Giurisprudenza di legittimità - Insidia stradale: comportamento abnorme del danneggiato esclude responsabilità
Cassazione , sez. III civile, sentenza 04.11.2003 n° 16527
Da "Altalex"
Insidia
stradale: comportamento abnorme del danneggiato esclude responsabilità
(Cassazione
, sez. III civile, sentenza 04.11.2003 n° 16527 )
La
Cassazione è intervenuta sul tema della responsabilità dellla pubblica
amministrazione per i danni provocati da situazioni pericolose sulle
strade, precisando al riguardo che il giudizio sulla pericolosità
delle cose inerti non può prescindere da un modello relazionale
per cui la cosa venga vista nel suo normale interagire col contesto
dato e che una cosa inerte può definirsi pericolosa quando determini
un alto rischio di pregiudizio nel contesto di normale interazione
con la realtà circostante.
Con la sentenza 4 novembre 2003 n. 16527 la Suprema Corte ha rigettato
il ricorso presentato da un cittadino, il quale aveva citato il
comune per ottenere il risarcimento dei danni subiti in seguito
all’urto contro un ramo di un albero che fiancheggiava una strada
urbana, che gli aveva procurato lesioni alla palpebra destra.
Nella specie i giudici di merito avevano accertato che il tronco
ed il ramo dell’albero in questione erano perfettamente visibili
e che il danno era stato provocato per l’abnorme comportamento del
danneggiato, atteggiandosi in tal caso la cosa come mera occasione
e non come causa del danno.
(Altalex, 11 dicembre 2003)
Cassazione
Sezione Terza Civile
Sentenza 4 novembre 2003 n. 16527
(Presidente
A. Giuliano - Relatore A. Amatucci)
Svolgimento del processo
Alle 10,30 dell’1.3.1996 M. M, dopo aver parcheggiato la propria autovettura
sulla banchina erbosa di una strada urbana fiancheggiata da alberi
di alto fusto, si incamminò lungo il ciglio asfaltato della strada
quando, essendole cadute le chiavi, si chinò per raccoglierle. Nel
rialzarsi urtò contro un ramo di uno degli alberi, procurandosi lesioni
alla palpebra destra. Nel novembre del 1996 convenne in giudizio il
comune di Modena chiedendone, ex art. 2051 c.c., la condanna al risarcimento
dei danni, indicati in £ 4.387.800.
Il comune convenuto resistette e l’adito giudice di pace rigettò la
domanda sul rilievo che l’evento dannoso era esclusivamente imputabile
alla stessa attrice.
Con sentenza n. 561 del 1999 il tribunale di Modena ha rigettato l’appello
della M. escludendo l’intrinseca pericolosità del ramo in relazione
ad un normale comportamento degli utenti della strada, affermando
che esso era pienamente visibile e negando dunque che fosse configurabile
la responsabilità dell’ente proprietario della strada ai sensi dell’art.
2051 c.c., ovvero dell’art. 2043 c.c..
Avverso detta sentenza ricorre per cassazione M. M. affidandosi a
quattro motivi.
Il comune intimato non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
Col primo motivo deducendo violazione e falsa applicazione dell’art.
2051 c.c. la ricorrente si duole che il tribunale abbia ritenuto che
l’art. 2051 c.c. sia applicabile solo al danno cagionato dalle cose
intrinsecamente pericolose, mentre la responsabilità sussiste anche
se la cosa possa divenire tale a seguito dell’incidenza di fattori
causali esterni.
Col secondo motivo è dedotta "omessa pronuncia circa un punto decisivo
della controversia per non avere il tribunale riconosciuto il messo
eziologico esistente tra la peculiare condizione dei rami delle piante
situate in via (omissis) e l’infortunio subito" dalla ricorrente,
laddove aveva escluso che i rami sporgenti di un albero potessero
costituire fonte di possibile pregiudizio per una persona di media
diligenza. Afferma la ricorrente che era pacificamente emerso che
i rami delle piante, potati solo un mese dopo il fatto, si protendevano
fino a poca distanza da terra, sicché non poteva dubitarsi della estrema
pericolosità acquisita dalle piante a seguito dell’eccessiva e disordinata
crescita delle loro ramificazioni.
Col terzo motivo è denunciata "erronea e falsa applicazione dell’art.
2051 c.c. per avere omesso il tribunale di considerare che la responsabilità
del custode è presunta e che spetta al medesimo fornire la prova positiva
del fortuito". Sostiene che il fortuito può essere bensì costituito
anche dal fatto dello stesso danneggiato, ma ciò solo in quanto abbia
costituito la causa esclusiva dell’evento dannoso, sia dotato di autonomo
impulso causale e sia per lo stesso custode imprevedibile ed inevitabile.
Afferma inoltre che se è vero che l’obbligo di custodia del proprietario
non esonera il terzo dal dovere di rapportarsi alla cosa con la necessaria
diligenza, è tuttavia inammissibile addossare al cittadino l’obbligo
di ispezionare minuziosamente gli alberi prima di avviarsi lungo il
ciglio della strada priva di un marciapiede adibito al transito dei
pedoni, in quanto egli deve poter fare affidamento sulla idoneità
delle piante, come di ogni altra struttura di arredo urbano, a non
arrecare danno.
Nega, poi, che nella specie quel ramo fosse perfettamente visibile
alle 10,30 di una mattina del mese di marzo (come sostenuto dal comune),
in quanto l’assenza di fogliame, la nebbia e la crescita disordinata
dei rami che si nascondevano l’un l’altro alla vista, rendeva possibile
distinguerli ed evitarli anche usando la massima diligenza possibile.
Col quarto motivo, da ultimo, è subordinatamente prospettata violazione
e falsa applicazione degli artt. 2051 e 1227, comma 1, c.c., per non
avere il tribunale ritenuto che la colpa dell’infortunata costituisse
una semplice concausa dell’evento dannoso, peraltro addebitabile anche
al comune per non avere, se non un mese dopo il fatto, provveduto
ad un’adeguata opera di cura e manutenzione delle piante.
Il ricorso va respinto.
Il tribunale ha ritenuto in fatto che dalla stessa documentazione
prodotta dalla M. risultava che lo sporgere dei rami era adeguatamente
visibile e tale da mettere in preavviso un soggetto che vi si avvicinasse
con media accortezza.
Le opposte considerazioni svolte dalla ricorrente in questa sede (giornata
nebbiosa, indistinguibilità dei rami privi di fogliame, crescita caotica
degli stessi con abnormi sporgenze) attengono evidentemente alla valutazione
del fatto, esclusivamente riservata al giudice del merito e non reiterabile
in sede di legittimità.
Costituisce dunque dato di fatto accertato che i rami erano ben visibili
e che, nel contesto dato, la M. avrebbe potuto evitare di urtarvi
contro, se solo avesse adottato un comportamento connotato da media
accortezza.
A tanto la ricorrente oppone che il cittadino ha diritto di confidare
nella carenza di attitudine delle cose costituenti l’arredo urbano
ad arrecare danno. Ma proprio tale attitudine della cosa ad arrecare
danno il tribunale ha escluso in base ad un giudizio necessariamente
condotto ex ante. Ha infatti osservato che il giudizio sulla pericolosità
delle cose inerti non può prescindere da "un modello relazionale per
cui la cosa venga vista nel suo normale interagire col contesto dato"
e che una cosa inerte può definirsi pericolosa "quando determini un
alto rischio di pregiudizio nel contesto di normale interazione con
la realtà circostante".
Tali affermazioni sono assolutamente corrette in diritto. Del resto,
se si prescindesse da tali parametri valutativi dovrebbe paradossalmente
ravvisarsi la responsabilità del custode anche in caso di urto di
un pedone contro il tronco di un albero (che egli non abbia per avventura
scorto perché voltatosi a salutare un amico; cosi come la M. non scorse
il ramo perché chinatasi per raccogliere le chiavi) che non fosse
stato adeguatamente protetto con una struttura avvolgente morbida.
Ma cosi come non è pericoloso il tronco perfettamente visibile, non
è pericoloso il ramo che sia altrettanto chiaramente visibile, per
l’ovvia ragione che né l’uno né l’altro, determinano un rischio di
pregiudizio in contesti del tipo di quello considerato dal tribunale.
Se, nonostante ciò, il contatto con la cosa provochi un danno per
l’abnorme comportamento del danneggiato, difetta il presupposto per
l’operare della presunzione di responsabilità di cui all’art. 2051
c.c., atteggiandosi in tal caso la cosa come mera occasione e non
come causa del danno.
Nell’apprezzamento operato dal tribunale difettava un fattore causale
esterno, diverso ed ulteriore rispetto alla disattenzione della vittima,
che potesse aver fatto assumere alla cosa la pericolosità di cui era
intrinsecamente priva, sicché il primo motivo è infondato per tale
assorbente ragione.
Il secondo motivo si risolve come si è accennato in un inammissibile
sindacato dell’apprezzamento del fatto operato dal giudice del merito.
Il terzo ed il quarto motivo sono infondati perché presuppongono la
sussistenza di nesso causale fra cosa e danno, invece esclusa in radice
dal tribunale.
In difetto di esercizio di attività difensiva da parte dell’intimato
non sussistono i presupposti per provvedere sulle spese.
P.Q.M.
La Cassazione è intervenuta sul tema della responsabilità dellla pubblica amministrazione per i danni provocati da situazioni pericolose sulle strade, precisando al riguardo che il giudizio sulla pericolosità delle cose inerti non può prescindere da un modello relazionale per cui la cosa venga vista nel suo normale interagire col contesto dato e che una cosa inerte può definirsi pericolosa quando determini un alto rischio di pregiudizio nel contesto di normale interazione con la realtà circostante.
Con la sentenza 4 novembre 2003 n. 16527 la Suprema Corte ha rigettato il ricorso presentato da un cittadino, il quale aveva citato il comune per ottenere il risarcimento dei danni subiti in seguito all’urto contro un ramo di un albero che fiancheggiava una strada urbana, che gli aveva procurato lesioni alla palpebra destra.
Nella specie i giudici di merito avevano accertato che il tronco ed il ramo dell’albero in questione erano perfettamente visibili e che il danno era stato provocato per l’abnorme comportamento del danneggiato, atteggiandosi in tal caso la cosa come mera occasione e non come causa del danno.
(Altalex, 11 dicembre 2003)
Cassazione
Sezione Terza Civile
Sentenza 4 novembre 2003 n. 16527
(Presidente A. Giuliano - Relatore A. Amatucci)
Svolgimento del processo
Alle 10,30 dell’1.3.1996 M. M, dopo aver parcheggiato la propria autovettura sulla banchina erbosa di una strada urbana fiancheggiata da alberi di alto fusto, si incamminò lungo il ciglio asfaltato della strada quando, essendole cadute le chiavi, si chinò per raccoglierle. Nel rialzarsi urtò contro un ramo di uno degli alberi, procurandosi lesioni alla palpebra destra. Nel novembre del 1996 convenne in giudizio il comune di Modena chiedendone, ex art. 2051 c.c., la condanna al risarcimento dei danni, indicati in £ 4.387.800.
Il comune convenuto resistette e l’adito giudice di pace rigettò la domanda sul rilievo che l’evento dannoso era esclusivamente imputabile alla stessa attrice.
Con sentenza n. 561 del 1999 il tribunale di Modena ha rigettato l’appello della M. escludendo l’intrinseca pericolosità del ramo in relazione ad un normale comportamento degli utenti della strada, affermando che esso era pienamente visibile e negando dunque che fosse configurabile la responsabilità dell’ente proprietario della strada ai sensi dell’art. 2051 c.c., ovvero dell’art. 2043 c.c..
Avverso detta sentenza ricorre per cassazione M. M. affidandosi a quattro motivi.
Il comune intimato non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
Col primo motivo deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 c.c. la ricorrente si duole che il tribunale abbia ritenuto che l’art. 2051 c.c. sia applicabile solo al danno cagionato dalle cose intrinsecamente pericolose, mentre la responsabilità sussiste anche se la cosa possa divenire tale a seguito dell’incidenza di fattori causali esterni.
Col secondo motivo è dedotta "omessa pronuncia circa un punto decisivo della controversia per non avere il tribunale riconosciuto il messo eziologico esistente tra la peculiare condizione dei rami delle piante situate in via (omissis) e l’infortunio subito" dalla ricorrente, laddove aveva escluso che i rami sporgenti di un albero potessero costituire fonte di possibile pregiudizio per una persona di media diligenza. Afferma la ricorrente che era pacificamente emerso che i rami delle piante, potati solo un mese dopo il fatto, si protendevano fino a poca distanza da terra, sicché non poteva dubitarsi della estrema pericolosità acquisita dalle piante a seguito dell’eccessiva e disordinata crescita delle loro ramificazioni.
Col terzo motivo è denunciata "erronea e falsa applicazione dell’art. 2051 c.c. per avere omesso il tribunale di considerare che la responsabilità del custode è presunta e che spetta al medesimo fornire la prova positiva del fortuito". Sostiene che il fortuito può essere bensì costituito anche dal fatto dello stesso danneggiato, ma ciò solo in quanto abbia costituito la causa esclusiva dell’evento dannoso, sia dotato di autonomo impulso causale e sia per lo stesso custode imprevedibile ed inevitabile. Afferma inoltre che se è vero che l’obbligo di custodia del proprietario non esonera il terzo dal dovere di rapportarsi alla cosa con la necessaria diligenza, è tuttavia inammissibile addossare al cittadino l’obbligo di ispezionare minuziosamente gli alberi prima di avviarsi lungo il ciglio della strada priva di un marciapiede adibito al transito dei pedoni, in quanto egli deve poter fare affidamento sulla idoneità delle piante, come di ogni altra struttura di arredo urbano, a non arrecare danno.
Nega, poi, che nella specie quel ramo fosse perfettamente visibile alle 10,30 di una mattina del mese di marzo (come sostenuto dal comune), in quanto l’assenza di fogliame, la nebbia e la crescita disordinata dei rami che si nascondevano l’un l’altro alla vista, rendeva possibile distinguerli ed evitarli anche usando la massima diligenza possibile.
Col quarto motivo, da ultimo, è subordinatamente prospettata violazione e falsa applicazione degli artt. 2051 e 1227, comma 1, c.c., per non avere il tribunale ritenuto che la colpa dell’infortunata costituisse una semplice concausa dell’evento dannoso, peraltro addebitabile anche al comune per non avere, se non un mese dopo il fatto, provveduto ad un’adeguata opera di cura e manutenzione delle piante.
Il ricorso va respinto.
Il tribunale ha ritenuto in fatto che dalla stessa documentazione prodotta dalla M. risultava che lo sporgere dei rami era adeguatamente visibile e tale da mettere in preavviso un soggetto che vi si avvicinasse con media accortezza.
Le opposte considerazioni svolte dalla ricorrente in questa sede (giornata nebbiosa, indistinguibilità dei rami privi di fogliame, crescita caotica degli stessi con abnormi sporgenze) attengono evidentemente alla valutazione del fatto, esclusivamente riservata al giudice del merito e non reiterabile in sede di legittimità.
Costituisce dunque dato di fatto accertato che i rami erano ben visibili e che, nel contesto dato, la M. avrebbe potuto evitare di urtarvi contro, se solo avesse adottato un comportamento connotato da media accortezza.
A tanto la ricorrente oppone che il cittadino ha diritto di confidare nella carenza di attitudine delle cose costituenti l’arredo urbano ad arrecare danno. Ma proprio tale attitudine della cosa ad arrecare danno il tribunale ha escluso in base ad un giudizio necessariamente condotto ex ante. Ha infatti osservato che il giudizio sulla pericolosità delle cose inerti non può prescindere da "un modello relazionale per cui la cosa venga vista nel suo normale interagire col contesto dato" e che una cosa inerte può definirsi pericolosa "quando determini un alto rischio di pregiudizio nel contesto di normale interazione con la realtà circostante".
Tali affermazioni sono assolutamente corrette in diritto. Del resto, se si prescindesse da tali parametri valutativi dovrebbe paradossalmente ravvisarsi la responsabilità del custode anche in caso di urto di un pedone contro il tronco di un albero (che egli non abbia per avventura scorto perché voltatosi a salutare un amico; cosi come la M. non scorse il ramo perché chinatasi per raccogliere le chiavi) che non fosse stato adeguatamente protetto con una struttura avvolgente morbida. Ma cosi come non è pericoloso il tronco perfettamente visibile, non è pericoloso il ramo che sia altrettanto chiaramente visibile, per l’ovvia ragione che né l’uno né l’altro, determinano un rischio di pregiudizio in contesti del tipo di quello considerato dal tribunale. Se, nonostante ciò, il contatto con la cosa provochi un danno per l’abnorme comportamento del danneggiato, difetta il presupposto per l’operare della presunzione di responsabilità di cui all’art. 2051 c.c., atteggiandosi in tal caso la cosa come mera occasione e non come causa del danno.
Nell’apprezzamento operato dal tribunale difettava un fattore causale esterno, diverso ed ulteriore rispetto alla disattenzione della vittima, che potesse aver fatto assumere alla cosa la pericolosità di cui era intrinsecamente priva, sicché il primo motivo è infondato per tale assorbente ragione.
Il secondo motivo si risolve come si è accennato in un inammissibile sindacato dell’apprezzamento del fatto operato dal giudice del merito.
Il terzo ed il quarto motivo sono infondati perché presuppongono la sussistenza di nesso causale fra cosa e danno, invece esclusa in radice dal tribunale.
In difetto di esercizio di attività difensiva da parte dell’intimato non sussistono i presupposti per provvedere sulle spese.
P.Q.M.
la corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.