Sentenza
n. 16130 del 2 maggio 2002
I CONTROLLI A DISTANZA CON SISTEMI DI RILEVAMENTO GPS NON
RICHIEDONO AUTORIZZAZIONE COME LE INTERCETTAZIONI DI COMUNICAZIONI.
(Sezione Quinta Penale - Presidente F. Marrone - Relatore M. Fumo)
LA
CORTE OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO
Il Tribunale del riesame di Torino, con il provvedimento impugnato, ha,
tra l’altro, confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa
dal competente GIP il 31/8/2001 nei confronti di B. L., M. B., C. F. ed
altri, tutti sottoposti ad indagine per i delitti di associazione per
delinquere e furto aggravato.
Ricorre per cassazione il difensore dei tre indagati sopra indicati e
deduce: nullità dell’ordinanza impugnata per violazione di legge, difetto,
contraddittorietà ed illogicità della motivazione.
Nel corso delle indagini, gli spostamenti dei ricorrenti furono monitorati
e ricostruiti attraverso una attività di rilevazione satellitare.
Trattasi di una vera propria attività di intercettazione, la quale deve
essere, dunque, autorizzata dal GIP.
Nel caso in esame, pur risultando emesse autorizzazioni per l’esecuzione
di intercettazioni ambientali, nessuna autorizzazione risulta richiesta
(e dunque concessa) per l’attività di rilevamento degli spostamenti della
vettura in uso agli indagati.
Ne consegue che ha errato il Tribunale del riesame quando ha rigettato
la relativa eccezione difensiva, tempestivamente sollevata innanzi ad
esso.
Da ciò la nullità dell’impugnata ordinanza; violazione di legge e difetto
di motivazione con riferimento alla sussistenza dei gravi indizi.
Invero il giudice cautelare ha svilito circostanze (favorevoli agli indagati)
di estrema importanza, sostenendo che la semplice disponibilità di un
garage o di porticato e di un’autovettura costituiscono la struttura logistica
e la predisposizione dei mezzi, vale a dire quegli elementi dai quali
dedurre la sussistenza di una struttura associativa e quindi del reato
ex art. 416 c.p. [1].
Ne maggior fondamento ha l’affermazione del Tribunale del riesame che
vede altro elemento sintomatico nella pretesa sussistenza di un medesimo
modus operandi e nell’esistenza di legami con alcuni ricettatori.
Parimenti erra il Tribunale quando passa ad esaminare gli elementi relativi
ai singoli reati- fine.
Con riferimento, infatti, alla partecipazione dei sopra indicati indagati
ai singoli furti preparati in danno di varie PP. OO., si sostiene che
l’incompatibilità degli orari in cui i delitti sarebbero stati consumati,
la mancata individuazione da parte del sistema GPS della autovettura nel
luogo nel quale il furto veniva consumato, ovvero ancora la mancata corrispondenza
del numero degli indagati con il numero delle persone notate a bordo dell’auto
sono circostanze irrilevanti.
Arbitrariamente invece è stato ritenuto concludente il fatto che, nel
corso delle conversazioni intercettate in auto, siano stati pronunziati
nomi o soprannomi che potrebbero corrispondere a quelli degli indagati;
violazione di legge e difetto di motivazione per quanto attiene alla sussistenza
delle esigenze cautelari.
Il Tribunale, da un lato, non ha motivato in ordine all’unica esigenza
cautelare ravvisabile (art. 274 lett. C), dall’altro, non ha considerato
che, ai sensi del comma II bis dell’art. 275 c.p.p., non può essere applicata
la misura custodiale quando sussiste la ragionevole previsione di concessione
della sospensione condizionale della pena (beneficio cui possono certamente
accedere B. e C.).
Il ricorso deve essere rigettato ed i tre ricorrenti vanno condannati,
in solido, al pagamento delle spese processuali.
La prima censura è infondata.
Hanno sostenuto i ricorrenti che la mancata previsione nel c.p.p. della
necessità di autorizzazione anche per le cc.dd. intercettazioni GPS deriva
unicamente dal fatto che, al momento della stesura del codice, tale sistema
di controllo satellitare non era ancora stato realizzato.
Si tratta tuttavia sempre di intercettazione e quindi l’autorizzazione
del giudice è necessaria.
L’affermazione che precede non può essere condivisa, atteso che la localizzazione
di una persona (o di un oggetto) in movimento mai può essere considerata
un’attività di intercettazione, anche se realizzata con modalità e tecnologie
similari a quelle con le quali vengono portate ad esecuzione, appunto,
le intercettazioni previste dal codice di rito.
Il capo IV del libro III del predetto codice reca, come è noto, intercettazioni
di comunicazioni e conversazioni.
L’art. 266 contempla l’ipotesi di intercettazione di conversazioni e comunicazioni
telefoniche o di altra forma di telecomunicazione.
L’ultimo comma di tale articolo si riferisce alle intercettazioni tra
presenti.
L’art. 266-bis è relativo all’intercettazione di comunicazioni informatiche
o telematiche.
L’art. 268 prevede la registrazione e la trascrizione delle comunicazioni
intercettate.
è dunque evidente che il concetto di intercettazione, pur mai esplicitamente
definito dal legislatore, è relativo ad un’attività di ascolto (o lettura)
e captazione di comunicazioni tra due o pi˜ persone.
Consiste, in un certo senso, nel sequestro di un bene immateriale: il
contenuto di una comunicazione.
Ad esso rimane estranea l’attività di indagine volta a seguire i movimenti
sul territorio di un soggetto, a localizzarlo e dunque a controllare,
a distanza, non il flusso delle comunicazioni che lo stesso invia o riceve,
ma la sua presenza in un determinato luogo in un certo momento, nonché
l’itinerario seguito, gli incontri avuti etc.
Si tratta insomma di una modalità, tecnologicamente caratterizzata, di
pedinamento.
Come tale, essa rientra nei mezzi di ricerca della prova cc.dd. atipici
o innominati.
D’altronde, mentre l’intrusione nelle altrui comunicazioni comporta compressione
della libertà e segretezza delle stesse, cioè di un valore costituzionalmente
tutelato (art 15 Cost.), e dunque la necessità di autorizzazione motivata
da parte dell’autorità giudiziaria, la localizzazione, sia pure a distanza,
di un soggetto può farsi rientrare nell’ordinaria attività di controllo
ed accertamento demandata alla polizia giudiziaria (cfr. artt. 55, 347,
370 c.p.p.).
Dunque, non solo non necessita l’osservanza delle disposizioni ex artt.
266 e seguenti c.p.p., relative alle intercettazioni di conversazione
e/o comunicazioni, ma, non essendo in pericolo il predetto principio costituzionale,
nemmeno appare necessario il decreto motivato dal PM, viceversa indispensabile,
ad esempio, per l’acquisizione dei tabulati concernenti il traffico telefonico
(cfr. S.U. sent. n. 6 del 23/2/2000, D’Amuri, rv. 215841).
D’altronde, quando il legislatore ha inteso adeguare il codice di rito
ai nuovi ritrovati della tecnica, è intervenuto emanando specifiche norme.
Si pensi all’art. 11 della legge 547/93, che ha introdotto l’art. 266-bis,
il quale precisa che è consentita, ovviamente con le modalità e nei limiti
di cui agli articoli precedenti, l’intercettazione del flusso di comunicazioni
relative a sistemi informatici e telematici, con riferimento ai reati
ex art. 266 c.p.p. (oltre che per quelli commessi mediante impiego di
tecnologie, appunto, informatiche o telematiche).
Nulla esclude dunque che anche il monitoraggio GPS degli spostamenti dell’indagato
possa essere, in futuro, attraverso l’emanazione di idonee norme derogatorie
dei principi generali in tema di indagini preliminari, specificamente
disciplinato.
La seconda censura è inammissibile, in quanto, in parte, manifestamente
infondata, in parte affidata a considerazioni di merito. è certamente
lecito ipotizzare sulla base della disponibilità dei locali (garage, fabbricato),
mezzi di trasporto (autovettura Audi), nonché dalla stabilità degli accordi
con i ricettatori e della costanza delle modalità operative, la sussistenza
di un’associazione criminosa volta alla consumazione di delitti contro
il patrimonio (nel caso di specie, furti in appartamenti).
Si tratta, naturalmente, di elementi sintomatici dell’esistenza e stabilità
del vincolo associativo, elementi che vanno apprezzati e criticamente
vagliati.
Altro non ha fatto il Tribunale del riesame, che ha ricordato come i tre
indagati, insieme con altri non ricorrenti, risultino coinvolti in pi˜
episodi criminosi, portati ad esecuzione con una tecnica identica, avvalendosi
sempre della stessa autovettura, ricoverata in una ben identificata autorimessa.
Ai furti seguivano contatti con ben individuati ricettatori.
Insomma, i giudici cautelari hanno certamente motivato il loro convincimento,
dando conto della ragione per la quale essi hanno ritenuto che, allo stato,
debba essere ipotizzata la sussistenza di una struttura delinquenziale,
che agiva secondo uno sperimentato (e rispettato) protocollo.
Le doglianze relative a quanto sostenuto dai giudici cautelari in ordine
ai singoli furti (reati-fine) si risolvono in censure di fatto a fronte
di un’argomentata interpretazione dei dati indiziari, operata dal Tribunale,
il quale ha spiegato, in maniera non illogica, per quale motivo risulti,
allo stato, plausibile l’ipotesi ricostruttiva offerta dall’Accusa.
Ne, infine, può condividersi il rilievo inerente le esigenze cautelari.
Il Tribunale del riesame fa chiaramente e motivatamente riferimento al
pericolo di reiterazione della condotta criminosa, al pericolo di fuga
(per il solo C.), alla proporzione tra l’entità dei fatti e la sanzione
che potrebbe essere irrogata.
Rimane così superato il rilievo dei ricorrenti, che riposa sul dettato
del comma II bis dell’art. 275 c.p.p.
Se riconosciuti colpevoli dei reati loro ascritti (associazione per delinquere
e furti pluriaggravati), gli indagati potrebbero essere condannati a pena
superiore a quella che consente la concessione del beneficio ex art. 163
c.p.
Tale è la considerazione, chiaramente espressa, dal giudice cautelare,
che ha dato conto del suo convincimento (facendo implicitamente riferimento
ai parametri ex art. 133 c.p.) e che dunque è immeritevole della censura
mossagli.
Deve farsi luogo a comunicazione ex art. 94 disp. att. c.p.p.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento
delle spese processuali, manda alla Cancelleria per le comunicazioni ex
art. 94 disp. att. c.p.p..
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