, dell’impiego
di un sasso del peso di ben 3 kg., che, lanciato dall’alto sulle
auto in corsa, avrebbe certamente sfondato il parabrezza o quanto meno
provocato la fuoriuscita di una vettura dalla sede stradale, dello specifico
e ripetuto sforzo fatto dall’imputato, vista la sua bassa statura,
per raggiungere tale risultato, della precedente morte di altra persona
per una azione analoga con quelle stesse modalità, ben nota all’imputato,
nonché della accertata mancanza di visuale sulla autostrada dal
cavalcavia , che non consentiva di verificare visivamente se in quel
momento giungessero o meno delle macchine, anche se a quell’ora
l’autostrada era notoriamente trafficata in modo notevole per cui
le autovetture arrivavano in continuazione ed era praticamente impossibile
che una autovettura non finisse colpita dal sasso ovvero vi finisse
sopra subito dopo la sua caduta.
Ne rileva a tal fine che l’imputato non conoscesse la vittima ne
le altre persone che in quel momento circolavano sull’autostrada
Milano- Genova, poiché all’imputato non interessava uccidere
una specifica persona, essendo per lui indifferente, vista anche la
sua struttura di personalità, ben delineata nella perizia psichiatrica,
che morisse una o altra persona.
Si tratta eventualmente di inadeguatezza della causale alla stregua
del sentire dell’uomo comune che però non incide sulla sussistenza
o meno della volontà omicida, essendo varie per intensità
le ragioni di ciascun individuo e potendosi uccidere anche per un futile
motivo, essendo l’omicidio di per se un gesto sempre irrazionale
che non può quindi essere giudicato alla stregua di criteri razionali.
Ugualmente non rileva che l’imputato potesse o meno vedere le auto
in transito, poiché sapeva benissimo che sotto il cavalcavia,
sulla autostrada Milano- Genova, con direzione verso Milano, transitava
a quell’ora una fila continua di autovetture e proprio per questo
aveva scelto quel luogo e quell’ora per il lancio dei sassi, correndo
il rischio di essere visto e riconosciuto (come poi è stato in
effetti visto e riconosciuto dalla sua ex insegnante) ed anzi proprio
la circostanza, accertata positivamente, che non potesse vedere dal
cavalcavia le macchine in corsa sulla sottostante autostrada, dimostra
la sua totale indifferenza verso la vita delle persone che transitavano
in quel momento dirette verso Milano.
Si ha invero dolo eventuale allorquando l’agente, ponendo in essere
una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità
del verificarsi di una diversa conseguenza della propria condotta e,
ciononostante, agisca accettando il rischio di cagionarla, mentre il
dolo alternativo sussiste qualora l’agente si rappresenta e vuole
indifferentemente, al momento della realizzazione dell’elemento
oggettivo del reato, che si verifichi l’uno o l’altro degli
elementi casualmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria
(nella specie che muoia una persona o più persone ovvero che
una o più vetture finiscano fuori strada), sicché, attesa
la sostanziale equivalenza dell’uno o dell’altro, egli risponde
per quello effettivamente realizzato (cfr. per tutte Cass. 10/4/2003
n. 16976).
Orbene, è di tutta evidenza che, come giustamente ritenuto dai
giudici di merito, nel caso in esame si sarebbe perciò trattato
non già di dolo eventuale bensì di dolo alternativo, non
potendo il lancio di sassi diretto ad un fine diverso da quello di colpire
una macchina in transito, ne l’imputato stato in grado di indicare
un diverso fine, con la conseguenza che deve ritenersi, anche in tal
caso, configurabile il reato di tentato omicidio poiché la particolare
manifestazione di volontà dolosa definita dolo alternativo deve
qualificarsi come diretta, attesa la sostanziale equivalenza dell’uno
o dell’altro evento (v. Cass. 14/1/2000 n. 385).
È infondata anche la seconda doglianza diretta ad escludere il
dolo sotto il diverso profilo della mancanza di coscienza o volontà
collegata alla anormalità psicologica dell’imputato.
La difesa dell’imputato ha accettato il giudizio di sussistenza
della imputabilità emergente dalla perizia psichiatrica disposta
in grado di appello, dovendo convenire sulla sussistenza della capacità
di intendere e di volere dell’imputato, nonostante i disturbi di
personalità di cui è affetto, che sono di indubbia gravità
e che hanno già portato i giudici di merito a collocare il giovane
M. in una struttura protetta diversa dal carcere, ma che non escludono
ne fanno grandemente scemare la sua imputabilità ai sensi e per
gli effetti di cui agli artt. 88 e 89 c.p.; però ha ritenuto
che tali disturbi psicologici potessero escludere la coscienza e volontà
del fatto illecito e quindi la sussistenza del dolo ai sensi dell’art.
43 c.p.
L’argomentazione non è condivisibile poiché nei rapporti
fra imputabilità e dolo, l’indagine sul primo dei suddetti
elementi va tenuta ben distinta d quella del secondo, essendo quest’ultimo
(il dolo) un elemento costitutivo del delitto, la cui sussistenza va
in ogni caso accertata secondo le regole generali, e ciò con
riferimento all’ipotesi di un soggetto dotato di normale capacità
di intendere e di volere, mentre l’imputabilità costituisce
semplicemente il presupposto per l’affermazione delle responsabilità
in ordine al reato commesso, il quale dovrà pertanto essere già
stato compiutamente qualificato nelle sue connotazioni soggettive ed
oggettive.
L’imputabilità, quale capacità di intendere e di
volere, e la colpevolezza, quale coscienza e volontà del fatto
illecito, esprimono quindi concetti diversi ed operano anche su piani
diversi, cosicché neppure la mancanza di imputabilità
impedisce la sussistenza del dolo, dovendosi prima accertare, alla stregua
delle regole di comune esperienza, se l’evento sia stato prodotto
secondo l’intenzione, oltre l’intenzione o contro l’intenzione,
per poi passare a verificare se e come il soggetto debba penalmente
rispondere di tale evento in ragione del suo stato di mente; con la
conseguenza che la colpevolezza anche del soggetto disturbato ed addirittura
quella del soggetto infermo di mente deve essere valutata alla stregua
delle regole di cui agli artt. 42 e 43 c.p., indipendentemente dalla
perturbazione psichica e dalla riduzione del senso critico collegata
alla malattia ovvero al disturbo di personalità.
In tal modo hanno correttamente operato i giudici di merito i quali
hanno valutato la sussistenza del dolo in base al parametro normativo
ed alla stregua dei principi giurisprudenziali consolidati, per cui
il ricorso dell’imputato, siccome totalmente infondato, deve essere
respinto, con le conseguenze di legge.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Roma, 25 gennaio 2005.
Depositata in Cancelleria l’11 febbraio 2005.