Il magistrato
che, nel deposito di provvedimenti, sia incorso in ritardi tali,
per consistenza e numero, da superare i limiti della ragionevolezza
e giustificabilità, lede, per ciò solo, il prestigio della Magistratura,
senza che sia necessrio un accertamento in ordine al concreto
verificarsi della perdita di credibilità della funzione.
Lo hanno stabilito
le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 20133 depositata
il 12 ottobre 2004.
(Altalex,
8 novembre 2004)
Corte
di cassazione
Sezioni
unite civili
Sentenza
12 ottobre 2004, n. 20133
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO
A seguito di
note in data 7 aprile 2000 del presidente del Tribunale di Roma
e 24 maggio 2000 e 14 dicembre 2001 del presidente della Corte di
appello della stessa sede, il 30 novembre 2000 ed il 5 marzo 2002
il Pg presso la Corte di cassazione promosse l’azione disciplinare
nei confronti del dott. Maurizio De Stefano, addebitandogli di aver
depositato numerose sentenze, da lui estese quale giudice di detto
Tribunale e, poi, come consigliere della Corte di merito pure menzionata,
con notevoli ritardi e con conseguente compromissione del prestigio
della funzione giudiziaria.
L’incolpato si giustificò affermando di avere assunto un ruolo di
cause particolarmente complesso, di essere stato addetto sia alla
seconda sezione civile che alla sezione famiglia, e di aver vissuto
un periodo di grave disagio familiare sia per la necessità di occuparsi
di due figli gemelli in assenza della moglie, preside a Rieti, sia
per le gravi condizioni di salute della madre residente a Lecce
e deceduta il 13 settembre 2001.
Con sentenza del 23 maggio 2003, depositata il 2 febbraio 2004,
la Sezione disciplinare del C.s.m., previa riunione dei due procedimenti,
ha dichiarato non doversi procedere per l’omesso deposito delle
sentenze del Tribunale di Roma per precedente giudicato, ha ritenuto
il dott. De Stefano responsabile delle altre incolpazioni ascrittegli
e gli ha inflitto la sanzione disciplinare dell’ammonimento.
Per quanto ancora interessa il giudice disciplinare ha affermato
che i ritardi contestati per il periodo di servizio prestato presso
la Corte di appello tra la fine del 1999 ed il luglio 2002 erano
certamente imputabili a mancanza di diligenza e laboriosità, ed
ha escluso che ricorressero cause di giustificazione.
Tali ritardi erano di notevole entità e pari, per l’anno 1999, a
non meno di undici mesi dalla data della riserva in decisione e,
per il resto, non inferiori a 200 giorni e fino ad un massimo di
480 giorni.
Non era provata una particolare gravosità dei ruoli, e solo nel
1999 il dott. De Stefano aveva svolto funzioni presso la sezione
per i minorenni e la famiglia, oltre che presso la seconda sezione
civile; negli anni 1999 e 2000, comparativamente con gli altri consiglieri
la sua produttività era stata di gran lunga la più bassa, mentre
negli anni 2001 e 2002 l’incolpato si era collocato rispettivamente
al penultimo e terzultimo posto di una graduatoria decrescente.
Le sue condizioni di salute non incidevano sulla capacità di lavoro;
non era provato che quelle, gravi, della madre avessero, fin quando
ella era rimasta in vita, reso necessario un impegno assistenziale
del figlio incompatibile con un’adeguata dedizione ai doveri d’ufficio.
Lo svolgimento delle funzioni genitoriali, pur nella situazione
prospettata, non poteva giustificare i contestati ritardi.
La sentenza assolutoria del 13 ottobre 2000 non poteva comportare
effetti, favorevoli all’incolpato, relativamente agli addebiti non
coperti dal giudicato essendo essa relativa a diverso arco temporale
ed avendo essa apprezzato cause di giustificazione contingenti e
ben delimitate nel tempo
Per la cassazione di tale decisione il dott. De Stefano ha proposto
ricorso, affidato a quattro motivi. Gli intimati non hanno svolto
attività difensiva.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
1. Con il primo
motivo del ricorso il ricorrente, nel dedurre con riferimento all’art.
360, nn. 3 e 5, c.p.c. la violazione e falsa applicazione degli
artt. 18 e ss. r.d. 511/1946 nonché vizi di motivazione su punto
decisivo, afferma che la richiesta di proscioglimento dell’incolpato,
avanzata dal procuratore generale dinanzi alla sezione disciplinare,
ha comportato rinuncia alla relativa azione, richiama al riguardo
il carattere facoltativo dell’azione stessa (art. 107, comma 2,
Cost.) in contrapposizione con quello, invece obbligatorio, dell’azione
penale (art. 108: recte, 112 Cost.), sostiene la natura lato sensu
civilistica dell’azione disciplinare, in quanto attinente al rapporto
di impiego del magistrato, ed addebita alla sentenza impugnata di
aver del tutto omesso di esaminare le argomentazioni svolte dallo
stesso Pg a sostegno della richiesta in questione.
Le censure sono infondate.
Premesso che, come lo stesso ricorrente puntualmente osserva, il
carattere irretrattabile dell’azione disciplinare è stato più volte
affermato da queste Sezioni unite (v. tra le altre, le sentenze
1994/2003 e 338/1999), non ritiene la Corte che gli argomenti addotti
a sostegno della opposta tesi possano consentire di discostarsi
da tale indirizzo interpretativo come invece il ricorrente pretende.
Invero l’art. 34, ultimo comma, r.d. 511/1946 dispone che, nella
fase dibattimentale del giudizio disciplinare nei confronti di magistrati,
si osservano, in quanto compatibili con la natura del procedimento
e con le disposizioni dello stesso decreto, le norme dei dibattimenti
penali: orbene né tali norme, né le disposizioni speciali del decreto
annettono alla richiesta di proscioglimento in questione valore
di rinuncia all’azione.
Al contrario il comma 2 dell’art. 33 stesso decreto 511/1946 stabilisce
che il giudice disciplinare dichiara non farsi luogo a rinvio al
dibattimento solo se su conforme richiesta del Pm ritenga che dalle
prove restino esclusi gli addebiti.
Se, dunque, per espressa disposizione di legge non equivale a rinuncia
la richiesta di non luogo a rinvio al dibattimento, avanzata dal
Pm all’esito della fase istruttoria, dovendo essa trovare l’assenso
anche del giudice, a maggior ragione non può produrre tale effetto
la richiesta di proscioglimento avanzata dalla stessa parte all’esito
della successiva fase dibattimentale.
La norma speciale è del tutto coerente con le disposizioni processuali
penali che non prevedono la rinuncia all’azione, né la incompatibilità,
dedotta dal ricorrente, può scaturire dal carattere facoltativo
dell’esercizio dell’azione disciplinare.
Se, invero, per norma costituzionale (il citato art. 107) è rimesso
al potere discrezionale del titolare di tale azione l’esercizio
o meno di essa, deve escludersi, dopo l’inizio del procedimento,
che lo stesso soggetto possa disporne.
Il potere dispositivo viene invero in rilievo nel processo civile,
nel quale sono in gioco interessi meramente privatistici, mentre
nel processo disciplinare rileva l’interesse pubblico, non disponibile
da parte del titolare dell’azione dopo che essa è stata esercitata,
al corretto esercizio delle funzioni giurisdizionali La pretesa,
dunque, del ricorrente, volta ad assimilare azione disciplinare
ed azione civile, è priva di ogni fondamento.
La censura di vizio motivazionale è invece inammissibile: il ricorrente,
invero, non afferma che, a sostegno della richiesta in esame, il
Pg d’udienza abbia svolto argomentazioni diverse da quelle addotte
dalla difesa e confutate dalla sentenza impugnata né, in osservanza
dell’onere di autosufficienza del ricorso, le ha comunque in esso
riprodotte al fine di porre la Corte in grado di valutarne rilevanza
e decisività.
2. Con il secondo motivo il ricorrente afferma che la sentenza impugnata
è stata emessa dalla sezione disciplinare in data 23 maggio 2003,
oltre il termine biennale posto dall’art. 59 d.P.R. 916/1958, modificato
dall’art. 12 l. 1/1981, e che fa decorrere dall’11 dicembre 2000,
data di inizio del procedimento "attraverso la informativa di cui
all’art. 59 citato": del quale, pertanto, denuncia la violazione.
La censura è infondata.
Il comma 9 di detto art. 59, come sopra modificato, dopo aver disposto
che entro un anno dall’inizio del procedimento deve essere comunicato
all’incolpato il decreto che fissa la discussione orale davanti
alla sezione disciplinare stabilisce ulteriormente, ed è la parte
che qui interessa, che "nei due anni successivi dalla predetta comunicazione
deve essere pronunciata la sentenza. Quando i termini non sono osservati,
il procedimento disciplinare si estingue, sempre che l’incolpato
vi consenta".
Nella specie è dunque la comunicazione del predetto decreto (e non
già, come invece pretende il ricorrente l’inizio del procedimento,
che invece rileva agli effetti della decorrenza del diverso termine
annuale di cui alla prima parte dello stesso art. 59, diverso termine
che non forma però oggetto di ricorso e sul quale v., da ultimo,
Cassazione 1418/2004 e 800/2002) che segna il dies a quo del termine
in questione. Detta comunicazione risulta avvenuta, per i due procedimenti
disciplinari, poi riuniti, rispettivamente il 20 novembre 2001 ed
il 9 ottobre 2002, talché, mentre deve escludersi la rilevanza della
diversa e precedente data indicata dal ricorrente 11 dicembre 2000
la sentenza risulta tempestivamente emessa il 23 maggio 2003.
Correttamente, invece, lo stesso ricorrente indica in quest’ultima
data il dies ad quem del termine, senza attribuire rilievo alcuno
a quella ben successiva (2 febbraio 2004) del deposito in segreteria
della decisione.
Deve infatti ribadirsi che detto termine va identificato nella lettura
del dispositivo giacché il procedimento disciplinare si modella
su quello penale (Cassazione 12173/1990: decisione che non può ritenersi
superata, nonostante la non del tutto propria formulazione della
relativa massima, dalla successiva sentenza 857/1999 di queste Sezioni
unite riferendosi questa ad altra fattispecie, nella quale, come
precisato nella relativa motivazione, non era stato dedotto che
il termine in questione non fosse stato osservato).
La sezione disciplinare non era pertanto tenuta a motivare, diversamente
da quanto anche preteso dal ricorrente, su una causa estintiva non
verificatasi.
La quale, inoltre, non è automatica ma richiede altresì il consenso
dell’incolpato (sul quale vedasi, da ultimo, Cassazione 2626/2002):
consenso del quale la sentenza impugnata non fa cenno alcuno - né
il ricorrente afferma di averlo manifestato nel corso del dibattimento
-, e che non può, per la prima volta, essere espresso o preso in
esame in questa sede di legittimità come invece lo stesso ricorrente
sembra pretendere.
3. Con il terzo motivo questi denuncia la violazione degli artt.
2909 c.c. e 324 c.p.c. e vizi di motivazione, ed afferma che il
giudicato assolutorio formatosi per i ritardi nel deposito di sentenze
nei quali egli incorse nel periodo in cui svolgeva funzioni di giudice
di tribunale, doveva dispiegare effetti, per le valutazioni di ordine
generale che lo sorreggono, anche per il successivo periodo per
il quale ha invece riportato condanna.
La censura è infondata.
La sentenza impugnata ha escluso che le circostanze giustificative,
che avevano comportato il proscioglimento dell’incolpato per il
lavoro svolto presso il tribunale, operassero anche per il periodo
della Corte di appello, osservando che non solo trattavasi di periodi
distinti e successivi, ma che la stessa sentenza assolutoria aveva
accertato essersi trattato di difficoltà contingenti e ben delimitate
nel tempo, ormai superate a distanza di tempo: motivazione adeguata
e logica, e come tale incensurabile in questa sede, ed investita
solo in parte da specifiche censure, le quali, in particolare, non
si appuntano sull’affermato carattere transitorio (p. 8 sentenza
impugnata) delle cause di giustificazione che avevano dato luogo
al pregresso proscioglimento.
Invero, la preclusione del giudicato opera solo nell’ipotesi di
identità oggettiva e soggettiva, e dunque non ricorre in caso di
mutamento, anche soltanto parziale, di uno solo di tali elementi:
nella specie la sezione disciplinare ha escluso la sola identità
oggettiva in considerazione del diverso arco temporale e del carattere
circoscritto nel tempo delle circostanze che avevano fatto ritenere
giustificati i ritardi accumulati dal dott. De Stefano nel deposito
delle sentenze del tribunale, ed entrambe tali argomentazioni non
formano specifico oggetto di ricorso.
4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art.
18 r.d. 511/1946 e vizi di motivazione e, pur riconoscendo che "non
sono ovviamente contestabili" i ritardi nel deposito delle sentenze,
per i quali ha riportato condanna, ne pone in discussione la imputabilità
soggettiva i nonché la lesione del prestigio della Magistratura.
Le censure sono inammissibili.
Ribadito che il ricorso avverso le decisioni della Sezione disciplinare
non può essere rivolto a conseguire un riesame dei fatti che hanno
formato oggetto di accertamento e di apprezzamento da parte della
menzionata sezione (Cassazione 8635/1995), e che la Corte di cassazione
deve limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, adeguatezza
ed assenza di vizi logici nella motivazione che sorregge la decisione
finale (Cassazione 7505/2004), deve rilevarsi che gli argomenti
addotti dal ricorrente mirano appunto ad una diversa valutazione
delle risultanze processuali - sulla base della quale è allegata
la violazione dell’art. 18 - inibita a questa Corte essendo la relativa
motivazione adeguata e coerente.
L’elemento soggettivo è stato invero ravvisato sub specie di negligenza,
motivatamente affermata sulla base della molteplicità e gravità
dei ritardi, accumulati in un arco temporale rilevante e ritenuti
non giustificati, ed indirettamente confermata dalla ridotta comparativa
produttività.
Legittimamente, e nell’esercizio del potere di apprezzamento delle
risultanze processuali, la Sezione disciplinare ha ritenuto di considerare
soltanto limitatamente alla entità della sanzione i positivi ma
generici giudizi espressi sull’incolpato in sede amministrativa,
ma poi contrastati dai rapporti dai quali scaturì l’esercizio dell’azione
disciplinare, non senza rilevare che inammissibilmente il ricorrente
assegna valore di documento fondamentale pretermesso ad una attestazione
del presidente della seconda sezione civile del tribunale di Roma,
giacché la ora censurata affermazione di responsabilità disciplinare
è limitata al diverso periodo della Corte di appello.
Quanto infine alla lesione del prestigio della Magistratura deve
ribadirsi che nel caso in cui il magistrato sia incorso in ritardi
nel deposito di provvedimenti che siano - come nella specie - tali,
per consistenza e numero, da superare i limiti della ragionevolezza
e giustificabilità, la lesione stessa è in re ipsa, senza necessità
di accertamento in ordine al concreto verificarsi della perdita
di credibilità della funzione (tra le altre, Cassazione 1039/2000).
Erroneamente il ricorrente afferma che tale indirizzo si pone in
contrasto con il principio secondo cui deve essere esclusa ogni
ipotesi di responsabilità oggettiva, giacché la lesione del prestigio
della Magistratura attiene invece all’elemento oggettivo e non soggettivo
dell’illecito disciplinare, a realizzare il quale si richiede la
violazione di una regola di condotta che abbia altresì prodotto
tale negativo effetto (e che, sul piano soggettivo, sia imputabile
a titolo di dolo o colpa).
Orbene, nell’ipotesi in cui l’illecito disciplinare sia consistito,
come nella specie, in molteplici reiterati e gravi ritardi nel deposito
di provvedimenti giurisdizionali, ben è ravvisato nel fatto, e sia
pure solo implicitamente, la lesività del prestigio.
5. Il ricorso deve, pertanto, essere respinto.
Non deve provvedersi sulle spese del giudizio di cassazione, non
avendo gli intimati vittoriosi svolto in esso attività difensiva.
Il magistrato che, nel deposito di provvedimenti, sia incorso in ritardi tali, per consistenza e numero, da superare i limiti della ragionevolezza e giustificabilità, lede, per ciò solo, il prestigio della Magistratura, senza che sia necessrio un accertamento in ordine al concreto verificarsi della perdita di credibilità della funzione.
Lo hanno stabilito le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 20133 depositata il 12 ottobre 2004.
(Altalex, 8 novembre 2004)
Corte di cassazione
Sezioni unite civili
Sentenza 12 ottobre 2004, n. 20133
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
A seguito di note in data 7 aprile 2000 del presidente del Tribunale di Roma e 24 maggio 2000 e 14 dicembre 2001 del presidente della Corte di appello della stessa sede, il 30 novembre 2000 ed il 5 marzo 2002 il Pg presso la Corte di cassazione promosse l’azione disciplinare nei confronti del dott. Maurizio De Stefano, addebitandogli di aver depositato numerose sentenze, da lui estese quale giudice di detto Tribunale e, poi, come consigliere della Corte di merito pure menzionata, con notevoli ritardi e con conseguente compromissione del prestigio della funzione giudiziaria.
L’incolpato si giustificò affermando di avere assunto un ruolo di cause particolarmente complesso, di essere stato addetto sia alla seconda sezione civile che alla sezione famiglia, e di aver vissuto un periodo di grave disagio familiare sia per la necessità di occuparsi di due figli gemelli in assenza della moglie, preside a Rieti, sia per le gravi condizioni di salute della madre residente a Lecce e deceduta il 13 settembre 2001.
Con sentenza del 23 maggio 2003, depositata il 2 febbraio 2004, la Sezione disciplinare del C.s.m., previa riunione dei due procedimenti, ha dichiarato non doversi procedere per l’omesso deposito delle sentenze del Tribunale di Roma per precedente giudicato, ha ritenuto il dott. De Stefano responsabile delle altre incolpazioni ascrittegli e gli ha inflitto la sanzione disciplinare dell’ammonimento.
Per quanto ancora interessa il giudice disciplinare ha affermato che i ritardi contestati per il periodo di servizio prestato presso la Corte di appello tra la fine del 1999 ed il luglio 2002 erano certamente imputabili a mancanza di diligenza e laboriosità, ed ha escluso che ricorressero cause di giustificazione.
Tali ritardi erano di notevole entità e pari, per l’anno 1999, a non meno di undici mesi dalla data della riserva in decisione e, per il resto, non inferiori a 200 giorni e fino ad un massimo di 480 giorni.
Non era provata una particolare gravosità dei ruoli, e solo nel 1999 il dott. De Stefano aveva svolto funzioni presso la sezione per i minorenni e la famiglia, oltre che presso la seconda sezione civile; negli anni 1999 e 2000, comparativamente con gli altri consiglieri la sua produttività era stata di gran lunga la più bassa, mentre negli anni 2001 e 2002 l’incolpato si era collocato rispettivamente al penultimo e terzultimo posto di una graduatoria decrescente.
Le sue condizioni di salute non incidevano sulla capacità di lavoro; non era provato che quelle, gravi, della madre avessero, fin quando ella era rimasta in vita, reso necessario un impegno assistenziale del figlio incompatibile con un’adeguata dedizione ai doveri d’ufficio. Lo svolgimento delle funzioni genitoriali, pur nella situazione prospettata, non poteva giustificare i contestati ritardi.
La sentenza assolutoria del 13 ottobre 2000 non poteva comportare effetti, favorevoli all’incolpato, relativamente agli addebiti non coperti dal giudicato essendo essa relativa a diverso arco temporale ed avendo essa apprezzato cause di giustificazione contingenti e ben delimitate nel tempo
Per la cassazione di tale decisione il dott. De Stefano ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo del ricorso il ricorrente, nel dedurre con riferimento all’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. la violazione e falsa applicazione degli artt. 18 e ss. r.d. 511/1946 nonché vizi di motivazione su punto decisivo, afferma che la richiesta di proscioglimento dell’incolpato, avanzata dal procuratore generale dinanzi alla sezione disciplinare, ha comportato rinuncia alla relativa azione, richiama al riguardo il carattere facoltativo dell’azione stessa (art. 107, comma 2, Cost.) in contrapposizione con quello, invece obbligatorio, dell’azione penale (art. 108: recte, 112 Cost.), sostiene la natura lato sensu civilistica dell’azione disciplinare, in quanto attinente al rapporto di impiego del magistrato, ed addebita alla sentenza impugnata di aver del tutto omesso di esaminare le argomentazioni svolte dallo stesso Pg a sostegno della richiesta in questione.
Le censure sono infondate.
Premesso che, come lo stesso ricorrente puntualmente osserva, il carattere irretrattabile dell’azione disciplinare è stato più volte affermato da queste Sezioni unite (v. tra le altre, le sentenze 1994/2003 e 338/1999), non ritiene la Corte che gli argomenti addotti a sostegno della opposta tesi possano consentire di discostarsi da tale indirizzo interpretativo come invece il ricorrente pretende.
Invero l’art. 34, ultimo comma, r.d. 511/1946 dispone che, nella fase dibattimentale del giudizio disciplinare nei confronti di magistrati, si osservano, in quanto compatibili con la natura del procedimento e con le disposizioni dello stesso decreto, le norme dei dibattimenti penali: orbene né tali norme, né le disposizioni speciali del decreto annettono alla richiesta di proscioglimento in questione valore di rinuncia all’azione.
Al contrario il comma 2 dell’art. 33 stesso decreto 511/1946 stabilisce che il giudice disciplinare dichiara non farsi luogo a rinvio al dibattimento solo se su conforme richiesta del Pm ritenga che dalle prove restino esclusi gli addebiti.
Se, dunque, per espressa disposizione di legge non equivale a rinuncia la richiesta di non luogo a rinvio al dibattimento, avanzata dal Pm all’esito della fase istruttoria, dovendo essa trovare l’assenso anche del giudice, a maggior ragione non può produrre tale effetto la richiesta di proscioglimento avanzata dalla stessa parte all’esito della successiva fase dibattimentale.
La norma speciale è del tutto coerente con le disposizioni processuali penali che non prevedono la rinuncia all’azione, né la incompatibilità, dedotta dal ricorrente, può scaturire dal carattere facoltativo dell’esercizio dell’azione disciplinare.
Se, invero, per norma costituzionale (il citato art. 107) è rimesso al potere discrezionale del titolare di tale azione l’esercizio o meno di essa, deve escludersi, dopo l’inizio del procedimento, che lo stesso soggetto possa disporne.
Il potere dispositivo viene invero in rilievo nel processo civile, nel quale sono in gioco interessi meramente privatistici, mentre nel processo disciplinare rileva l’interesse pubblico, non disponibile da parte del titolare dell’azione dopo che essa è stata esercitata, al corretto esercizio delle funzioni giurisdizionali La pretesa, dunque, del ricorrente, volta ad assimilare azione disciplinare ed azione civile, è priva di ogni fondamento.
La censura di vizio motivazionale è invece inammissibile: il ricorrente, invero, non afferma che, a sostegno della richiesta in esame, il Pg d’udienza abbia svolto argomentazioni diverse da quelle addotte dalla difesa e confutate dalla sentenza impugnata né, in osservanza dell’onere di autosufficienza del ricorso, le ha comunque in esso riprodotte al fine di porre la Corte in grado di valutarne rilevanza e decisività.
2. Con il secondo motivo il ricorrente afferma che la sentenza impugnata è stata emessa dalla sezione disciplinare in data 23 maggio 2003, oltre il termine biennale posto dall’art. 59 d.P.R. 916/1958, modificato dall’art. 12 l. 1/1981, e che fa decorrere dall’11 dicembre 2000, data di inizio del procedimento "attraverso la informativa di cui all’art. 59 citato": del quale, pertanto, denuncia la violazione.
La censura è infondata.
Il comma 9 di detto art. 59, come sopra modificato, dopo aver disposto che entro un anno dall’inizio del procedimento deve essere comunicato all’incolpato il decreto che fissa la discussione orale davanti alla sezione disciplinare stabilisce ulteriormente, ed è la parte che qui interessa, che "nei due anni successivi dalla predetta comunicazione deve essere pronunciata la sentenza. Quando i termini non sono osservati, il procedimento disciplinare si estingue, sempre che l’incolpato vi consenta".
Nella specie è dunque la comunicazione del predetto decreto (e non già, come invece pretende il ricorrente l’inizio del procedimento, che invece rileva agli effetti della decorrenza del diverso termine annuale di cui alla prima parte dello stesso art. 59, diverso termine che non forma però oggetto di ricorso e sul quale v., da ultimo, Cassazione 1418/2004 e 800/2002) che segna il dies a quo del termine in questione. Detta comunicazione risulta avvenuta, per i due procedimenti disciplinari, poi riuniti, rispettivamente il 20 novembre 2001 ed il 9 ottobre 2002, talché, mentre deve escludersi la rilevanza della diversa e precedente data indicata dal ricorrente 11 dicembre 2000 la sentenza risulta tempestivamente emessa il 23 maggio 2003.
Correttamente, invece, lo stesso ricorrente indica in quest’ultima data il dies ad quem del termine, senza attribuire rilievo alcuno a quella ben successiva (2 febbraio 2004) del deposito in segreteria della decisione.
Deve infatti ribadirsi che detto termine va identificato nella lettura del dispositivo giacché il procedimento disciplinare si modella su quello penale (Cassazione 12173/1990: decisione che non può ritenersi superata, nonostante la non del tutto propria formulazione della relativa massima, dalla successiva sentenza 857/1999 di queste Sezioni unite riferendosi questa ad altra fattispecie, nella quale, come precisato nella relativa motivazione, non era stato dedotto che il termine in questione non fosse stato osservato).
La sezione disciplinare non era pertanto tenuta a motivare, diversamente da quanto anche preteso dal ricorrente, su una causa estintiva non verificatasi.
La quale, inoltre, non è automatica ma richiede altresì il consenso dell’incolpato (sul quale vedasi, da ultimo, Cassazione 2626/2002): consenso del quale la sentenza impugnata non fa cenno alcuno - né il ricorrente afferma di averlo manifestato nel corso del dibattimento -, e che non può, per la prima volta, essere espresso o preso in esame in questa sede di legittimità come invece lo stesso ricorrente sembra pretendere.
3. Con il terzo motivo questi denuncia la violazione degli artt. 2909 c.c. e 324 c.p.c. e vizi di motivazione, ed afferma che il giudicato assolutorio formatosi per i ritardi nel deposito di sentenze nei quali egli incorse nel periodo in cui svolgeva funzioni di giudice di tribunale, doveva dispiegare effetti, per le valutazioni di ordine generale che lo sorreggono, anche per il successivo periodo per il quale ha invece riportato condanna.
La censura è infondata.
La sentenza impugnata ha escluso che le circostanze giustificative, che avevano comportato il proscioglimento dell’incolpato per il lavoro svolto presso il tribunale, operassero anche per il periodo della Corte di appello, osservando che non solo trattavasi di periodi distinti e successivi, ma che la stessa sentenza assolutoria aveva accertato essersi trattato di difficoltà contingenti e ben delimitate nel tempo, ormai superate a distanza di tempo: motivazione adeguata e logica, e come tale incensurabile in questa sede, ed investita solo in parte da specifiche censure, le quali, in particolare, non si appuntano sull’affermato carattere transitorio (p. 8 sentenza impugnata) delle cause di giustificazione che avevano dato luogo al pregresso proscioglimento.
Invero, la preclusione del giudicato opera solo nell’ipotesi di identità oggettiva e soggettiva, e dunque non ricorre in caso di mutamento, anche soltanto parziale, di uno solo di tali elementi: nella specie la sezione disciplinare ha escluso la sola identità oggettiva in considerazione del diverso arco temporale e del carattere circoscritto nel tempo delle circostanze che avevano fatto ritenere giustificati i ritardi accumulati dal dott. De Stefano nel deposito delle sentenze del tribunale, ed entrambe tali argomentazioni non formano specifico oggetto di ricorso.
4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 18 r.d. 511/1946 e vizi di motivazione e, pur riconoscendo che "non sono ovviamente contestabili" i ritardi nel deposito delle sentenze, per i quali ha riportato condanna, ne pone in discussione la imputabilità soggettiva i nonché la lesione del prestigio della Magistratura.
Le censure sono inammissibili.
Ribadito che il ricorso avverso le decisioni della Sezione disciplinare non può essere rivolto a conseguire un riesame dei fatti che hanno formato oggetto di accertamento e di apprezzamento da parte della menzionata sezione (Cassazione 8635/1995), e che la Corte di cassazione deve limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, adeguatezza ed assenza di vizi logici nella motivazione che sorregge la decisione finale (Cassazione 7505/2004), deve rilevarsi che gli argomenti addotti dal ricorrente mirano appunto ad una diversa valutazione delle risultanze processuali - sulla base della quale è allegata la violazione dell’art. 18 - inibita a questa Corte essendo la relativa motivazione adeguata e coerente.
L’elemento soggettivo è stato invero ravvisato sub specie di negligenza, motivatamente affermata sulla base della molteplicità e gravità dei ritardi, accumulati in un arco temporale rilevante e ritenuti non giustificati, ed indirettamente confermata dalla ridotta comparativa produttività.
Legittimamente, e nell’esercizio del potere di apprezzamento delle risultanze processuali, la Sezione disciplinare ha ritenuto di considerare soltanto limitatamente alla entità della sanzione i positivi ma generici giudizi espressi sull’incolpato in sede amministrativa, ma poi contrastati dai rapporti dai quali scaturì l’esercizio dell’azione disciplinare, non senza rilevare che inammissibilmente il ricorrente assegna valore di documento fondamentale pretermesso ad una attestazione del presidente della seconda sezione civile del tribunale di Roma, giacché la ora censurata affermazione di responsabilità disciplinare è limitata al diverso periodo della Corte di appello.
Quanto infine alla lesione del prestigio della Magistratura deve ribadirsi che nel caso in cui il magistrato sia incorso in ritardi nel deposito di provvedimenti che siano - come nella specie - tali, per consistenza e numero, da superare i limiti della ragionevolezza e giustificabilità, la lesione stessa è in re ipsa, senza necessità di accertamento in ordine al concreto verificarsi della perdita di credibilità della funzione (tra le altre, Cassazione 1039/2000).
Erroneamente il ricorrente afferma che tale indirizzo si pone in contrasto con il principio secondo cui deve essere esclusa ogni ipotesi di responsabilità oggettiva, giacché la lesione del prestigio della Magistratura attiene invece all’elemento oggettivo e non soggettivo dell’illecito disciplinare, a realizzare il quale si richiede la violazione di una regola di condotta che abbia altresì prodotto tale negativo effetto (e che, sul piano soggettivo, sia imputabile a titolo di dolo o colpa).
Orbene, nell’ipotesi in cui l’illecito disciplinare sia consistito, come nella specie, in molteplici reiterati e gravi ritardi nel deposito di provvedimenti giurisdizionali, ben è ravvisato nel fatto, e sia pure solo implicitamente, la lesività del prestigio.
5. Il ricorso deve, pertanto, essere respinto.
Non deve provvedersi sulle spese del giudizio di cassazione, non avendo gli intimati vittoriosi svolto in esso attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.