La
sentenza penale irrevocabile di condanna, pronunciata in dibattimento,
ha efficacia di giudicato nei confronti del condannato e del responsabile
civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale
"quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità
penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso" (art. 651
c.p.p.).
Lo
ha ricordato la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19387 del 28 settembre
2004, precisando che per "fatto" accertato dal giudice
penale deve intendersi il nucleo oggettivo del reato nella sua materialità
fenomenica, costituita dall’accadimento oggettivo, accertato dal giudice
penale, configurato dalla condotta, evento e nesso di causalità materiale
tra l’una e l’altro (fatto principale), e le circostanze di tempo, luogo
e modi di svolgimento di esso.
In
presenza di un giudicato penale perciò il giudice civile non può procedere
a un nuovo accertamento con una diversa ed autonoma ricostruzione dell’episodio
come già ricostruito dal giudice penale, mentre può indagare su altre
modalità del fatto non considerate dal giudice penale ai fini del giudizio
a lui demandato, come ad esempio il comportamento della parte lesa, negli
aspetti non esaminati dal giudice penale, ed incidenti sull’apporto causale
nella produzione dell’evento. E’ altresì rimesso all’accertamento ed alla
valutazione del giudice civile l’elemento soggettivo del fatto, escluso
dalla nozione obbiettiva di esso, e non comprensibile nella nozione di
"illiceità penale" di cui all’art. 651 c.p.p.
(Altalex,
29 ottobre 2004)
Corte
di cassazione
Sezione
III civile
Sentenza
28 settembre 2004, n. 19387
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO
Con
citazione
del
4 febbraio 1993 B. Gina conveniva
dinanzi
al Tribunale di Forlì F. Vanna, F. Silvano e la S.p.a. Fondiaria,
nella rispettiva qualità di conducente, proprietario ed assicuratrice
dell’auto che l’aveva investita, chiedendone la condanna in solido al
risarcimento dei danni derivanti a seguito del sinistro stradale dell’8
novembre 1991 per responsabilità esclusiva della conducente dell’auto.
A sostegno della domanda deduceva
1)
il giorno 8 novembre 1991, verso le ore 23, mentre percorreva, in Meldola,
a piedi via Gorizia, con direzione di marcia via Trieste, che forma
un incrocio T con la predetta strada, dopo aver ispezionato il crocevia
per raggiungere il cancello del cantiere edile di proprietà del
marito ed aver afferrato la maniglia per aprirlo, era stata investita
dalla vettura condotta da F. Vanna che percorreva via Trieste in direzione
centro città, a velocità sostenuta;
2) sospinta in avanti per vari metri, era caduta battendo la testa e
riportando gravi lesioni, da cui erano residuati postumi permanenti.
La
S.p.a. Fondiaria contestava la dinamica del sinistro perché la F., mentre
procedeva a velocità moderata, si era vista attraversare, improvvisamente
e di corsa, la strada da sinistra a destra, essendo la B. sbucata dalla
recinzione della casa all’angolo tra via Trieste e via Gorizia e quindi,
non avendo potuto avvistarla tempestivamente, malgrado la manovra di emergenza,
l’urto sulla semicarreggiata di destra era stato inevitabile. Aggiungeva
che su via Trieste non vi erano né banchine né marciapiedi e che il cancello
a cui la B. era diretta affacciava direttamente sulla carreggiata. Sul
quantum richiesto ne contestava l’eccessività e concludeva per il rigetto
della domanda.
Il Tribunale di Forlì, con sentenza del 12 marzo 1998, accoglieva la domanda
e condannava i convenuti, in solido, a pagare all’attrice lire 189.140.650,
oltre rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat, ed interessi legali.
Interponevano appello i soccombenti contestando la responsabilità esclusiva
della F., ritenuta sulla base della sentenza penale del Pretore di Forlì,
fondata sull’eccessiva velocità dalla stessa tenuta, senza valutare la
colpa della B., che aveva dichiarato di aver avvistato la macchina in
lontananza e tuttavia aveva scelto di rischiare ad attraversare malgrado
l’ora notturna, e la testimonianza della Moroni, trasportata sulla vettura,
che aveva rettificato in sede civile la testimonianza resa in sede penale
- nella quale aveva affermato che la macchina si era fermata a 50-100
metri dal punto d’urto, ragion per cui il giudice penale aveva ritenuto
l’eccessiva velocità della F. - ed aveva confermato la dichiarazione di
quest’ultima, secondo la quale la velocità non superava i 30/40 Km orari,
come era desumibile dallo schizzo planimetrico redatto dai verbalizzanti.
Pertanto gli appellanti concludevano per il rigetto della domanda attrice
ed in subordine per la declaratoria di colpa grave della B.. riconoscendo
la responsabilità della F. soltanto ai sensi dell’art. 2054, comma 1,
c.c.
L’appellata eccepiva la carenza di legittimazione processuale del procuratore
della S.p.a. La Fondiaria, Angelo Bennici, in quanto in primo grado si
era costituito Fausto Poli, sì che gli appellanti dovevano provare la
revoca della procura a costui ed il conferimento del nuovo mandato al
difensore da parte del Bennici nella qualità di legale rappresentante
della società, altrimenti la citazione in appello era nulla. Rilevava
altresì la mancanza di autentica della firma del Bennici e concludeva
per l’inammissibilità ed il rigetto dell’appello.
Interponeva appello incidentale la B..
Con sentenza del 13 marzo 2001 la Corte di appello di Bologna accoglieva
parzialmente l’appello principale premettendo:
1)
dall’atto notarile del 22 aprile 1998 risultava che il consiglio di
amministrazione della S.p.a. La Fondiaria, in data 16 settembre 1997,
aveva conferito a Bennici Angelo il potere di rilasciare la procura
alle liti e quindi l’atto di appello era valido;
2) la mancanza di autentica della firma di questi non determinava la
nullità dell’atto;
3) il giudice di primo grado, traendo spunto da un’erronea dichiarazione
della teste Moroni in sede penale, dalla stessa peraltro precisata in
sede civile, sì che si imponeva il confronto tra quella dichiarazione
e lo schizzo planimetrico redatto dai verbalizzanti, da cui si evinceva
la velocità moderata tenuta dalla F. aveva addebitato a costei l’esclusiva
responsabilità dell’incidente, non tenendo conto del comportamento della
B. e che alla conducente predetta non era stata contestata la violazione
dell’art. 102 c.d.s.;
4) peraltro la condotta della F. era stata imperita o distratta perché
la recinzione della casa d’angolo da cui era apparsa la B. non era di
altezza tale da occultarne completamente la sagoma e quindi, proprio
perché non procedeva a velocità eccessiva, avrebbe dovuto avvistarla,
atteso che la strada era illuminata e che l’attraversamento era avvenuto
da sinistra a destra rispetto alla sua direzione di marcia; pertanto
la corresponsabilità di entrambe era da ritenere nella misura del 50%;
5) infatti anche la condotta della B. era stata imprudente, in quanto
dal rapporto e dalla deposizione dei verbalizzanti risultava che era
stata scaraventata sul ciglio erboso a causa dell’urto, e quindi non
vi si trovava già al momento dell’investimento, né perciò aveva completato
l’attraversamento della strada, come aveva sostenuto, mentre d’altro
canto la stessa aveva dichiarato di aver avvistato l’autovettura, sì
che aveva erroneamente calcolato la distanza di questa ed aveva attraversato
a suo rischio e pericolo, senza concedere la precedenza all’auto, in
violazione dell’art. 134, comma 6, previgente c.d.s., e 190, comma 5,
vigente c.d.s.;
6) la liquidazione del danno biologico per invalidità temporanea e permanente
era congrua, essendo anche superiore alle tabelle in uso al Tribunale
di Bologna, mentre il c.t.u. aveva precisato che non vi era stata una
compromissione della capacità reddituale di casalinga, bensì una maggior
usura e disagio nell’espletamento della relativa attività, e per questo
il danno biologico era stato liquidato in detta misura.
Avverso
questa sentenza ricorre per Cassazione B. Gina con nove motivi di ricorso,
cui resistono F. Vanna, Silvano e la S.p.a. La Fondiaria. La ricorrente
ha altresì depositato memoria.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
1.
Con il primo motivo di ricorso la B., deduce: "Violazione dell’art. 75
c.p.c. e contraddittoria ed insufficiente statuizione e motivazione sul
punto ex art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.".
Gli appellanti dovevano provare le ragioni della revoca della rappresentanza
della Fondiaria a Fausto Poli, conferitagli in primo grado, e che Angelo
Bennici era realmente il legale rappresentante della società, così avendo
potuto conferire valido mandato al difensore. In mancanza sussisteva la
carenza di legittimazione processuale e la nullità insanabile dell’appello
della Fondiaria, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza
di primo grado. La procura notarile al Bennici in data 16 settembre 1997
era stata rilasciata non da un funzionario della Fondiaria, bensì della
Milano assicurazioni, impresa diversa, e quindi era invalida per il conferimento
del mandato al difensore ad appellare. Soltanto all’udienza del 17 febbraio
1999 la controparte aveva prodotto copia dell’atto notarile Rogantini,
ma tale produzione è irrilevante perché il termine breve per impugnare
la sentenza di primo grado, notificata il 4 maggio 1998, era scaduto,
mentre d’altro canto tale produzione provava che il Bennici al momento
dell’appello non aveva i poteri per rappresentare la Fondiaria essendo
un semplice direttore il quale, in ogni caso, poteva concludere transazioni
e conferire procura alle liti non oltre trecento milioni di lire, mentre
l’importo liquidato dal giudice di primo grado superava lire 433.000.000,
come desumibile dal precetto intimato. Anche le deleghe ed i mandati dei
F. sono state rilasciate in modo irrituale e viziante la procura.
Il motivo è infondato.
1.1. La denuncia di un vizio attinente al presupposto della valida instaurazione
del rapporto processuale determina l’esame degli atti.
Preliminarmente è da respingere l’eccezione di decadenza della Fondiaria
dalla facoltà di provare la sua legittimazione processuale dopo che le
era stata contestata dalla B., in base al principio secondo il quale si
deve presumere che la persona che agisce in nome e per conto di un altro
soggetto sia investita del relativo potere - e perciò se il giudice, non
sollecitato da apposita contestazione di parte, non ha ritenuto di dover
richiedere alla controparte di dare dimostrazione dei poteri che la persona,
che ha agito per la società, ha dichiarato di poter esercitare, la sentenza
all’esito emessa non è viziata da violazione di norme sul procedimento
- con la conseguenza che la relativa prova documentale non solo non è
assoggettata alle preclusioni di ordine cronologico riguardanti l’espletamento
delle prove costituende, ma può esser fornita in ogni stato e grado del
giudizio, con il solo limite della formazione del giudicato sulla relativa
questione.
1.2. Dalla procura notarile del 22 aprile 1998 conferita dal dott. Gavazzi,
nella qualità di amministratore delegato e rappresentante legale della
società Fondiaria assicurazioni S.p.a., al dott. Bennici, funzionario
per la Direzione legale sinistri, risulta - come correttamente rilevato
dai giudici di appello - la legitimatio ad processum di costui in quanto
titolare, per effetto della delibera del consiglio di amministrazione
di detta società del 16 settembre 1997 - menzionata nella procura - dei
poteri (punto 11) di rappresentanza processuale attiva e passiva e di
conferimento di procura alle liti (punto 11-bis).
1.3. Circa poi il limite oggettivo entro il quale era stata conferita
al Bennici la rappresentanza processuale della Fondiaria - e cioè fino
a lire 300.000.000 - a fronte della somma per la quale le era stato intimato
il pagamento (lire 433.000.000), da un lato è da rilevare che l’indicato
precetto, contenente il calcolo del capitale e degli accessori al cui
pagamento era stata condannata, le è stato notificato in data 19 maggio
1998, dopo l’appello della medesima Fondiaria, e prodotto all’udienza
del 12 aprile 2000; dall’altro che, in applicazione del principio surrichiamato,
tale contestazione doveva esser formulata non oltre la udienza successiva
a quella in cui la predetta aveva prodotto la procura, in difetto dovendosi
ritenere sanata per acquiescenza ai sensi dell’art 157 c.p.c., e perciò
detto profilo di contestazione è ora inammissibile.
1.4. Altrettanto è a dirsi per le generiche doglianze concernenti pretesi
vizi della procura al difensore conferita dai F. in secondo grado.
2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce: "Violazione dell’art. 83
c.p.c. ex artt. 360, n. 3 e 5, c.p.c. per vulnerazione della norma e contraddittoria
motivazione".
La procura era nulla anche per mancanza di certificazione dell’autenticità
della firma del preteso rappresentante legale da parte del suo difensore
(art. 83 c.p.c.), facente prova fino a querela di falso, ed insostituibile.
Il motivo è infondato.
Risulta per tabulas che l’avvocato Giuseppe Vaccari ha apposto la sua
firma a margine dell’atto di appello sotto quella del dott. Bennici, che
gli ha conferito il mandato nella qualità di rappresentante della Fondiaria.
Pertanto è pienamente soddisfatto il requisito della certificazione dell’autografia
della sottoscrizione della parte, stabilito dagli artt. 83 e 125 c.p.c.,
pur in mancanza della dicitura "per autentica", non potendo avere altro
significato la sottoscrizione del difensore immediatamente sottostante
a quella della parte conferentegli il mandato.
3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce: "Violazione dell’art. 651
c.p.p. che, se rettamente applicato, avrebbe dovuto condurre a riconoscere
integralmente responsabile del sinistro de quo F. Vanna, con conseguente
condanna della predetta, del responsabile F. Silvano e dell’istituto assicuratore
al risarcimento integrale dei danni patiti da B. Cina e vulnerazione dell’art.
360, nn. 3 e 5, c.p.c. per contraddittorietà della motivazione".
Malgrado tutti i giudici penali abbiano ritenuto incensurabile la condotta
della B., la sentenza impugnata è stata di diverso avviso, violando in
tal modo manifestamente l’art. 651 c.p.p. a norma del quale la sentenza
penale irrevocabile di condanna pronunciata a seguito di dibattimento
ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per il
risarcimento del danno quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità
penale, ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Il Pretore
penale aveva ben evidenziato la colpa esclusiva della F. e la sua imperizia
ed imprudenza nella guida, causa dell’investimento della B., avvenuto
allorché costei aveva quasi terminato l’attraversamento della carreggiata.
La Corte felsinea, dinanzi alla quale l’appellante F. aveva impugnato
la sentenza di primo grado chiedendo di accertare la prevalente colpa
della B., aveva ribadito la responsabilità esclusiva dell’appellante desumendola
dal punto d’urto - poche decine di centimetri dal lato destro della strada
- e dalla mancanza di tracce di frenata sulla stessa, il che significava
che la F. non si era accorta dell’attraversamento della B. - quasi sessantenne
all’epoca del sinistro, ragion per cui non poteva procedere di corsa -
né era stata in grado di attuare una manovra di emergenza spostandosi
sul lato sinistro, malgrado la carreggiata fosse libera da veicoli in
senso contrario, ovvero di fermarsi, il che significava che la velocità
non poteva esser moderata. Il ricorso per Cassazione avverso questa sentenza
penale era stato respinto. Quindi la sentenza di appello civile aveva
violato il giudicato penale.
4. Con il quarto motivo di ricorso la ricorrente deduce: "Violazione dell’art.
651 c.p.p. in relazione quantomeno alla posizione dell’imputata e condannata
F. Vanna in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. essendovi vulnerazione
di legge e contraddittorietà della motivazione".
A norma dell’art. 651 c.p.p. almeno la F. doveva esser condannata all’integrale
risarcimento dei danni civili perché la sentenza penale aveva accertato
la sua responsabilità esclusiva nella causazione dello incidente e perciò
la Corte di appello di Bologna non poteva riesaminare il merito al fine
di distribuire la colpa tra danneggiante e danneggiata.
I motivi, che possono trattarsi congiuntamente, sono fondati nei limiti
di seguito indicati.
4.1. L’art. 651 c.p.p., norma che disciplina l’efficacia della sentenza
penale di condanna nel giudizio civile per il risarcimento del danno,
dispone che la sentenza irrevocabile di condanna, pronunciata in dibattimento,
ha efficacia di giudicato nei confronti del condannato e del responsabile
civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale
"quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità
penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso".
Per "fatto" accertato dal giudice penale deve intendersi il nucleo oggettivo
del reato nella sua materialità fenomenica, costituita dall’accadimento
oggettivo, accertato dal giudice penale, configurato dalla condotta, evento
e nesso di causalità materiale tra l’una e l’altro (fatto principale),
e le circostanze di tempo, luogo e modi di svolgimento di esso. Ne consegue
che, mentre nessun’efficacia vincolante esplica nel giudizio civile il
giudizio penale - e cioè l’apprezzamento e la valutazione di tali elementi
- la ricostruzione storico-dinamica di essi è invece preclusiva di un
nuovo accertamento da parte del giudice civile, che non può procedere
ad una diversa ed autonoma ricostruzione dell’episodio. Egli può invece
indagare su altre modalità del fatto non considerate dal giudice penale
ai fini del giudizio a lui demandato, come ad esempio il comportamento
della parte lesa, negli aspetti non esaminati dal giudice penale, ed incidenti
sull’apporto causale nella produzione dell’evento. Altresì rimesso all’accertamento
ed alla valutazione del giudice civile è l’elemento soggettivo del fatto,
escluso dalla nozione obbiettiva di esso, e non comprensibile nella nozione
di "illiceità penale" di cui all’art. 651 c.p.p.
4.2. I giudici di appello, nel valutare il grado della colpa e la misura
dell’attribuzione dell’evento alla condotta della conducente F. Vanna,
non si sono attenuti a tali principi.
Gli elementi di fatto vincolanti accertati dal giudice penale di primo
grado - emergenti dal terzo motivo di ricorso, in cui è trascritta la
sentenza del Pretore penale di Forlì (1012/95) - sono i seguenti:
1)
l’attraversamento della carreggiata quasi terminato dalla B. quando
fu investita;
2) l’arresto del veicolo condotto dalla F. a 50-100 mt. dal punto d’urto,
senza tracce di frenata;
3) il luogo - centro urbano - ed il tempo - orario notturno (ore 23)
- dell’incidente;
4) la condotta di guida veloce, in relazione anche alle circostanze
di tempo e luogo, che aveva impedito alla F. di avvistare la B. e di
compiere una manovra di emergenza e che perciò era stata causa dell’investimento.
La
Corte di appello penale (sentenza 1831/1998), nel confermare la sentenza
di primo grado, ha aggiunto come ulteriori elementi
1)
la strada era larga e non sopravvenivano veicoli in senso contrario;
2) la B., al momento dell’investimento, era a poche decine di centimetri
di distanza dal ciglio di destra della strada;
3) il punto di collisione avvenne con la parte anteriore destra (frammenti
dei fari) dell’auto. Questo il quadro costituente il fatto, passato
in giudicato.
4.3.
I giudici di appello, nel valutare la condotta della F. ai fini dell’accertamento
del suo apporto causale nella determinazione dell’incidente e quindi della
misura della sua colpa, l’hanno disancorata da alcuni di tali dati di
fatto obbiettivi. Infatti hanno accertato una condotta di guida della
stessa non veloce attraverso una diversa ricostruzione del dato costituito
dalla distanza tra il punto d’urto e quello di arresto dell’auto (valorizzando
a tal fine lo schizzo planimetrico dei verbalizzanti, redatto sul presupposto
del non spostamento dell’auto dopo l’incidente, circostanza riferita dalla
Moroni, cugina trasportata sull’auto della F., e la testimonianza resa
in sede civile dalla medesima, non coincidente con quella resa in sede
penale sulla predetta circostanza e ritenendo inverosimile la circostanza
che la B. avesse quasi completamente terminato l’attraversamento della
strada allorché fu investita).
4.4. Sussiste pertanto la violazione dell’art. 651 c.p.p. per quanto attiene
alla F., condannata nel processo penale, e pertanto la sentenza della
Corte di appello di Bologna va cassata in relazione alla misura della
corresponsabilità della medesima, che dovrà esser riesaminata alla luce
del seguente principio di diritto: "nel giudizio civile per il risarcimento
del danno il fatto accertato dal giudice penale con sentenza irrevocabile
di condanna ha efficacia vincolante nei confronti dell’imputato-danneggiante
per quanto attiene alla sua realtà fenomenica e pertanto la ricostruzione
della dinamica di un incidente, in relazione alle modalità obbiettive
della condotta (commissiva od omissiva) del medesimo, nonché alle circostanze
di tempo e luogo accertate dal giudice penale, non può esser diversamente
ricostruita, ma soltanto valutata".
4.5. Per quanto attiene invece ai corresponsabili civili - F. Silvano,
proprietario dell’auto (comma 3 dell’art. 2054 c.c.), e la S.p.a. La Fondiaria
assicurazioni (art. 18 della l. 990/1969), essi non hanno partecipato
al giudizio penale e pertanto il giudice civile non aveva vincoli, per
effetto dell’inequivocabile disposizione letterale dello stesso art. 651
c.p.p. - "nei confronti del responsabile civile che sia stato citato o
che sia intervenuto nel processo penale" - nella valutazione critica delle
risultanze emerse in sede penale. Ed infatti, mentre per il previgente
art. 27 c.p.p. (omologo del vigente art. 651 c.p.p.), dopo la sentenza
della Corte costituzionale 99/1973, era sufficiente, per il riconoscimento
dell’autorità di giudicato della sentenza penale anche nei confronti del
responsabile civile rimasto estraneo al relativo processo, nel giudizio
civile o amministrativo per le restituzioni od il risarcimento del danno,
che egli fosse stato posto in condizione giuridica e di fatto di parteciparvi
- e cioè, in base alle sentenze della Corte costituzionale 55/1971 e 165/1975,
bastava che egli avesse ricevuto le comunicazioni previste dall’art. 304
c.p.p. nel testo modificato dall’art. 8 l. 932/1969: Cassazione 8409/1996)
- per il legislatore del nuovo c.p.p. del 1988 il responsabile civile
che non sia stato citato o non sia intervenuto nel processo penale non
può subire alcun pregiudizio giuridico dalla sentenza penale di condanna
del soggetto del cui fatto illecito egli debba civilmente rispondere.
Ne deriva che nei loro confronti gli accertamenti di fatto effettuati
dal giudice penale possono esser autonomamente valutati.
Nei suesposti termini vanno quindi accolti i motivi esaminati.
5. Con il quinto motivo la ricorrente deduce: "Violazione dell’art. 102
c.d.s. (del 1959) e manifesta contraddittorietà della motivazione sul
punto in quanto insufficiente e contraddittoria ex art. 360, nn. 3 e 5,
c.p.c.".
La motivazione è insufficiente e contraddittoria là dove sminuisce la
deposizione resa dalla teste Moroni, cugina dell’imputata, non prestando
fede alla circostanza da essa riferita della distanza tra l’arresto della
macchina ed il punto d’urto - 50-100 metri - e al contempo nel prestar
fede alla sua testimonianza nell’aver dichiarato che l’auto dopo l’urto
non era stata spostata, né tale vizio di motivazione è superato dallo
schizzo planimetrico dei verbalizzanti perché redatto proprio su questo
presupposto. La contraddizione della sentenza impugnata è ancor più evidente
perché nessuna teste può scambiare la distanza di 7-8 metri, quale ritenuta
dai giudici di appello, con 50-100 metri, come dichiarato in sede penale
dalla Moroni. Dunque la ritenuta velocità di 30-40 Km/h, in accoglimento
delle affermazioni della F., disattese dal giudice penale, senza tener
conto che la B. ha dichiarato che l’auto era lontana allorché iniziò ad
attraversare, è erronea ed illogica perché invece era da inferire la velocità
non moderata della guida.
6. Con il sesto motivo la ricorrente deduce: "Falsa applicazione degli
art. 134/6 c.d.s. del 1959 e dell’art. 190/5 c.d.s. del 1992 nonché insufficiente
e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia:
art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.".
Il travisamento dei fatti da parte dei giudici di appello emerge non solo
dal non aver considerato che la B. aveva quasi completato l’attraversamento
allorché fu investita, ma anche dall’aver considerato che alla F. non
fu contestato l’eccesso di velocità, senza al contempo considerare che
nemmeno alla B. fu contestata alcuna violazione del codice della strada
e dunque la corresponsabilità di quest’ultima è illogica e contraddittoria
perché la stessa circostanza - non elevazione di contravvenzione - viene
considerata diversamente per la danneggiante e per la danneggiata. Sia
dal rapporto che dalla testimonianza confermativa di esso resa dai verbalizzanti
risultava che la B. si trovava sul ciglio erboso, distante 50 centimetri
dal cancello ove la stessa era diretta. Perciò il punto di investimento
era dopo l’attraversamento della carreggiata, avviato allorché l’auto
era lontana e senza che la B. potesse prevedere che la F. non l’avvistasse
e non frenasse, e quindi non sussisteva alcuna violazione dell’art. 134
c.d.s., come invece erroneamente ritenuto dalla Corte di appello.
I motivi, da trattare congiuntamente perché connessi, sono assorbiti dalle
considerazioni espresse nell’accoglimento di quelli che precedono perché
il nuovo accertamento della responsabilità della F., tenendo fermi i dati
di fatto accertati dal giudice penale, comporterà comunque una nuova valutazione
critica del complessivo materiale probatorio.
7. Con il settimo motivo la ricorrente deduce: "Violazione degli artt.
2043-2056-2057 c.c. nonché 32 Cost. e vulnerazione dell’art. 360, nn.
3 e 5, c.p.c. essendo anche contraddittoria la motivazione".
Per lesioni di particolare rilevanza le tabelle non sono utilizzabili
perché non personalizzano il pregiudizio derivante dal danno biologico.
Il motivo va respinto.
La censura, per quanto attiene alla liquidazione - equitativa - del danno
alla salute, anche grave, calcolato sul punto di invalidità, ottenuto
dalla media dei precedenti giudiziari, è infondata, essendo invece tale
criterio senz’altro adottabile dal giudice di merito e pertanto in sé
non censurabile in sede di legittimità (tra le più recenti, Cassazione
8169/2003). Per quanto attiene invece all’omessa personalizzazione del
predetto danno la censura è inammissibile perché si limita a richiamare
la necessità di tale adattamento al caso concreto, senza neppure indicare
quale aspetto, censurato in appello, non sia stato considerato o lo sia
stato inadeguatamente e con quale incidenza sul risarcimento totale riconosciuto.
8. Con l’ottavo motivo la B. deduce: "Violazione degli artt. 1223-1226-2043-2056-2057
c.c. nonché dell’art. 4 l. 39/1977 e dei principi giurisprudenziali dettati
dalla Suprema Corte di piena risarcibilità del danno patrimoniale da incapacità
temporanea e permanente della casalinga: il lucro cessante ex art. 360,
nn. 3 e 5, c.p.c.".
Il marito ed il figlio avevano dichiarato che l’infortunata non riusciva
più a svolgere le faccende domestiche e tale danno, da rapportare all’inabilità
temporanea assoluta (190 giorni) e parziale (40 giorni), nonché ai postumi
permanenti, poteva esser quantificato o con riferimento al triplo della
pensione sociale o nella somma da corrispondere ad una collaboratrice
domestica. Anche il c.t.u., contrariamente a quanto assume la sentenza,
aveva riconosciuto che il danno permanente incideva sull’espletamento
dell’attività di casalinga anche se poi aveva indicato, come criterio
per liquidare la maggiore usura e disagio per la B., priva di reddito
reale, il cosiddetto punto pesante - 2/3 del valore indicato per danno
biologico - il che, se fosse stato applicato, avrebbe comportato il riconoscimento
della somma non inferiore a lire 120.000.000, necessaria anche per sopperire
alle necessità di assistenza in futuro per la predetta. Quindi, applicando
soltanto il punto tabellare, non era stato considerato il lucro cessante
per la necessità di assistenza, e perciò il danno patrimoniale non era
stato liquidato.
Il motivo è fondato.
Il pregiudizio economico che subisce una casalinga menomata nell’espletamento
della sua attività in conseguenza delle lesioni è pecuniariamente valutabile
come danno emergente (art. 1223 c.c., richiamato dall’art. 2056 c.c.),
e può esser liquidato, anche in via equitativa, e pur nell’ipotesi in
cui la stessa fosse già solita avvalersi di collaboratori domestici, perché
comunque i compiti della medesima sono più ampi e più intensi, e con maggiori
responsabilità di quelli espletabili da un prestatore d’opera dipendente
(Cassazione 10923/1997), e quindi il riferimento, nel relativo procedimento
di liquidazione, al reddito di una collaboratrice familiare, deve tener
conto di tutte le peculiarità del caso concreto raffrontando la globale
situazione domestica prima e dopo il danno subito.
Pertanto i giudici di appello, che hanno ritenuto che tale danno, riconosciuto
per la maggior usura e disagio nell’espletamento delle mansioni domestiche
da parte della B., sia stato liquidato nell’aver il giudice di primo grado
applicato per il risarcimento per il danno biologico una tabella superiore
a quella in uso presso la medesima Corte, non hanno tenuto conto dei principi
innanzi richiamati per la liquidazione del danno patrimoniale della casalinga
riportato a seguito delle lesioni subite ed hanno perciò violato gli artt.
1223 e 2056 c.c. Quindi anche questo capo di sentenza deve esser cassato
per una nuova valutazione del predetto danno patrimoniale alla luce del
surrichiamati principi.
9. Con il nono motivo di ricorso la ricorrente deduce: "Violazione degli
artt. 1223-1226-2043-2056-2057 c.c.: omessa motivazione sul punto della
mancata liquidazione di costi e di spese necessarie".
La Corte di appello non ha liquidato neppure il danno al vestiario, né
la perdita di monili, conseguenze dell’incidente, benché le circostanze
fossero state dimostrate. Il gravame incidentale di fatto non era stato
considerato dalla Corte di appello. Le spese di tutti i gradi devono esser
distratte a favore del difensore, antistatario.
Il motivo è inammissibile.
Il vizio di omessa pronuncia sui motivi di appello - che si traduce nella
violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato -
è deducibile con ricorso per cassazione esclusivamente ai sensi dell’art.
360, n. 4, c.p.c. (nullità della sentenza e del procedimento), e perciò
non può esser fatto valere come violazione o falsa applicazione di norme
di diritto (art. 360, n. 3, c.p.c.), né, tanto meno, come vizio di motivazione
(art. 360, n. 5, c.p.c.) (Cassazione 604/2003).
10. Concludendo la sentenza della Corte di appello va cassata in relazione
ai capi di accertamento del grado di corresponsabilità della F. e di risarcimento
del danno complessivo a quest’ultima riconosciuto dovendo esser valutato
il danno patrimoniale per la menomazione dell’attività di casalinga conseguente
alle lesioni subite, non calcolato dai giudici di merito.
Il giudice di rinvio si adeguerà ai principi di diritto innanzi esposti
e provvederà altresì a liquidare le spese anche del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La
Corte di cassazione accoglie il ricorso per quanto di ragione; cassa in
relazione e rinvia ad altra Sezione della Corte di appello di Bologna
anche per le spese del giudizio di Cassazione.
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