Le intercettazioni
acquisite dalla polizia giudiziaria e riguardanti colloqui con i c.d.
confidenti non possono essere utilizzate nel processo in mancanza di
autorizzazione del giudice. Il principio è stato enunciato dalla
Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, che ha così risolto
il contrasto giurisprudenziale sorto in materia. La Suprema Corte ha
affermato che la registrazione fonografica, effettuata clandestinamente
da personale della polizia giudiziaria, di colloqui intercorsi tra la
polizia e le persone informate dei fatti, non è utilizzabile
come prova se non preceduta dall’autorizzazione del l’autorità
giudiziaria. (22 ottobre 2003)
Suprema
Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, sentenza n.36747/2003
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.
La Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza 6 dicembre 2001, confermava
il giudizio di colpevolezza espresso dal Tribunale di Lamezia Terme nei
confronti di U. T. e G. C. in ordine ai delitti, commessi fino al luglio
1999 in continuazione tra loro, di detenzione a fine di spaccio e di cessione
a terzi di sostanze stupefacenti di tipo "pesante" (capi A e B, per il
primo; capo F, con l’attenuante ex comma cinque dell’art. 73 d.P.R. 309/90,
per il secondo), ma riduceva la pena inflitta ad entrambi i prevenuti,
previa concessione al solo T. delle circostanze attenuanti generiche,
entro limiti ritenuti di giustizia.
Rilevava, preliminarmente, il giudice di merito l’inutilizzabilità,
per violazione degli artt. 63 e 65 in relazione agli artt. 191 e 350/7°
c.p.p. [1], delle prime dichiarazioni, significative per l’accusa,
rese alla Guardia di Finanza (e da questa registrate) da tale N. - indagato
sentito senza l’assistenza del difensore - e dagli "informatori" G., C.
e I., i quali, pur non essendo, all’epoca, formalmente indagati, versavano
sostanzialmente in tale condizione, che avrebbe dovuto imporre l’osservanza
delle prescritte garanzie anche per l’eventuale esercizio dello ius tacendi;
da ciò derivava, sempre secondo il giudice a quo, pure l’inammissibilità
della testimonianza de relato sul contenuto dei detti atti viziati.
Valorizzava, tuttavia, ulteriori emergenze e in particolare: 1) le registrazioni
di altri colloqui intercorsi tra i finanzieri e i loro informatori (con
esclusione dei casi prima citati) "operate all’insaputa di questi ultimi
e in assenza di specifica autorizzazione dell’autorità giudiziaria",
precisando che la mancata verbalizzazione di tale attività, in
quanto non espressamente sanzionata, non determinava l’inutilizzabilità
dei relativi esiti narrativi; 2) alcune deposizioni testimoniali; 3) le
dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia Di Stefano e D’Elia,
imputati di reato connesso; 4) il contenuto delle sommarie informazioni
rilasciate, in sede di indagini il 13 ottobre 1999 e il 3 maggio 2000,
da I. Domenico, regolarmente verbalizzate dalla p.g. e lette in dibattimento
ex art. 512 c.p.p. Riteneva provate, sulla base di tali acquisizioni,
per il T., le cessioni di droga a F. C., Vincenzo G. e Domenico lonadi
e, per il C., quelle a Michele D. e al predetto I..
2. Avverso tale pronuncia hanno proposto ricorso per cassazione, tramite
i rispettivi difensori, gli imputati.
Il T., in particolare, ha lamentato: 1) manifesta illogicità della
motivazione, nella parte relativa alla cessione di droga al G., essendosi
fatto leva sulle dichiarazioni accusatorie di costui, ritenute, in altra
parte della sentenza, inutilizzabili; 2) violazione di norme processuali
e connesso vizio di motivazione in relazione all’illecita cessione in
favore del C.: illegittima l’utilizzazione della registrazione del colloquio
tra costui e la polizia giudiziaria, perché si era violato il dovere
di verbalizzazione ex art. 357 c.p.p., il che rendeva inammissibile, ex
art. 195/4° c.p.p., anche la testimonianza de relato sul punto, e
perché tale attività, violando il diritto alla segretezza
delle comunicazioni (art. 15 Costituzione), doveva qualificarsi vera e
propria intercettazione ambientale, che avrebbe richiesto il rispetto
della disciplina di cui agli artt. 266 e ss. c.p.p.; 3) violazione della
legge processuale e vizio di motivazione, per essere stata data lettura,
ai sensi dell’art. 512 c.p.p., delle dichiarazioni accusatorie in data
13 ottobre 1999 e 3 maggio 2000 rilasciate, durante la fase delle indagini,
dallo I., che si era sottratto all’esame dibattimentale, rendendosi volontariamente
irreperibile, non essendo risultato provato che fosse stato fatto oggetto
di minacce.
Il C., anche con precisazioni contenute in motivi aggiunti, ha dedotto:
1) violazione della legge processuale, con riferimento agli artt. 526/1-bis
c.p.p. e 111 Costituzione e per le stesse ragioni enunciate dal T., circa
l’utilizzazione delle dichiarazioni procedimentali dello I.; 2) manifesta
illogicità della motivazione nel punto relativo all’illecita cessione
al D., le cui dichiarazioni non avevano trovato alcun altro riscontro,
nonché nella parte in cui aveva comunque utilizzato le dichiarazioni
dello I., pur ritenute, in altro passaggio, non utilizzabili.
3. La sesta sezione, alla quale il ricorso era stato assegnato, rilevato
che la questione giuridica - prospettata con uno dei motivi di ricorso
- concernente l’utilizzazione delle registrazioni dei colloqui intercorsi
tra personale della p.g. e suoi informatori, effettuate all’insaputa di
questi ultimi e in assenza di autorizzazione dell’autorità giudiziaria,
presentasse profili di "delicatezza" e di "opinabilità" e fosse
oggetto di orientamenti difformi nella giurisprudenza di legittimità,
con ordinanza 6 febbraio-7 marzo 2003, rimetteva la soluzione del contrasto
alle Sezioni unite.
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite, fissando
per la trattazione l’odierna udienza pubblica.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso del T. è in parte fondato, va accolto nei limiti
di seguito precisati e, nel resto, va rigettato; quello del C., invece,
è privo di qualunque pregio.
La questione sottoposta all’esame delle Sezioni unite è "se la
registrazione fonografica di colloqui intercorsi tra operatori di polizia
giudiziaria e loro informatori, effettuata ad iniziativa dei primi e all’insaputa
dei secondi, richieda, ai fini dell’utilizzabilità probatoria dei
contenuti, l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria nelle forme
e nei termini previsti per le intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni
tra presenti", essendosi delineati sul tema contrastanti indirizzi interpretativi
nella giurisprudenza di legittimità.
Tali contrasti, per la verità, non si evidenziano in maniera massiccia
e radicale, forse perché le soluzioni di volta in volta fornite
non sempre sono riconducibili ad un medesimo principio, ma risentono piuttosto
del condizionamento rinveniente dalla contingenza del singolo caso concreto.
Sta di fatto che, secondo l’orientamento assolutamente maggioritario,
pur nella variegata gamma di situazioni esaminate, le registrazioni di
conversazioni o di comunicazioni ad opera di uno degli interlocutori (a
nulla rilevando se costui appartenga alla polizia giudiziaria o agisca
d’intesa con questa) non sono riconducibili nel novero delle intercettazioni
e non soggiacciono alla disciplina per queste ultime prevista, considerato
che difetta, in tali casi, l’occulta percezione del contenuto dichiarativo
da parte di soggetti estranei alla cerchia degli interlocutori e che si
realizza soltanto la memorizzazione fonica di notizie liberamente fornite
e lecitamente apprese, con l’effetto che le relative bobine possono essere
legittimamente acquisite al processo come documenti (cfr. Cassazione sezione
prima, 22 aprile 1992, Artuso; sezione sesta, 6 giugno 1993, De Tomasi;
8 aprile 1994, Giannola; 10 aprile 1996, Bordon; sezione prima, 6 maggio
1996, Scali; sezione quarta, 9 luglio 1996, Cannella; sezione sesta 15
maggio 1997, Mariniello; sezione quarta 11 giugno 1998, Cabrini; sezione
quinta 10 novembre 1998, Poli; sezione prima, 2 marzo 1999, Cavinato;
sezione sesta 8 aprile 1999, Sacco; sezione sesta 18 ottobre 2000, Paviglianiti;
sezione prima, 14 aprile 1999, Iacovone; 21 marzo 2001, La Rosa; sezione
terza, 12 luglio 2001, Vanacore; sezione prima, 23 gennaio 2002, Aquino;
sezione seconda, 5 novembre 2002, Madeffino).
A fronte di tale indirizzo, ve n’è altro minoritario che, con riferimento
alla registrazione di colloqui o di comunicazioni da parte della polizia
o di suoi incaricati, ritiene trattarsi di una vera e propria intercettazione,
le cui regole, che impongono strumenti tipici, non possono surrettiziamente
essere aggirate, e ciò perché "l’intervento della polizia
giudiziaria procedimentalizza in modo atipico" la captazione telefonica
o ambientale, "deprivandola del necessario intervento del giudice" (cfr.,
nel vigore del codice del ’30, Cassazione sezione seconda, 5 luglio 1988,
Belfiore; 18 maggio 1989, Calabrò; nel regime del nuovo codice,
sezione quinta, 1 maggio 2000, Caputo; sezione sesta, 20 novembre 2000,
Finini).
Ritiene il Collegio che la scelta ermeneutica della giurisprudenza maggioritaria
sia sostanzialmente corretta, anche se va approfondita nelle sue premesse
concettuali e logico-giuridiche, nei postulati del ragionamento che devono
sorreggerla e negli effetti che da essa, in casi particolari, conseguono
sul piano processuale.
2. Primario punto di riferimento normativo dal quale partire nell’analisi
del problema non può che essere l’art. 15 della Costituzione, che
sancisce l’inviolabilità della libertà e della segretezza
della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, disponendo
che la loro limitazione è eccezionalmente consentita "soltanto
per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite
dalla legge".
Tale norma ha indubbia natura precettiva e mira a proteggere due distinti
interessi: "... quello inerente alla libertà e alla segretezza
delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità
definiti inviolabili dall’art. 2 Costituzione, e quello connesso all’esigenza
di prevenire e reprimere i reati, vale a dire ad un bene anch’esso oggetto
di protezione costituzionale" (cfr. Corte costituzionale sentenza 34/1973).
Affida, poi, il bilanciamento di tali interessi e, quindi, la loro concreta
tutela ad una duplice riserva, di legge e di giurisdizione, demandando
cioè al legislatore ordinario l’individuazione delle "garanzie"
che consentono limitazioni dei valori indicati dal dettato costituzionale
e al provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria la legittimazione
delle predette restrizioni.
"La stretta attinenza della libertà e della segretezza della comunicazione
al nucleo essenziale dei valori della personalità - attinenza che
induce a qualificare il corrispondente diritto come parte necessaria di
quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non
può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità
umana (sentenza Corte costituzionale 366/91) - comporta un particolare
vincolo interpretativo, diretto a conferire a quella libertà, per
quanto possibile, un significato espansivo", nel senso di ricomprendervi
tutto ciò che coessenzialmente vi è legato e che contribuisce
a non vanificare il contenuto del diritto che il citato art. 15 intende
assicurare al patrimonio inviolabile di ogni persona (cfr. sentenza Corte
costituzionale 81/1993; 281/98 in tema di accesso investigativo ai c.d.
tabulati, che evidenziano i "dati esteriori" delle conversazioni telefoniche).
Il presidio costituzionale del diritto alla segretezza delle comunicazioni
non si estende anche ad un autonomo diritto alla riservatezza. Quest’ultima
è tutelata costituzionalmente soltanto in via mediata, quale componente
della libertà personale, vista nel suo aspetto di libertà
morale, della libertà di domicilio, nel suo aspetto di diritto
dell’individuo ad avere una propria sfera privata spazialmente delimitata,
e della libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni forma
di comunicazione. In sostanza, la riservatezza è costituzionalmente
garantita nei limiti in cui la stessa va ad incidere su alcuni diritti
di libertà.
Immaginare che il Costituente abbia voluto imporre il silenzio indiscriminato
su ogni comunicazione interpersonale è cosa contraria alla logica
oltre che alla natura stessa degli uomini e tale realtà non poteva
sfuggire al Costituente. La riservatezza può essere una virtù,
ma non è sicuramente un obbligo assoluto, imposto addirittura da
una norma costituzionale, immediatamente precettiva.
Basti, per altro, considerare che è lo stesso ordinamento ad escludere
una tutela generalizzata del diritto alla riservatezza delle comunicazioni,
posto che sono le leggi ordinarie che assicurano, in casi specifici e
determinati, in armonia con la previsione "mediata" della Carta dei valori,
tale tutela: esemplificativamente, in tema di organizzazione dell’impresa
(art. 2105 c.c.), di segreto d’ufficio (artt. 15 Testo unico 3/1957 e
28 legge 240/90), di lavoro domestico (art. 6 legge 339/58), di segreto
professionale, scientifico e industriale (artt. 622 e 623 c.p.).
La tutela del diritto alla riservatezza, intesa nel senso innanzi precisato,
è in linea con l’interpretazione che ne è stata data dal
Giudice delle leggi (Corte costituzionale 81/1993) e da queste stesse
Sezioni unite (cfr. sentenza 23 febbraio 2000, D’Amuri) in relazione alla
diffusione da parte di terzi dei dati "esteriori" delle comunicazioni
telefoniche che, in via di principio, devono rimanere nell’esclusiva disponibilità
dei soggetti interessati.
La normativa in tema di intercettazioni dà attuazione all’esigenza
costituzionale di cui all’art. 15 della Carta fondamentale, che, pur non
sottovalutando, ma tenendo nel debito conto, l’inderogabile dovere dello
Stato di prevenire e reprimere i reati, prevede l’attuazione di tale dovere
nell’assoluto rispetto di particolari cautele dirette a tutelare l’inviolabilità
della libertà e della segretezza delle comunicazioni, bene questo
intimamente connesso alla protezione del nucleo essenziale della dignità
umana e al pieno sviluppo della personalità nelle formazioni sociali.
Gli art. 266 e ss. c.p.p., infatti, fissano i limiti in cui è ammessa
la ricerca della prova per mezzo dello strumento captativo, che ha notevole
capacità intrusiva, stabiliscono i presupposti e le forme dei provvedimenti
autorizzativi delle intercettazioni, disciplinano lo svolgimento delle
operazioni, i modi di acquisizione e conservazione della relativa documentazione,
l’utilizzabilità dei risultati in altri procedimenti e prevedono,
infine, sanzioni processuali per la violazione delle regole.
è necessario, quindi, individuare i contenuti della nozione di
intercettazione, allo scopo di delimitare l’ambito operativo della normativa
in questione e verificare, poi, se possano essere introdotti nel processo,
con modalità di acquisizione diverse, elementi probatori comunque
inerenti a conversazioni o comunicazioni.
3. Il codice non offre una definizione dell’intercettazione, ma dal complesso
normativo, che ne prevede l’autorizzazione e ne regola i presupposti,
lo svolgimento delle operazioni e l’utilizzabilità dei risultati,
si evince che l’intercettazione "rituale" consiste nell’apprensione occulta,
in tempo reale, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione
in corso tra due o più persone da parte di altri soggetti, estranei
al colloquio. Questa caratterizzazione in senso restrittivo del concetto
d’intercettazione, astrattamente suscettibile di interpretazioni più
estensive, è l’unica in sintonia con la disciplina legale di cui
al capo IV, titolo III, libro III del c.p.p. (cfr., nello stesso senso,
Corte costituzionale sentenza 81/1993; Sezioni unite, 23 febbraio 2000,
D’Amuri).
L’intercettazione di comunicazioni interprivate richiede, quindi, perché
sia qualificata tale, una serie di requisiti: a) i soggetti devono comunicare
tra loro col preciso intento di escludere estranei dal contenuto della
comunicazione e secondo modalità tali da tenere quest’ultima segreta:
una espressione del pensiero che, pur rivolta ad un soggetto determinato,
venga effettuata in modo poco discreto sì da renderla percepibile
a terzi (ad esempio, parlando ad alta voce in pubblico, servendosi di
onde radio liberamente captabili), non integra il concetto di "corrispondenza"
o di "comunicazione", bensì quello di "manifestazione", con l’effetto
che si rimane al di fuori del fenomeno in esame e viene in considerazione
l’art. 21 e non l’art. 15 della Costituzione, d’altra parte, la volontaria
scelta di modalità comunicative che rendano accessibili a terzi
i corrispondenti dati di conoscenza pone la cognizione di questi ultimi
fuori della garanzia assicurata dall’art. 15 Costituzione; b) è
necessario l’uso di strumenti tecnici di percezione (elettro-meccanici
o elettronici) particolarmente invasivi ed insidiosi, idonei a superare
le cautele elementari che dovrebbero garantire la libertà e segretezza
del colloquio e a captarne i contenuti: tanto è desumibile dalla
lettera della norma (art. 268 c.p.p.) che impone di effettuare - di regola
- le operazioni di intercettazione "per mezzo degli impianti installati
nella Procura della Repubblica" ed, eccezionalmente, "mediante impianti
di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria"; non v’è,
pertanto, intercettazione "rituale" se l’operatore non si avvale dei detti
strumenti e se la cognizione non avviene mediante la predisposizione di
un apparato tecnico capace di captare la comunicazione mentre si svolge
(particolare è il caso, riconducibile anche nel concetto d’intercettazione,
pur discostandosene dallo schema tipico, del terzo che provveda a nascondere
- per poi ovviamente recuperarlo - un apparecchio magnetofonico in funzione
nella stanza destinata ad ospitare una conversazione tra altre persone,
con ascolto "in differita" della riproduzione); c) l’assoluta estraneità
al colloquio del soggetto captante che, in modo clandestino, consenta
la violazione della segretezza della conversazione.
3a. Ciò posto, deve escludersi che possa essere ricondotta nel
concetto d’intercettazione la registrazione di un colloquio, svoltosi
a viva voce o per mezzo di uno strumento di trasmissione, ad opera di
una delle persone che vi partecipi attivamente o che sia comunque ammessa
ad assistervi. Difettano, in questa ipotesi, la compromissione del diritto
alla segretezza della comunicazione, il cui contenuto viene legittimamente
appreso soltanto da chi palesemente vi partecipa o vi assiste, e la "terzietà"
del captante. La comunicazione, una volta che si è liberamente
e legittimamente esaurita, senza alcuna intrusione da parte di soggetti
ad essa estranei, entra a fare parte del patrimonio di conoscenza degli
interlocutori e di chi vi ha non occultamente assistito, con l’effetto
che ognuno di essi ne può disporre, a meno che, per la particolare
qualità rivestita o per lo specifico oggetto della conversazione,
non vi siano specifici divieti alla divulgazione (es.: segreto d’ufficio).
Ciascuno di tali soggetti è pienamente libero di adottare cautele
ed accorgimenti, e tale può essere considerata la registrazione,
per acquisire, nella forma più opportuna, documentazione e quindi
prova di ciò che, nel corso di una conversazione, direttamente
pone in essere o che è posto in essere nei suoi confronti; in altre
parole, con la registrazione, il soggetto interessato non fa altro che
memorizzare fonicamente le notizie lecitamente apprese dall’altro o dagli
altri interlocutori.
L’acquisizione al processo della registrazione del colloquio può
legittimamente avvenire attraverso il meccanismo di cui all’art. 234/1°
c.p.p., che qualifica "documento" tutto ciò che rappresenta "fatti,
persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia
o qualsiasi altro mezzo"; il nastro contenente la registrazione non è
altro che la documentazione fonografica del colloquio, la quale può
integrare quella prova che diversamente potrebbe non essere raggiunta
e può rappresentare (si pensi alla vittima di un’estorsione) una
forma di autotutela e garanzia per la propria difesa, con l’effetto che
una simile pratica finisce coi ricevere una legittimazione costituzionale.
Una parte della dottrina ha negato il carattere di prova documentale al
nastro registrato e ha, pertanto, escluso che lo stesso, in quanto rappresentativo
di dichiarazioni e non di "fatti, persone o cose", possa essere introdotto
nel processo.
è agevole replicare che il codice identifica e definisce il documento
"in ragione della sua attitudine a rappresentare" (relazione al prog.
prel. del nuovo codice), senza discriminare tra i differenti mezzi di
rappresentazione e le differenti realtà rappresentate e senza operare
alcuna distinzione tra rappresentazione di fatti e rappresentazione di
dichiarazioni (cfr: Corte costituzionale, sentenza 142/92). La dichiarazione,
per altro, considerata nella sua globalità, integra un "fatto"
e la relativa registrazione documenta non soltanto la circostanza che
un determinato soggetto ha parlato in un certo contesto spazio-temporale,
ma anche che ha pronunciato quelle parole che risultano incise sul nastro,
salva ovviamente ogni valutazione circa la genuinità del documento,
la fedeltà della riproduzione e la veridicità delle dichiarazioni
di scienza così come registrate.
D’altra parte, la legittimità - in tesi - di una tale prova documentale
non può essere posta seriamente in dubbio, ove si consideri che
essa ha per oggetto fatti in ordine al quali nessuno dubita della praticabilità
della testimonianza de relato, espressamente disciplinata dall’art. 195
c.p.p. Alla testimonianza dell’ascoltatore, quindi, si affianca, come
tipico mezzo di prova del fatto "dichiarazione stragiudiziale", la riproduzione
fonografica dell’atto dichiarativo. Se quest’ultima viene offerta al giudice
come prova anziché il resoconto testimoniale, la vox mortua proveniente
dall’incisione fonografica finisce con l’assolvere "l’identica funzione
della vox viva del teste, considerato che riferisce, come riferirebbe
un testimone, le parole di chi ha emesso la dichiarazione".
Sulla generica ammissibilità della cosiddetta "prova magnetofonica",
sia pure intesa come "prova innominata", si concordava in dottrina e giurisprudenza
già nel vigore del codice di rito abrogato, che pure nulla disponeva
al riguardo. Il nuovo codice rende superflua ogni discussione in argomento,
considerato che l’art. 234 non soltanto fuga ogni possibile dubbio circa
l’ammissibilità della prova fonografica, ma offre una definizione
normativa di prova documentale che, nel suo più ampio significato,
ricomprende anche quella in discussione.
è ovvio che non deve trattarsi della riproduzione meccanica di
atti processuali e, pertanto, vanno escluse dal novero di prove documentali
le riproduzioni fonografiche di cui agli art. 134/3°-4°, 139,
141bis, 214/3°, 219/2°, 398/5° bis c.p.p.
La prova documentale in senso stretto è caratterizzata da una genesi
"strutturalmente e funzionalmente autonoma rispetto alla vicenda processuale"
e si forma fuori dell’ambito processuale, nel quale deve essere introdotta
per acquistare rilevanza.
Al nastro magnetico, dunque, non va negata, in linea generale, un’autonoma
efficacia rappresentativa, che prescinde dalla testimonianza dell’autore
della registrazione.
3b. Né può fondatamente sostenersi che la divulgazione del
contenuto del colloquio da parte di chi lo ha registrato sarebbe inibita
dall’art. 15 Costituzione, posto che il diritto alla riservatezza, non
atteggiandosi, in questo caso, come componente essenziale del diritto
alla libertà e segretezza delle comunicazioni, non si pone come
valore costituzionalmente protetto e, ove non risulti neppure assicurato
da specifiche previsioni della legge ordinaria, cede di fronte all’esigenza
di formazione e di conservazione di un mezzo di prova. Il diritto alla
riservatezza - come si è detto - non vive nell’ordinamento sulla
base di una previsione generalizzata, ma è il legislatore che di
volta in volta ne dispone la genesi e la tutela. Il Costituente si è
semplicemente preoccupato di garantire gli interlocutori dalla arbitraria
e fraudolenta intrusione di terzi. Esauritosi il rapporto tra il comunicante
ed il destinatario, residua solo un fenomeno di diffusione della notizia
da parte di chi legittimamente l’ha acquisita, il quale potrà,
salvo che una specifica norma dell’ordinamento gliene faccia divieto,
comunicare a terzi la notizia ricevuta e, più specificamente, nell’ambito
del processo, potrà deporre come testimone su quanto gli è
stato riferito e/o consegnare il nastro registrato.
Il divieto di divulgazione di notizie legittimamente apprese, quale espressione
del diritto di riservatezza del comunicante, non ha carattere assoluto
neppure alla luce della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu),
resa esecutiva in Italia con legge 848/55.
è vero che, nella genericità della formula normativa adottata
dal legislatore pattizio nell’art. 8 della Convenzione, è ricompressa
la salvaguardia dell’interesse alla riservatezza, anche nel suo aspetto
più "evoluto" di interesse al controllo sulla gestione delle informazioni
fornite a terzi, ma non può sottacersi che il 2° comma del
richiamato art. pone l’accento, in particolare, su condotte di "introduzione,
intromissione interferenza" e non anche su condotte divulgative e che
il successivo art. 10, al comma 1°, riconosce il diritto alla libertà
di espressione e quindi alla... "libertà di ricevere o di comunicare
informazioni" di cui si è venuti legittimamente in possesso e,
al secondo comma, prevede che l’esercizio di tale diritto può "essere
subordinato a determinate formalità, condizioni, restrizioni o
sanzioni", anche "per impedire la diffusione di informazioni riservate",
il che significa che la concreta tutela della riservatezza rimane affidata
ad espresse previsioni della legge ordinaria di ogni singolo Stato aderente
alla Convenzione.
4. Ritenuta, pertanto, l’ammissibilità della prova documentale,
integrata dalla registrazione fonografica di una comunicazione tra presenti
(o anche tra persone che si servono di uno strumento di trasmissione)
ad opera di uno degli interlocutori o di persona ammessa ad assistervi,
va affrontato il tema della concreta utilizzabilità, nel processo,
di una simile prova.
4a. Non pone problemi particolari il caso in cui la registrazione sia
effettuata da un privato e il documento fonografico venga, quindi, ad
esistenza al di fuori dell’ambito processuale e di ogni attività
investigativa e assuma una propria autonomia strutturale rispetto a questi.
Non v’è dubbio che, in tale ipotesi, la prova rappresentativa,
formatasi presumibilmente in maniera spontanea e libera, essendo "precostituita",
ben può essere acquisita al processo ed utilizzata dal giudice
ai fini della decisione, perché, data la sua genesi, è insensibile
a qualunque verifica circa il rispetto delle regole in materia di assunzione
della prova, regole di cui il privato non è destinatario e che
non operano oltre i confini processuali o, quanto alle indagini, oltre
quelli procedimentali.
4b. Ben più delicato è il caso in cui il documento fonografico
sia formato per iniziativa di un operatore della polizia giudiziaria,
che occultamente registra il contenuto di una conversazione alla quale
partecipa.
Emerge immediatamente, in questa ipotesi, una problematica che, prescindendo
dalla "teorica" ammissibilità delle registrazioni clandestine a
cura del partecipe al colloquio, si focalizza specificamente sulla particolare
qualità del medesimo partecipe; non assumono cioè rilevanza
il tema della registrazione quale prova documentale e quello connesso
della disciplina costituzionale e processuale sulla riservatezza delle
comunicazioni; l’attenzione, invece, va concentrata sulla legittimità
dell’atto compiuto dalla polizia giudiziaria: assume, in sostanza, importanza
secondaria il fatto che le informazioni siano state stabilmente impresse
su nastro magnetico; il documento fonico, di per sé, per la sola
ragione che è - in tesi - legittimato dall’art. 234 c.p.p., non
rende valida ed utilizzabile un’acquisizione invalida, perché in
violazione di altri divieti stabiliti, nel caso specifico, dalla legge.
La pratica investigativa di ricorrere alla registrazione occulta di colloqui
che la polizia giudiziaria intrattiene con confidenti, persone informate
dei fatti, indagati o indagabili va decisamente scoraggiata, perché,
stenta, innanzi tutto, a conciliarsi con il disposto degli art. 188 e
189 c.p.p., per il naturale sospetto della presenza di insidie di natura
fraudolenta che possono incidere sulla libertà morale della persona
interessata, e perché soprattutto deve rapportarsi, per ricevere
legittimazione, alle altre regole che presidiano determinati mezzi di
prova.
La "deformalizzazione" del contesto nel quale determinate dichiarazioni
vengono percepite dal funzionario di polizia non deve costituire un espediente
per assicurare comunque al processo contributi informativi che non "sarebbe
stato possibile ottenere ricorrendo alle forme ortodosse di sondaggio
delle conoscenze del dichiarante".
Non può legittimarsi, sulla scia di una cultura inquisitoria che,
in quanto estranea al vigente codice, deve essere definitivamente abbandonata,
l’apertura di varchi preoccupanti nella tassatività e nella legalità
del sistema probatorio, proponendosi "veicoli di convincimento... affidati
interamente alle scelte dell’investigatore". Va superata ogni forma di
distonia tra prassi delle indagini, condizionata ancora da atteggiamenti
inquisitori, e concezione codificata della prova, qual è strutturata
nel vigente sistema accusatorio. Va vinta qualunque tentazione di forzare
le regole processuali in nome di astratte esigenze di ricerca della verità
reale, considerato che le dette regole non incorporano soltanto una neutra
disciplina della sequenza procedimentale, ma costituiscono una garanzia
per i diritti delle parti e per la stessa affidabilità della conoscenza
acquisita.
5. In sostanza, il problema delle violazioni eventualmente commesse nell’uso
investigativo del registratore va risolto alla luce dell’art. 191 c.p.p.,
che rappresenta la consacrazione e l’estensione delle affermazioni contenute
nella nota sentenza 34/1973 della Corte costituzionale (tanto che nella
relazione ministeriale alla detta norma si evoca proprio tale importante
pronuncia). Il richiamato art., infatti, ancora, in via generale, la sanzione
dell’inutilizzabilità alla violazione dei divieti stabiliti dalla
"legge", superando così l’antica tesi che si basava su di una sorta
di "autonomia" del diritto processuale penale in relazione ai vizi della
prova, che quindi possono trovare la loro fonte in tutto il corpus normativo
a livello di legge ordinaria o superiore (già queste Sezioni unite
hanno ritenuto l’inutilizzabilità di prove cosiddette incostituzionali:
25 marzo 1998, Manno; 13 luglio 1998, Gallieri; 23 febbraio 2000, D’Amuri).
Di fronte ad una previsione normativa così perentoria e radicale,
è evidente che la palese violazione dello schema legale rende l’atto
investigativo, che si pone al di fuori di tale schema, infruttuoso sul
piano probatorio, per violazione della legge processuale.
Né vanno sottaciute specifiche norme processuali, correlate alla
detta prescrizione generale, che prevedono divieti probatori sanzionati
dall’inutilizzabilità (artt. 62, 63, 141-bis, 195, 203 c.p.p.).
L’atto documentato in forma differente da quella prescritta, sebbene non
possa ritenersi, come pure si è affermato (cfr. Cassazione sezione
prima, 12 ottobre 1994, Savignano), inesistente o nullo in sé (patologia
statica), sintetizza certamente un’attività di indagine illegittimamente
svolta e non può assumere, pertanto, valore di prova (cosiddetta
patologia dinamica).
5a. Ciò posto, la registrazione effettuata dalla p.g. di dichiarazioni,
conversazioni, colloqui non è utilizzabile processualmente tutte
le volte che viola il divieto di testimonianza posto dagli artt. 62 e
195/4° c.p.p., quello della ricezione di dichiarazioni indizianti
rese, senza il rispetto delle garanzie difensive, dalla persona sottoposta
ad indagini o dall’imputato (art. 63 c.p.p.), nonché quello concernente
le dichiarazioni dei cosiddetti "confidenti" della polizia e dei servizi
di sicurezza (art. 203 c.p.p.).
Come si è sopra accennato, la spendibilità processuale delle
registrazioni clandestine si gioca sulla pertinenza del documento fonico
alla rappresentazione di notizie (aventi ad oggetto il contenuto del colloquio)
che ben possono essere introdotte nel processo attraverso la testimonianza
del partecipe implicato nella registrazione.
Il regime di ammissibilità della particolare prova documentale
costituita dalla registrazione ad opera della p.g. non può che
essere conformato proprio alle regole di preclusione della testimonianza
sulle dichiarazioni di terzi.
Il riferimento immediato va al divieto di deposizione de relato per gli
organi di polizia che abbiano acquisito, nell’espletamento della propria
funzione investigativa, atti dichiarativi.
Va, inoltre, sottolineata la diversità di regolamentazione prevista
per la deposizione indiretta di fonte "comune", che non è deputata
ad attività investigative, rispetto a quella "qualificata" proveniente
dalla polizia giudiziaria, e ciò proprio al fine di evitare che
abbiano ingresso nel processo atti investigativi non ammissibili e non
utilizzabili.
L’art. 195/4° c.p.p., nella vigente formulazione, vieta la testimonianza
del funzionario di polizia "sul contenuto delle dichiarazioni acquisite
da testimoni con le modalità di cui agli art. 351 e 357/2°
lettera a) e b)". Il divieto, quindi, ha per oggetto: a) le sommarie informazioni
assunte dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle
indagini, per le quali l’art. 357/2° lettera c) c.p.p. prescrive la
redazione di apposito verbale; b) le informazioni assunte, anch’esse da
verbalizzare, dalle persone imputate in un procedimento connesso o collegato;
c) le sommarie informazioni rese e le spontanee dichiarazioni ricevute
da soggetti indagati, per le quali pure è prescritta la redazione
del verbale (art. 357/2° lettera b), anche se la superfluità
di tale specifica previsione è insita nella preclusione testimoniale
già perentoriamente espressa dall’art. 62 c.p.p. per le dichiarazioni
comunque rese dall’imputato o dall’indagato nel corso del procedimento;
d) il contenuto narrativo delle denunce, querele e istanze presentate
oralmente e soggette a verbalizzazione, atti che comunque, ove contengano
sommarie informazioni testimoniali, sono riconducibili nella previsione
degli art. 351 e 357/2° lettera c) c.p.p.
Si è voluto così circoscrivere il ripristinato divieto della
testimonianza indiretta, in attuazione della nuova formulazione dell’art.
111 Costituzione e a superamento della sentenza 24/1992 della Corte costituzionale
(che lo aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo), soltanto agli
atti tipici di contenuto dichiarativo compiuti dalla p.g., i quali devono
essere documentati mediante la redazione di un apposito verbale.
Il riferimento alle modalità di cui agli art. 351 e 357 contenuto
nell’art. 195/4° c.p.p. non può essere interpretato nel senso
di rendere legittima la testimonianza di secondo grado del funzionario
di polizia in caso di mancata verbalizzazione (pur sussistendone l’obbligo)
dell’atto di acquisizione delle informazioni ricevute. Così interpretata,
la norma finirebbe per tradire il suo scopo fondamentale, che è
quello di evitare l’introduzione nel dibattimento, a fini probatori, di
dichiarazioni acquisite in un contesto procedimentale non correttamente
formalizzato, di salvaguardare il principio di formazione della prova
nel contraddittorio del dibattimento e di sanzionare, quindi, l’obbligo
di documentazione dell’attività investigativa tipica della p.g.,
osservando le particolari modalità prescritte dal codice di rito,
che non consente di surrogare la redazione del verbale (che costituisce
una formalizzazione in funzione documentativa comunque irrinunciabile)
con la registrazione.
L’interpretazione rigorosa e coerente del quarto comma dell’art. 195 c.p.p.,
strutturato in termini di complementarità con le modalità
di documentazione del contenuto delle dichiarazioni acquisite in sede
di indagini e con il meccanismo di lettura dibattimentale dell’atto divenuto
irripetibile, non può che essere nel senso che esso vieti non soltanto
la testimonianza indiretta sulle dichiarazioni regolarmente acquisite
in sede di sommarie informazioni, ma anche quella sulle dichiarazioni
che "si sarebbero dovute acquisire con le modalità di cui all’art.
351 c.p.p.". L’indirizzo giurisprudenziale, secondo cui la mancata verbalizzazione
di determinati atti tipici non sarebbe di ostacolo alla testimonianza
di secondo grado (Cassazione 30 giugno 1999, Santoro; 29 novembre 1999,
Lanzillotta; 4 marzo 1998, Bodilli), non è più in linea
col nuovo sistema, il quale ha voluto evitare elusioni in forma surrettizia
del principio del contraddittorio.
Gli "altri casi" per i quali l’art. 195/4° legittima la testimonianza
de auditu del funzionario di polizia si riducono alle sole ipotesi in
cui dichiarazioni di contenuto narrativo siano state rese da terzi e percepite
dal funzionario "al di fuori di uno specifico contesto procedimentale
di acquisizione delle medesime", in una situazione operativa eccezionale
o di straordinaria urgenza e, quindi, al di fuori di un "dialogo tra teste
e ufficiale o agente di p.g., ciascuno nella propria qualità".
Esemplificativamente, si pensi alle frasi pronunciate dalla persona offesa
o da altri soggetti presenti al fatto, nell’immediatezza dell’episodio
criminoso; alle dichiarazioni percepite nel corso di attività investigative
tipiche - quali perquisizioni, accertamenti su luoghi - o atipiche in
tali casi, è acquisibile ed utilizzabile, come quali appostamenti,
pedinamenti ecc. documento, anche l’eventuale registrazione su nastro
magnetico delle comunicazioni percepite.
Tale interpretazione, che appare l’unica ragionevole e costituzionalmente
corretta, trova indiretto conforto nei recenti interventi della Consulta
(cfr. sentenza 32/2002 e ordinanza 36/2002), che ha rimarcato il senso
del principio del contraddittorio nella formazione della prova, previsto
dall’art. 111 Costituzione: "...da questo principio con il quale il legislatore
ha dato formale riconoscimento al contraddittorio come metodo di conoscenza
dei fatti oggetto di giudizio, deriva quale corollario il divieto di attribuire
valore di prova alle dichiarazioni raccolte unilateralmente dagli organi
investigativi" (sentenza 32/2002); l’art. 111 Costituzione [ha] espressamente
attribuito risalto costituzionale al principio del contraddittorio, anche
nella prospettiva della impermeabilità del processo, quanto alla
formazione della prova, rispetto al materiale raccolto in assenza della
dialettica tra le parti; ... "alla stregua di tale opzione appare del
tutto coerente la previsione di istituti che mirino a preservare la fase
del dibattimento... da contaminazioni probatorie fondate su atti unilateralmente
raccolti nel corso delle indagini preliminari" (ordinanza 36/2002).
L’esposta disciplina sul divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali
ed agenti della p.g. non appare irragionevole e discriminatoria neppure
nel raffronto con quella relativa all’incompatibilità a testimoniare
(art. 197/1° lettera d) c.p.p.) del "difensore che abbia svolto attività
di investigazione difensiva" e di "coloro che hanno formato la documentazione
delle dichiarazioni e delle informazioni assunte ai sensi dell’art. 391-ter"
c.p.p. Tale incompatibilità, anzi, se correttamente interpretata
in armonia con l’art. 111/4° Costituzione, non lascia alcuno spazio
all’aggiramento delle regole di esclusione probatoria (cfr. sentenza 32/2002
Corte costituzionale). Né la possibilità offerta al difensore
e agli investigatori privati, ex art. 391-bis c.p.p., di procedere a colloqui
informali e non documentati determina una disparità di trattamento
tra le parti processuali, atteso che detti colloqui, proprio perché
non documentati e funzionali all’eventuale attività investigativa
della difesa, risultano, di per sé, insuscettibili d’impiego, ai
sensi dell’art. 391-decies c.p.p. La possibile deposizione testimoniale,
salvo ad opporre il segreto professionale ex art. 200 c.p.p., dell’investigatore
privato, non destinatario della previsione d’incompatibilità di
cui all’art. 197/1° lettera d) c.p.p., sui colloqui informali intrattenuti,
pur apparendo una scelta non felice, finisce col ricadere nella disciplina
di cui all’art. 195/1°-2°-3° c.p.p., il che non determina
alcuno squilibrio del sistema, che, in questo specifico caso, non impone
alcuna regola "tipica" per la spendibilità processuale del contenuto
di tali "colloqui" (al di là di ogni considerazione sulla rilevanza
del contenuto degli stessi, se non seguiti da "dichiarazione scritta"
o "informazioni" documentate dei soggetti sentiti).
5b. Conclusivamente, per quello che qui interessa, non possono essere
acquisiti al processo e non possono essere utilizzati, come materiale
probatorio, documenti fonografici rappresentativi di sommarie informazioni
rese alla p.g. (e da questa clandestinamente registrate) da persone a
conoscenza di circostanze utili ai fini delle indagini, perché,
in tale maniera, si renderebbe il processo permeabile da apporti probatori
unilaterali degli organi investigativi e soprattutto si aggirerebbero
le regole sulla formazione della prova testimoniale nel contraddittorio
dibattimentale.
Non diversa deve essere la conclusione per il dictum formalmente extraprocedimentale
dell’indiziato (o di chi deve ritenersi sostanzialmente tale ovvero dell’indagato
o dell’imputato di reato connesso o collegato) che, però, si collochi
in un contesto di ricerca investigativa preordinato alla sua acquisizione
e che sia oggetto di memorizzazione fonica. L’acquisizione del relativo
documento magnetico consentirebbe, in questo caso, un facile aggiramento
del disposto dell’art. 63/2° c.p.p., che proibisce l’utilizzo di qualsiasi
dichiarazione resa dall’indagato alla p.g., in mancanza delle prescritte
garanzie difensive.
Anche le notizie provenienti dagli "informatori" della p.g. e da questa
impresse su nastro magnetico non possono essere veicolate nel processo,
attraverso l’acquisizione e l’utilizzazione del documento fonografico
(o attraverso la sola testimonianza indiretta). Ciò urta contro
il divieto probatorio di cui all’art. 203 c.p.p., a sua volta correlato
alla generale prescrizione dell’art. 191 c.p.p.
Secondo il disposto del citato art. 203/1°, le informazioni fornite
dai confidenti non possono essere acquisite e utilizzate se i predetti
non sono esaminati come testimoni (l’operatività della norma è
stata, in maniera espressa, estesa - mediante l’aggiunta del comma 1-bis
ad opera dell’art. 7 della legge 63/2001 - alle fasi diverse dal dibattimento).
Il legislatore, nell’optare per la drastica sanzione dell’inutilizzabilità,
ha inteso sottolineare che, in tale ipotesi, ci si trova di fronte a materia
indisponibile, in cui gli effetti dell’atto assunto in violazione del
precetto normativo sono determinati dallo stesso legislatore, senza possibilità
per le parti di farvi acquiescenza. La previsione dell’inutilizzabilità,
per altro, è prevista in via generale anche dall’art. 195/1°
c.p.p., laddove è stabilito che "non può essere utilizzata
la testimonianza di chi si rifiuta o non è in grado di indicare
la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell’esame".
Il materiale probatorio proveniente dai confidenti di polizia, infatti,
in quanto di norma assunto nel segmento dell’attività investigativa
più lontano e refrattario al controllo giurisdizionale, è
oggettivamente pericoloso e inaffidabile, tanto più quando venga
acquisito in forma mediata; da qui l’obbligatorietà della diretta
escussione del confidente, se ne vengano indicate le generalità.
Competerà, poi, al giudice, come in ogni altro caso, la valutazione
di attendibilità della notizia confidenziale e della testimonianza
diretta, ove i relativi contenuti divergano.
5c. Le considerazioni sin qui svolte consentono di enunciare i seguenti
principi di diritto:
La registrazione fonografica di una conversazione o di una comunicazione
ad opera di uno degli interlocutori, anche se operatore di polizia giudiziaria,
e all’insaputa dell’altro (o degli altri) non costituisce intercettazione,
difettandone il requisito fondamentale, vale a dire la terzietà
del captante, che dall’esterno s’intromette in ambito privato non violabile.
"La registrazione del colloquio, in quanto rappresentativa di un fatto,
integra la prova documentale disciplinata dall’art. 234/1° c.p.p.".
"Il documento fonografico è pienamente utilizzabile se non viola
specifiche regole di acquisizione della prova".
"Non è utilizzabile come prova la registrazione fonografica effettuata
clandestinamente da personale della polizia giudiziaria e rappresentativa
di colloqui intercorsi tra lo stesso ed i suoi confidenti o persone informate
dei fatti o indagati, perché urta contro i divieti di cui agli
art. 63/2°, 191, 195/4° e 203 c.p.p.".
6. Altro problema dedotto con i motivi di ricorso attiene ai limiti di
operatività dell’art. 512 c.p.p.
Tale norma prevede una forma di irripetibilità sopravvenuta ed
estrinseca di atti assunti in sede di indagini preliminari e, quindi,
la possibilità di "ripescaggio" di tale materiale probatorio, di
cui imprevedibilmente ne sia divenuta impossibile la ripetizione.
Due, quindi, sono le condizioni necessarie per l’operatività della
norma in questione, che costituisce un’eccezione al principio dell’oralità
del processo: a) sopravvenienza di una situazione imprevedibile nel momento
in cui l’atto è stato assunto; b) non reiterabilità dell’atto
per effetto di una situazione non ordinariamente superabile.
La valutazione circa la ricorrenza di tali condizioni è demandata
in via esclusiva al giudice di merito, il quale, in ordine alla prima,
deve formulare una prognosi postuma, sorretta da motivazione adeguata
e conforme alle regole della logica, e, in ordine alla seconda, deve accertare
la natura oggettiva dell’impossibilità di formazione della prova
in contraddittorio, apprezzando tale evenienza liberamente non in termini
di "assolutezza", ma di realistica impossibilità (non di "mera
difficoltà") di dare corso, nel dibattimento, all’assunzione della
medesima prova.
Anche dopo la modifica dell’art. 111 Costituzione con l’introduzione dei
principi del cosiddetto "giusto processo", possono essere lette ed acquisite
al fascicolo del dibattimento, ex art. 512 c.p.p., le dichiarazioni rese
da un teste nella fase delle indagini, qualora lo stesso, per cause imprevedibili
al momento del suo esame, risulti irreperibile, atteso che tale situazione,
la cui verifica non deve essere meramente "burocratica e routinaria" (cfr.
sezione sesta, 19 febbraio 2003, Bianchi; 8 gennaio 2003 Pantini), configura
una delle ipotesi di oggettiva e concreta impossibilità di formazione
della prova in contraddittorio previste dal precetto costituzionale (art.
111/5° Costituzione: "la legge regola i casi in cui la formazione
della prova non ha luogo in contraddittorio... per accertata impossibilità
di natura oggettiva...").
La situazione di accertata "irreperibilità" non può essere
"tout court" equiparata alla volontaria sottrazione all’esame di cui all’art.
526/1-bis c.p.p., che presuppone, comunque, la potenziale attuabilità
dell’audizione.
In sostanza, il sistema, pur muovendosi, in coerenza col dettato costituzionale,
nella prospettiva di privilegiare la forza confutatrice del confronto
tra accusato e accusatore, non trascura di considerare il caso in cui
tale confronto diventi oggettivamente impossibile, onde recuperare, in
linea con la deroga pure prevista dalla Costituzione (art. 111/5°),
il precedente narrativo.
Ne consegue che va affermato l’ulteriore principio di diritto:
"La disposizione di cui all’art. 512 c.p.p., secondo la quale può
darsi lettura degli atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal Pm, dai
difensori e dal giudice nel corso dell’udienza preliminare quando, per
fatti o circostanze imprevedibili, ne è divenuta impossibile la
ripetizione, è applicabile anche in caso di irreperibilità
del dichiarante, considerato che tale situazione, da accertarsi con rigore,
configura una ipotesi di oggettiva impossibilità di formazione
della prova in contraddittorio e non può essere equiparata alla
volontaria scelta di sottrarsi all’esame di cui all’art. 526/1-bis c.p.p.,
che presuppone comunque la potenziale attuabilità, in dibattimento,
dell’audizione".
7. Passando, quindi, ad analizzare i singoli motivi di ricorso, va riassuntivamente
osservato quanto segue.
7a. Non sussiste, innanzi tutto, il dedotto vizio di manifesta illogicità
della motivazione della gravata pronuncia, nella parte in cui - per un
verso - ritiene inutilizzabili le dichiarazioni (registrate) fatte alla
Gdf da G. e da I. e - per altro verso - utilizzerebbe proprio tali dichiarazioni,
quale prova delle cessioni di droga ai predetti.
La doglianza - comune ai due ricorrenti - riposa su un equivoco di fondo.
Non v’è, infatti, coincidenza tra gli atti investigativi ritenuti
inutilizzabili dalla Corte di merito e gli elementi probatori posti a
base della decisione adottata sul punto.
Le dichiarazioni del G. prese in considerazione, invero, sono quelle rese,
con le prescritte garanzie difensive e nel rispetto del contraddittorio,
all’udienza dibattimentale del 24 ottobre 2000 e non già il precedente
narrato confidenziale di cui furono destinatari, tra l’agosto ’98 ed il
maggio ’99, i finanzieri Margiotta e Trovato, anche se a tale precedente
il dichiarante ha fatto riferimento per relationem.
Le dichiarazioni dello I. ritenute rilevanti sono le informazioni, regolarmente
verbalizzate, in data 13 ottobre 1999 e 3 maggio 2000, le quali non coincidono
con quelle precedentemente registrate dell’11 marzo 1999 e del 18 maggio
1999 e ritenute inutilizzabili.
7b. Sussiste la denunciata violazione della legge processuale, con riferimento
all’acquisizione ed utilizzazione della registrazione fonografica che
documenta il colloquio "confidenziale" intercorso, il 29 maggio 1999,
tra F. C. ed il sottufficiale della Gdf Margiotta.
Se il C., come sembra evincersi da alcuni passaggi espositivi delle sentenze
di merito, svolse il ruolo di "confidente" della polizia giudiziaria,
le sue informazioni non possono trovare ingresso nel processo e non possono
essere utilizzate come prova, perché, per quanto sopra esposto,
si viola così il disposto dell’art. 203 c.p.p., che impone l’esame
diretto del confidente-testimone. A tale esame diretto non si fa alcun
cenno nella decisione oggetto di verifica e neppure in quella di primo
grado.
Non può, tuttavia, la Corte ignorare che dal testo di entrambe
le sentenze di merito non emerge, con chiarezza, la sicura identificazione
della situazione con la fattispecie dell’art. 203 c.p.p., anche perché
la persona chiamata a fornire le informazioni sui fatti oggetto del procedimento
non può, a causa delle sole modalità irregolari di assunzione,
qualificarsi come fonte informativa della polizia. Il tratto distintivo
del "confidente" è semmai nella volontà, nel consenso del
soggetto ad offrire notizie, con l’assicurazione, garantita dalla legge
processuale, di restare in incognito: nel rapporto confidente-polizia
non c’è inganno; esso si regge sulla fiducia; la polizia protegge
la fonte informativa e la esclude - per quanto possibile - da ripercussioni
processuali. Tutto questo non si ricava, in modo univoco, dal testo della
sentenza impugnata, sicché non può escludersi che il C.
sia stato sentito dalla Gdf, al di là della qualificazione nominalistica
attribuitagl
Giovedì, 23 Ottobre 2003
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