Gli
agenti di polizia giudiziaria che indagano sulla pedofilia possono svolgere
il ruolo di agenti provocatori quando sia necessario per la prevenzione
e la repressione dei reati contro i minori. Lo ha stabilito la Terza Sezione
Penale della Corte di Cassazione, che ha spiegato che l’attività di contrasto
prevista dalla legge 269 del 1998 sullo sfruttamento sessuale dei minori
autorizza la polizia giudiziaria a svolgere un vero e proprio ruolo di
agente provocatore in deroga ai principi processuali sull’acquisizione
delle prove. Tale eccezione, ha affermato la Suprema Corte, è ammessa
in virtù della gravità e dell’allarme sociale dei reati in materia di
pedo - pornografia, e tale attività non è in contrasto con le norme costituzionali
purché sia strettamente limitata a casi eccezionali e soggetta ad una
rigida disciplina che ne stabilisca rigorosamente i limiti e le procedure.
(24 novembre 2003)
Suprema
Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, sentenza n. 39706/2003
Svolgimento
del processo
Con
decreto del Pm presso il Tribunale per i minorenni di Salerno del 27 gennaio
2003 fu disposto il sequestro probatorio, nei confronti di B.L. (maggiorenne)
di un personal computer e di diversi oggetti accessori (dischetti, CD
ROM, dischi Zip, dischi rigidi portatili) in relazione ai reati di cui agli articoli 600ter
e 600quater Cp [1].
Il Tribunale per i minorenni di Salerno, quale giudice del riesame, con
ordinanza del 7 febbraio 2003, osservò:
che sulla base degli atti trasmessi dal Pm sussisteva il fumus esclusivamente
in relazione al reato di cui all’articolo 600quater Cp, mentre non era
assolutamente rinvenibile il fumus di una delle fattispecie delittuose
di cui all’articolo 600ter Cp;
che, per tale reato, non era prevista l’attività di contrasto ai sensi
dell’articolo 14 della legge 269/98
[1], il quale limita tale attività al solo fine di acquisire elementi
di prova per i delitti di cui agli articoli 600bis, primo comma, 600ter,
commi 1, 2 e 3, e 600quinques Cp, e non anche per il reato di cui all’articolo
600quater Cp, concernente la mera detenzione consapevole di materiale
pedopornografico;
che di conseguenza doveva annullarsi il decreto di sequestro impugnato
ed ordinarsi la restituzione di quanto in sequestro.
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di
Salerno propone ricorso per cassazione deducendo:
che il procedimento nei confronti di B. è nato a seguito di un provvedimento
di stralcio emesso nel procedimento a carico di tale C.G., procedimento
nel quale era stata disposta l’attività di cui all’articolo 14 della legge
269/98. Ne consegue che non ci si trova di fronte ad un’ipotesi di valutazione
della legittimità del provvedimento del Pm che autorizza l’attività di
contrasto ai sensi del citato articolo 14 ma in quella, diversa, di utilizzabilità
in un processo di atti acquisiti in altro procedimento.
che a quest’ultimo riguardo non è prevista nessuna specifica disposizione,
con la conseguenza che devono applicarsi le disposizioni generali sull’utilizzabilità
degli atti e sui presupposti dei provvedimenti di perquisizione e sequestro;
che, anche se si volesse equiparare l’attività ex articolo 14 legge 269/98,
alle intercettazioni telefoniche o telematiche, non dovrebbe trovare applicazione
l’articolo 270, primo comma, Cpp
[3], perché, secondo la giurisprudenza, qualora le registrazioni di
intercettazioni telefoniche rappresentino non una conversazione relativa
ad un fatto reato bensì una comunicazione che integra essa stessa condotta
del reato addebitato, la loro acquisizione al processo va inquadrata nelle
norme che regolano l’uso processuale del corpo di reato, dovendosi tali
registrazioni considerare cose sulle quali il reato è stato commesso,
con conseguente inapplicabilità delle limitazioni di cui all’articolo
270 Cpp;
che quindi non sussiste alcun limite alla possibilità di sequestro del
materiale illegittimamente detenuto ex articolo 600quater Cp, qualunque
sia stata la fonte informativa dalla quale si abbia avuto notizia del
possesso (come nel caso in cui il materiale pedopornografico fosse stato
sequestrato a seguito di perquisizione diretta alla ricerca di armi o
di droga), e ciò per il motivo che si tratta comunque di materiale che
costituisce corpo del reato di cui al suddetto articolo 600quater Cp;
che, inoltre, dagli atti del procedimento stralciato, risulta che un soggetto
che utilizzava lo pseudonimo usato dal B. prelevò il 9 marzo 2002 ben
25 documenti di carattere pedopornografico dal F-server installato nel
corso delle indagini a carico di C.G., e tale attività di prelievo integra
la fattispecie di "scambio" di materiale pedopornografico, per cui vi
sono elementi sufficienti a ritenere il fumus del reato di cui all’articolo
600ter Cp;
che il tribunale non ha tenuto conto del secondo comma dell’articolo 240
Cp secondo cui è sempre disposta la confisca delle cose la cui detenzione
costituisce reato, in relazione al settimo comma dell’articolo 324 Cpp,
secondo cui la revoca del decreto di sequestro non può essere disposta
nei casi indicati dall’articolo 240, secondo comma, Cp;
che sotto questo aspetto la motivazione della ordinanza impugnata è anche
manifestamente illogica perché, pur riconoscendo il fumus del reato di
detenzione di materiale pedopornografico (articolo 600quater Cp) si autorizza
a continuare tale detenzione ed a disperdere la prova del reato stesso.
In data 30 aprile 2003 il difensore dell’indagato ha depositato memoria
difensiva con la quale contrasta le argomentazioni svolte dal Pm ricorrente.
Motivi della decisione
Deve essere logicamente esaminato per primo il quinto motivo del ricorso,
con il quale si sostiene che dagli atti emergerebbero elementi in base
ai quali sarebbe configurabile il fumus del reato di cui all’articolo
600ter Cp, e ciò perché un soggetto utilizzante lo stesso pseudonimo utilizzato
dal B. avrebbe prelevato il 9 marzo 2002 25 documenti di carattere pedopornografico,
con il che si sarebbe realizzata la fattispecie dello "scambio" di tale
materiale e quindi il reato di cui all’articolo 600ter Cp.
Il motivo è chiaramente infondato. A questo proposito (pur essendo in
realtà irrilevanti), sono del tutto esatte le osservazioni contenute nella
memoria difensiva secondo cui tali pretesi documenti non sono stati mai
acquisiti al fascicolo, con impossibilità da parte del tribunale del riesame
e della difesa di poterne controllare il contenuto, e con conseguente
illegittimità di una decisione del tribunale del riesame che si fosse
basata sugli stessi. Ed invero, secondo la giurisprudenza di questa Suprema
Corte, il giudice del riesame, ai fini del decidere e del motivare "potrà
prendere in considerazione solo gli atti effettivamente depositati, con
la conseguenza che, qualora in base ad essi, egli non sia in grado di
verificare la legittimità del provvedimento ablativo, dovrà annullarlo,
esponendosi, in caso contrario, a censura per inesistenza della motivazione,
per l’ovvia ragione che non è concepibile operazione di motivazione su
dati non esaminati" (sezione quinta, 8 febbraio 1999, Zamponi, m. 212.863).
Ma, come accennato, l’osservazione del difensore, seppur esatta, è nella
specie irrilevante. Ed invero, quand’anche il B. avesse effettivamente
prelevato dallo F-server in questione i 25 documenti pedopornografici
di cui parla il Pm e quand’anche la prova di tale prelevamento fosse stata
acquisita legittimamente e fosse quindi utilizzabile, ugualmente non sarebbe
- con tutta evidenza - configurabile nessuno dei reati di cui ai primi
tre commi dell’articolo 600ter Cp ai quali esclusivamente l’articolo 14
legge 269/98, limita l’attività di contrasto ivi prevista. Non ovviamente
quello di cui al primo comma del detto articolo (che prevede l’ipotesi
della realizzazione di esibizioni pornografiche o della produzione di
materiale pornografico mediante lo strumento di minori degli anni diciotto),
non quello di cui al secondo comma (che prevede l’ipotesi di chi fa commercio
del detto materiale), né quello di cui al terzo comma (che prevede l’ipotesi
di chi distribuisce, divulga o pubblicizza il detto materiale pedopornografico
o distribuisce o divulga notizie o informazioni finalizzate all’adescamento
o allo sfruttamento sessuale dei minori degli anni diciotto). Ma nemmeno
sarebbe configurabile il reato di cui al quarto comma del medesimo articolo
600ter Cp (per il quale peraltro non è consentita l’attività di contrasto
di cui al citato articolo 14 legge 269/98), reato che si riferisce al
caso di chi consapevolmente cede ad altri, anche a titolo gratuito, materiale
pedopornografico. Ed infatti, secondo la ipotesi prospettata dal Pm ricorrente
- ma non risultante da nessuno degli atti messi a disposizione del tribunale
del riesame - il B. si sarebbe limitato a prelevare del materiale pedopornografico
dal sito civetta installato nel procedimento contro tale C. G., ma non
avrebbe ceduto ad altri, neppure a titolo gratuito, il suddetto materiale.
In ogni caso, quindi, non essendovi stato nessuno "scambio" (ipotesi questa
peraltro nemmeno contemplata dagli articoli 600ter Cp e 600 quater Cp)
di materiale pedopornografico in quanto il B. si sarebbe limitato esclusivamente
a prelevarlo e non a cederlo a sua volta, neppure in cambio di quello
prelevato, l’unico reato astrattamente ipotizzabile sarebbe quello di
cui all’articolo 600quater Cp, come appunto correttamente ritenuto dal
tribunale del riesame.
I primi tre motivi del ricorso del Pm sono manifestamente infondati.
Va preliminarmente rilevato che tali motivi si fondano, in gran parte,
su un assunto palesemente erroneo, ossia quello di una pretesa assimilabilità
della disciplina relativa alla attività di contrasto prevista e rigorosamente
disciplinata dall’articolo 14 della legge 269/98, con la disciplina relativa
all’utilizzabilità, anche in procedimenti diversi da quello in cui sono
state disposte, delle intercettazioni telefoniche e telematiche. Si tratta
invece di attività investigative del tutto diverse, aventi diverse caratteristiche
e ben diverse potenzialità di incisione su beni costituzionalmente tutelati,
ed assoggettate pertanto a diversi presupposti, di modo che non è possibile
nessuna estensione analogica della disciplina relativa alle intercettazioni
telefoniche alla attività di contrasto di cui al citato articolo 14.
La ragione è di tutta evidenza. Con l’attività di intercettazione di comunicazioni
telefoniche o telematiche la polizia giudiziaria si limita, appunto, ad
intercettare le comunicazioni che avvengono tra soggetti terzi senza svolgere
alcun ruolo attivo e tanto meno un ruolo di provocazione. Con l’attività
di contrasto di cui all’articolo 14 legge 269/98, invece, in vista della
gravità e dell’allarme sociale di alcuni ben specifici e determinati reati,
la polizia giudiziaria è autorizzata, limitatamente ai reati stessi, a
svolgere, in via del tutto eccezionale rispetto alle norme e ai principi
fondamentali del nostro ordinamento processuale in tema di acquisizione
delle prove, un vero e proprio ruolo di agente provocatore. Orbene è evidente
che una tale attività in tanto può ritenersi consentita e non in contrasto
con norme costituzionali in quanto sia appunto strettamente limitata a
casi eccezionali e soggetta ad una rigida disciplina che ne stabilisca
rigorosamente i limiti e le procedure.
Ne consegue, innanzitutto, che qualsiasi applicazione analogica di tale
disciplina eccezionale a casi diversi da quelli tassativamente previsti
dall’articolo 14 citato, deve ritenersi assolutamente vietata ai sensi
dell’articolo 14 delle preleggi.
Del resto è proprio la eccezionalità di questa disciplina e la sua deroga
dai principi fondamentali, anche di valore primario - deroga razionalmente
giustificata dalla particolare gravità ed odiosità dei reati che con essa
si intendono contrastare - che ha indotto il legislatore a dettare dei
limiti ben precisi e rigorosi, al di fuori dei quali l’attività in questione
deve ritenersi non solo irregolare o illegittima, ma addirittura illecita,
con conseguente inutilizzabilità, rilevabile d’ufficio in qualsiasi stato
e grado del processo, ai sensi dell’articolo 191 Cpp, di qualsiasi prova
attraverso la medesima acquisita (cfr. sezione terza, 3 dicembre 2001,
D’Amelio).
In particolare, con l’articolo in questione, il legislatore ha previsto
due diverse ipotesi di attività di contrasto. La prima è quella indicata
dal primo comma del detto articolo 14, per la cui legittimità occorre
la presenza del seguenti presupposti:
a) che l’attività investigativa
sia svolta nell’ambito di operazioni disposte dal questore o dal responsabile
di polizia di livello almeno provinciale; b) che l’attività sia svolta
da ufficiali di polizia giudiziaria (e non quindi da semplici agenti);
c) che i detti ufficiali di polizia giudiziaria appartengano alle strutture
specializzate ivi indicate; d) che vi sia l’autorizzazione dell’autorità
giudiziaria per poter procedere all’acquisto simulato di materiale pornografico,
alle relative attività di intermediazione e alla partecipazione ad iniziative
turistiche; e) che la detta attività sia diretta al solo fine di acquisire
elementi di prova in ordine ai delitti di cui agli articoli 600bis, primo
comma, 600ter, commi primo, secondo e terzo, e 600quinquies Cp. La seconda
ipotesi è quella prevista dal secondo comma del detto articolo 14, e per
la sua legittimità occorre la presenza dei seguenti presupposti:
a) che
le indagini siano svolte nell’ambito di compiti di polizia delle telecomunicazioni,
definiti con apposito decreto ministeriale, dall’apposito organo del ministero
dell’interno per la sicurezza e la regolarità dei servizi di telecomunicazione;
b) che l’attività sia svolta su richiesta della autorità giudiziaria,
motivata a pena di nullità; c) che l’attività sia finalizzata esclusivamente
a contrastare i delitti di cui agli articoli 600bis, primo comma, 600ter,
commi primo, secondo e terzo, e 600quinquies Cp commessi mediante l’impiego
di strumenti informatici o mezzi di comunicazione telematica ovvero utilizzando
reti di telecomunicazione disponibili al pubblico, d) che, sempre esclusivamente
a tal fine, il personale addetto può utilizzare indicazioni di copertura,
anche per attivare siti nelle reti, realizzare o gestire aree di comunicazione
o scambio su reti o sistemi telematici, ovvero per partecipare ad esse.
Orbene, va osservato in via preliminare, che, come esattamente rileva
il difensore nella sua memoria, nel caso di specie la stessa legittimità
e regolarità della attività di contrasto (condizione indispensabile per
la utilizzabilità degli elementi di prova attraverso essa acquisiti: cfr.
sezione terzaI, 3 dicembre 2001, D’Amelio, già ricordata) effettuata nel
procedimento ordinario da cui è scaturito, per stralcio, quello a carico
del B., è una mera petizione di principio, in quanto non sono mai stati
trasmessi al tribunale gli atti a sostegno di tale asserzione. Esattamente,
quindi, il difensore rileva che così operando il decreto di sequestro,
da mezzo di ricerca della prova, rispetto alla notitia criminis che dovrebbe
essere già acquisita rispetto al B., si è in realtà trasformato in strumento
di acquisizione della notitia criminis.
Né potrebbe ritenersi, come sembra invece opinare il ricorrente, che la
regolarità e legittimità della procedura di autorizzazione e di espletamento
dell’attività di contrasto rileverebbe soltanto nel procedimento originario
e non in quello stralciato, e ciò in applicazione analogica della disciplina
in materia di intercettazioni telefoniche. Ed infatti, a prescindere da
ogni altra considerazione, si è già osservato come l’attività di contrasto
in esame sia regolata da una disciplina del tutto eccezionale e che in
ordine ad essa non possono trovare applicazione analogica norme e principi
giurisprudenziali valevoli per la diversa fattispecie delle intercettazioni
telefoniche, che riguarda ipotesi del tutto diverse e differenziate dalla
vera e propria attività di agente provocatore che la polizia giudiziaria
è autorizzata a svolgere dall’articolo 14 legge 269/98, nei soli casi
e limiti da esso espressamente previsti.
Nella specie, oltretutto, l’acquisizione e la valutazione dei provvedimenti
idonei a dimostrare la sussistenza dei presupposti giustificativi dell’attività
di contrasto in esame nonché le modalità con le quali l’attività di provocazione
si era concretamente espletata, erano tanto più necessari in quanto la
difesa aveva esplicitamente sostenuto, per mezzo della consulenza tecnica
di parte, che l’inchiesta aveva preso avvio da un programma civetta appositamente
predisposto dalla società Uniplan Software srl di Salerno su richiesta
del Pm, sistema automatico "approntato non tanto per monitorare, quanto
per provocare attivamente e - potenzialmente - confondere gli utenti che
si collegavano ad alcuni sospetti canali mIRC". Il sistema della Uniplan,
secondo la difesa, inoltrava ogni 50 secondi un’offerta pubblicitaria
in inglese e senza alcun riferimento a pedopornografia ed il messaggio
civetta aveva il carattere di "assoluta genericità" essendo "in grado
di allettare e confondere pressoché la totalità degli utenti internet
italiani non interessati a materiale pedopornografico". Rileva altresì
la consulenza tecnica di parte che i 25 file civetta che sarebbero stati
scaricati dal B. avevano "nomi comunissimi, assolutamente generici, tutt’altro
che inequivocabili e - comunque - in nessun modo riconducibili a pedopornografia".
Trattasi ovviamente di osservazioni di merito che non rilevano in questa
sede di legittimità e che, tuttavia, si è ritenuto opportuno riportare
perché essi appaiono portare un sostegno all’impressione, che chiaramente
seppure implicitamente traspare dalla motivazione della ordinanza impugnata,
che si sia trattato nel suo complesso di una operazione investigativa
poco rispettosa delle norme di legge e dei diritti fondamentali del cittadino.
Quel che però importa rilevare è che, qualora fosse corrispondente al
vero l’affermazione che sembra essere stata fatta dalla difesa secondo
cui l’attività di contrasto fu effettuata, sia pure a seguito di specifico
incarico del Pm, ad una società privata, quale la Uniplan Software srl
di Salerno, e non invece da agenti o ufficiali di polizia giudiziaria
appartenenti all’organo del Ministero dell’interno per la sicurezza e
la regolarità dei servizi di telecomunicazione, così come espressamente
richiesto dall’articolo 14, secondo comma, legge 269/98, ne deriverebbe
la illegittimità (anzi: illiceità) di tutta la suddetta attività nel suo
complesso e la totale inutilizzabilità, in ogni stato e grado del giudizio,
di qualsiasi elemento di prova acquisito per mezzo della stessa, non solo
nel procedimento in esame ma anche in quello originario ed anche in relazione
agli specifici reati previsti dal suddetto articolo 14.
Il tribunale del riesame, peraltro, giustamente non ha affrontato questi
problemi in quanto ha rilevato un’altra causa preliminare ed assorbente
di inutilizzabilità degli elementi di prova acquisiti. Tali elementi di
prova, infatti, sono stati acquisiti attraverso una attività di contrasto
espletata ai sensi dell’articolo 14 legge 269/98, il quale però limita
la liceità di una tale attività solo al fine di contrastare i delitti
di cui agli articoli 600bis, primo comma, 600ter, commi primo, secondo
e terzo, e 600quinquies Cp. Ne consegue che, poiché nel caso di specie
l’unico reato ipotizzabile a carico dell’indagato è quello dell’articolo
600quater Cp, la suddetta attività di contrasto - quand’anche fossero
sussistenti tutti gli altri presupposti richiesti dalla legge per la sua
legittimità - non poteva comunque essere utilizzata per scoprire i delitti
in questione. In altre parole l’attività di contrasto non poteva in nessun
modo essere diretta a scoprire comportamenti di quei soggetti che si limitavano
esclusivamente a procurarsi o a detenere materiale pedopornografico così
come non poteva essere assolutamente utilizzata per scoprire i comportamenti
di quei soggetti che si limitavano, anche consapevolmente, a cedere ad
altri, anche a titolo gratuito materiale pedopornografico (articolo 600ter,
comma quarto, Cp), ossia si limitavano ad una singola cessione di immagini
o di filmati pedopornografici, dovendo invece essere diretta esclusivamente
alla scoperta dei comportamenti consistenti nella "distribuzione" o "divulgazione"
o "pubblicizzazione" ad un numero indeterminato di persone del detto materiale
(ovvero a scoprire i comportamenti integranti un altro dei reati espressamente
indicati dalla disposizione in esame). Poiché pertanto gli elementi di
prova a carico dell’indagato per il reato di cui all’articolo 600quater
Cp, sono stati acquisiti mediante un’attività che, avendo oltrepassato
i limiti rigorosamente fissati dal suddetto articolo 14, è da considerarsi
non solo irregolare o illegittima, ma addirittura illecita (in quanto
l’attività dell’agente provocatore, di per se illecita, non trova più
giustificazione e fondamento in una norma di legge) ne consegue che del
tutto esattamente il tribunale del riesame ha ritenuto i suddetti elementi
di prova assolutamente inutilizzabili, ai sensi dell’articolo 191 Cpp,
in ogni stato e grado del procedimento.
Le contrarie osservazioni svolte in proposito dal ricorrente sono del
tutto inconferenti e comunque prive del benché minimo fondamento. Basterebbe
osservare che, come giustamente rileva la difesa dell’indagato, qualora
si desse credito a siffatte argomentazioni si finirebbe per avvalorare
una prassi abnorme, quella cioè di sanare eventuali irregolarità o illiceità
procedimentali da parte della polizia postale (o anche di qualsiasi soggetto
al quale per caso il Pm avesse illegittimamente delegato l’attività) nell’azione
di contrasto al fenomeno della pedopornografia attraverso una semplice
operazione di stralcio a totale discrezione (se non arbitrio) del Pm procedente.
D’altra parte l’argomento del ricorrente - secondo cui il fatto che il
procedimento contro il B. ha tratto origine da un provvedimento di stralcio
emesso in diverso procedimento nel quale fu disposta l’attività di contrasto
di cui all’articolo 14, dovrebbe comportare la conseguenza che nel presente
procedimento non si potrebbe più valutare la legittimità della attività
di contrasto ma solo la utilizzabilità in un processo di atti acquisiti
in un altro processo - è, più che manifestamente illogico, del tutto abnorme
ed assurdo. Ed invero - a parte la circostanza che non è dato sapere se
nell’originario procedimento contro tale C. G. si procedesse per uno dei
reati previsti dall’articolo 14 della legge 269/98, ovvero si procedesse
anche in esso per il reato di cui all’articolo 600quater Cp o all’articolo
600ter, comma quarto, Cp (nel qual caso l’attività di contrasto sarebbe
stata illecita anche nel procedimento originario con conseguente inutilizzabilità
anche in esso degli elementi probatori acquisiti) - sta di fatto che non
può certamente sostenersi che la eventuale legittimità della procedura
seguita nel diverso procedimento riverserebbe automaticamente i suoi "effetti
virtuosi" in quello nuovo e diverso. L’articolo 14 della legge 269/98,
non consente che l’attività di contrasto attraverso l’agente provocatore
sia svolta per accertare elementi di prova in ordine al reato di cui all’articolo
600quater Cp, per cui la totale inutilizzabilità degli elementi di prova
relativi a tale reato eventualmente raccolti in relazione a tale reato
resta ferma in ogni caso a prescindere dalle origini e dalle vicende procedimentali
e non può ovviamente venire meno solo per il fatto - del tutto casuale
e irrilevante - che il procedimento per il reato di cui all’articolo 600quater
Cp prenda origine da uno stralcio effettuato in un diverso procedimento.
D’altra parte l’illogicità dell’assunto del ricorrente risulta anche da
un’altra considerazione: se per ipotesi nel processo originario a carico
del C. si procedesse per il solo reato di cui all’articolo 600quater Cp
e conseguentemente gli elementi di prova illegalmente acquisiti per mezzo
della attività di contrasto di cui all’articolo 14 citato fossero in tale
procedimento inutilizzabili, si determinerebbe l’assurda conseguenza che
i medesimi elementi probatori diverrebbero - del tutto ingiustificatamente
- utilizzabili in un altro procedimento sol perché quest’ultimo ha preso
origini da uno stralcio del procedimento originario.
Quanto alle argomentazioni del ricorrente basate su una presunta equiparazione
della attività di contrasto in questione con quella delle intercettazioni
telefoniche e telematiche e su una pretesa applicazione analogica alla
prima delle norme e dei principi giurisprudenziali relativi a quest’ultima,
si è già ampiamente rilevato come nessuna equiparazione tra le due attività
è possibile (dato che nella prima, a differenza che nella seconda, si
è in presenza di una vera e propria attività di agente provocatore) e
come sarebbe del tutto illegittima ed arbitraria una tale estensione analogica,
se non altro perché trattasi di norme che fanno eccezione a regole generali
e che quindi non possono essere applicate in via analogica al di là dei
casi tassativamente previsti dalla legge.
Parimenti del tutto inconferente e manifestamente infondato è il paragone,
che il ricorrente pretenderebbe di fare, con l’ipotesi in cui il materiale
pedopornografico venisse ritrovato a seguito di perquisizione diretta
alla ricerca di armi o di sostanze stupefacenti. Anche in questo caso
il ricorrente dimentica che nella ipotesi in questione non si tratta di
una normale attività investigativa della polizia giudiziaria diretta all’accertamento
di un qualche reato, nel corso della quale venga per caso scoperta l’esistenza
di un differente reato, bensì siamo di fronte ad una attività di un agente
provocatore, che è autorizzata e resa lecita esclusivamente negli stretti
limiti e per l’accertamento dei limitati reati per i quali è consentita.
Ne consegue che è del tutto ovvio e corrispondente ai principi - ed anzi
una contraria interpretazione sarebbe in contrasto con fondamentali principi
costituzionali e dovrebbe quindi essere comunque disattesa per evitare
possibili censure di illegittimità costituzionale - che qualora attraverso
tale attività di agente provocatore si vengano per caso a scoprire reati
diversi da quelli alla cui scoperta tale attività era esclusivamente indirizzata,
gli elementi probatori relativi a tali reati non possano comunque essere
in nessun caso utilizzati. Nella specie, la detenzione da parte dell’indagato,
di materiale pedopornografico non è stata scoperta nel corso di una normale
perquisizione diretta alla scoperta di armi o di sostanze stupefacenti
(nel qual caso gli elementi probatori rinvenuti sarebbero stati chiaramente
utilizzabili ed il materiale certamente sequestrabile) bensì a seguito
di una attività di agente provocatore che è divenuta illecita (con conseguente
inutilizzabilità degli elementi probatori acquisiti) nel momento in cui
è stata utilizzata per l’accertamento di reati diversi da quelli tassativamente
previsti dalla legge.
Parimenti irrilevante e manifestamente infondato è poi il richiamo all’articolo
240, secondo comma, Cp, ed all’articolo 324 Cpp. Innanzitutto, invero,
tale disposizione presuppone pur sempre che il sequestro degli oggetti
sia stato legittimamente eseguito, mentre nella specie si tratta di un
sequestro palesemente illegittimo perché operato sulla base di un’attività
di agente provocatore avente i caratteri della illiceità e su elementi
probatori totalmente inutilizzabili. In secondo luogo, a tutto voler concedere,
ossia anche a voler ritenere in ipotesi applicabile l’articolo 324, settimo
comma, pure nelle ipotesi di sequestro disposto in base a prove assolutamente
inutilizzabili, perché acquisite per mezzo di una attività illecita e
pure nelle ipotesi in cui, come nella specie - proprio per la totale inutilizzabilità
delle prove - non è configurabile il fumus di alcun reato e presumibilmente
non si potrà mai giungere ad una pronuncia di condanna, il divieto di
restituzione potrebbe tutt’al più riguardare le sole cose la cui detenzione
costituisce reato, ossia i dischetti, CD ROM, o altri supporti magnetici
che concretamente contengono immagini o filmanti pedopornografici ma non
anche tutto il restante materiale illegittimamente sequestrato all’indagato.
Né potrebbe ritenersi che il sequestro possa trovare giustificazione in
base alla considerazione che si tratta di corpo del reato. E ciò, a prescindere
da ogni altra considerazione, perché, come esattamente rilevato dall’ordinanza
impugnata, non essendo assolutamente utilizzabili i risultati delle indagini
illegittimamente svolte, nella specie non è ravvisabile il fumus di alcun
reato e quindi nemmeno la presenza di alcun corpo del reato.
Il ricorso deve pertanto essere respinto.
P.Q.M.
La Corte suprema di cassazione rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma l’8 maggio 2003.
Depositata in cancelleria il 21 ottobre 2003.
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