Sabato 23 Novembre 2024
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Educare a bere o educare a non bere?

Foto dalla rete

 

Nell’ambito delle attività di prevenzione dei problemi alcol correlati, ha un certo seguito l’orientamento che sostiene che sia utile educare a un rapporto responsabile con gli alcolici, piuttosto che puntare alla totale sobrietà. Si sostiene cioè che alcuni stili di consumo esercitino un ruolo di protezione nei confronti dei danni alcolcorrelati e quindi, vista la massiccia presenza degli alcolici e la sostanziale impossibilità di evitarne la convivenza, tanto vale cercare di educare a modalità meno rischiose del bere, anche per evitare di aggiungere delle suggestioni legate alla trasgressione, al gusto del proibito ecc..
Con l’ovvia premessa che nessun tipo di approccio di adatta efficacemente a tutte le persone e a tutte le situazioni, ritengo che nella maggior parte dei casi sia più utile proporre la completa sobrietà.
L’idea di educare al bere si basa su almeno due presupporti sbagliati: che il bere moderatamente non comporti dei pericoli e che la conoscenza riduca i rischi. 
L’alcol è responsabile del dieci per cento di tutti i tumori. La sua costante presenza trasmette un senso di normalità che limita una valutazione oggettiva dei rischi. Nel considerare il rapporto tra alimenti e cancro, il semplice sospetto è quasi sempre sufficiente ad allontanarci da sostanze che hanno un impatto sulla salute enormemente minore. Nel caso degli alcolici, pur trovandoci di fronte a delle certezze tra un consumo moderato e lo sviluppo di alcuni tipi di cancro, la percezione di una loro sostanziale inevitabilità inibisce atteggiamenti più prudenti.
Da un punto di vista scientifico, la difesa, o peggio ancora la promozione dell’uso di una sostanza sicuramente cancerogena è francamente difficile da sostenere. 
Parlando di consumi moderati, potrebbe sembrare che ci si riferisca a situazione che hanno un impatto tutto sommato marginale sulla salute complessiva della popolazione. Al contrario, secondo il paradosso della prevenzione (G. Rose; Strategie della medicina preventiva. Ed. Il Pensiero Scientifico), per comportamenti molto diffusi, come bere alcolici, la maggior parte degli eventi dannosi sono attribuibili alle persone che hanno comportamenti moderati, non a coloro che eccedono. In pratica, i bevitori moderati, pur rischiando meno, contribuiscono maggiormente nel determinare quelle patologie alcol correlate per le quali non esiste un valore di soglia, per l’ovvio motivo che appartengono a un gruppo molto più numeroso. Per questa ragione, dal punto di vista epidemiologico, è importante dissuadere dal bere proprio i bevitori moderati.
Un esempio concreto per chi non conosce il “paradosso della prevenzione”: gli adolescenti sono coloro che rischiano di più quando sono alla guida di un ciclomotore, ma la maggior parte degli incidenti ha come protagonisti gli adulti. (Il 50% di questo tipo di incidenti riguarda persone al di sopra dei trent’anni). Gli adulti alla guida di un ciclomotore sono più prudenti, ma sono molto più numerosi. Dato che il rischio non è zero per nessuno, è meglio che il casco sia obbligatorio per tutti. Consigliare di bere moderatamente perché meno rischioso è come consigliare agli adulti di non mettere il casco perché ci sono altri che rischiano di più, perché non usarlo ha qualche piccolo vantaggio o perché renderebbe più prudenti.
Veniamo ora all’altro aspetto: l’idea che alcuni stili di consumo e una cultura del bere prevengano altre modalità di bere più rischiose.
Nel rapporto con le droghe, la cultura e le informazioni sono utili se finalizzate a starne lontano, se utilizzate per conviverci diventano dei fattori di rischio. Il miglior esempio di questa apparente contraddizione è rappresentato dalle categorie professionali che contano la più alta incidenza di fumatori: medici e giornalisti. (Chi ritiene che il nostro patrimonio culturale ci difenda nel rapporto con le sostanze da abuso dovrebbe spiegare perché negli Stati Uniti i medici fumatori sono solo il 2% contro il 34 dell’Italia). Chi fuma lo fa perché gli piace, gli aspetti razionali, come quelli culturali, offrono delle giustificazioni al mantenere comportamenti piacevoli. Se a una persona che già fuma dessimo una istruzione sul tabacco a livello di laurea in medicina, farebbe più fatica a smettere e rafforzeremmo la sua convivenza con la sigaretta. Se ci rivolgessimo a un giovane che non fuma, avremmo qualche probabilità in più che l’informazione abbia un esito positivo, a patto ovviamente che l’obbiettivo sia quello di tenerlo lontano dalle sigarette, non certo quello di invitarlo a fumare moderatamente. Nei confronti delle sigarette abbiamo tutti chiaro che se invitassimo dei non fumatori a fumare moderatamente o con determinare modalità, per alcuni di questi sarebbe la porta di accesso al fumare molto. Per gli alcolici non può certo essere diverso, visto che una loro caratteristica, già a bassi dosaggi, è di disinibire. Per alcune persone fermarsi a un consumo moderato è letteralmente impossibile. Le attività di prevenzione acquistano significato soprattutto se idonee a tutelare queste persone. Il passaggio o meno dal bere moderato a un bere ancora più problematico è dovuto ad aspetti soggettivi, come il rapporto con il piacere e il disagio, all’apprezzare o meno uno stato alterato della coscienza, alla ricerca attraverso una sostanza esterna della soluzione ad ansia e stress… Tutti aspetti difficilmente modificabili da un semplice intervento educativo. Per queste persone il bere moderato non è in antitesi ad altre modalità di bere, ne è semplicemente la premessa.  
Occorre, oltretutto, tenere presente che gli alcolici sono sovente la sostanza di accesso anche per le altre droghe. I tossicodipendenti astemi sono piuttosto rari, come pure i non fumatori. Non bere e non fumare sono i migliori indicatori di un basso rischio di tossicodipendenza. Sarebbe sufficiente questo dato da solo per rendere plausibile e per giustificare l’educazione dei giovani alla sobrietà. 
Cercare di ridurre i rischi con l’educazione mettendola in rapporto con la cultura è quindi un boomerang.
Il principio della ragione è al servizio del principio del piacere, non il contrario.
La cultura, la conoscenza e i modelli di comportamento rendono soggettivamente meno percepibile il rischio, modulandolo attraverso un falso senso di sicurezza. Questo è anche il motivo per cui nelle culture “bagnate” possono risultare meno problemi alcol correlati. Il grado di evidenza degli aspetti negativi del consumo di alcolici è mediato da fattori economici e culturali, sia nella percezione soggettiva, sia nella loro rilevazione. Alcuni giornali omettono di riportare lo stato di ebbrezza in caso di incidente per non “demonizzare” il bere, a un guidatore non viene fatta la multa per guida in stato di ebbrezza, nonostante la positività all’etilometro, perché è il giorno del suo compleanno… e via dicendo. Secondo una sempre valida definizione, l’alcolista è colui che beve più del proprio medico. La cultura alcolica alza la soglia di tolleranza ai problemi alcol correlati rendendoli meno visibili.
La conoscenza degli alcolici favorisce la convivenza con essi, ma non solo non ne riduce la pericolosità, la accentua. Chi lavora nell’alcologia può verificare che ristoratori, baristi e chi ha frequentato corsi per assaggiatori hanno più problemi alcol correlati della media.  
La filosofia che sostiene l’educazione al bere si colloca a pieno titolo nella politica della riduzione del danno. Dando per scontato che le alcune persone, in ogni caso usano alcolici, tanto vale che lo facciano nel modo meno rischioso possibile. Esiste tuttavia una differenza sostanziale di approccio nei confronti degli alcolici rispetto alle droghe illegali: la tempistica degli interventi. Nessuno proporrebbe un intervento di riduzione del danno a un ragazzino alle prime esperienze con le droghe illegali, senza privilegiare prima proposte di completo affrancamento dalle sostanze.
Anche ritenendo utile educare i giovani al bere, in ogni caso, non è logico presentarlo senza offrire alternative.
Tra l’altro, proporre l’astensione completa dagli alcolici è concettualmente ed emotivamente più semplice, evita di confrontarsi con il “controllo”, aspetto tutt’altro che secondario nel rapporto con le droghe.
L’obiezione più comune a questo approccio è che sembra non prendere in considerazione il concetto del “piacere”. Visto che la funzione del piacere prevale su quella della ragione, qualsiasi tentativo di proporre dei modelli di comportamento che non abbiano una connotazione piacevole è destinato a vanificarsi.
Il principio del piacere vale, ovviamente, per tutti, ma per tutti si esprime attraverso l’uso di sostanze? Se proponiamo un atteggiamento sobrio, ci scontriamo necessariamente con un bisogno che emergerà attraverso resistenze e rifiuti?
Solitamente ci si interroga sulle motivazione del bere, del fumare o dell’uso di altre sostanze. È altrettanto utile tuttavia chiedersi perché molte persone non bevono, non fumano, ecc..
Se consideriamo il piacere un bisogno primario, le persone sobrie come lo soddisfano? Ad esempio, il 75% degli adulti non fuma. Perché? Non certo perché sa che fa male, visto che quelli che più sanno più fumano. Sono tutte persone che non sanno godersi la vita e che reprimono il primario bisogno del piacere? Per qualcuno è anche possibile che sia così, ma alla maggior parte delle persone, ripeto alla maggior parte, semplicemente non piace fumare, o per meglio dire, gli “piace” essere un non fumatore. Esiste un piacere nel bere nel fumare ecc., ma esiste anche un piacere nella sobrietà. Il preferire l’uno o l’altro assomiglia alla differenza tra essere estroversi ed introversi. I primi si rivolgono all’esterno di se stessi gli altri all’interno. Quindi, siamo tutti d’accordo che nel proporre dei modelli di prevenzione sia importante considerare il concetto di piacere, ma è un errore ritenere che proporre la sobrietà significhi non considerare questa dimensione. Proporre la sobrietà non significa togliere qualcosa, ma offrire qualcosa di diverso. I primi timidi tentativi di offerta di feste analcoliche hanno sempre avuto un successo superiore alle aspettative degli stessi organizzatori. 
In un aspetto soggettivo come il piacere, entrano in gioco ovviamente le preferenze personali degli operatori. Anche se a qualcuno non piace sentirselo dire, non ci sono dubbi che il personale atteggiamento verso gli alcolici è la vera discriminante nell’aderire all’una o all’altre “fazione”. La soggettività del concetto di piacere è anche alla base di una sorta di incomunicabilità tra chi propone l’uno o l’altro approccio. Tuttavia, se è vero che sui gusti è difficile disputare, è altrettanto evidente che se non vogliamo limitarci a proporre il nostro personale stile di vita, dobbiamo cercare di capire quando e a chi sia utile proporre la sobrietà e quando e a chi la convivenza con gli alcolici.
A quanti possiamo proporre la sobrietà? E quanti sono invece coloro per i quali il piacere del bere è da tenere in considerazione?
Secondo la relazione del ministro della Salute al Parlamento dello scorso anno, nel nostro Paese il 32% delle persone è astemio, i bevitori regolari, coloro cioè che acquistano alcolici e bevono quotidianamente sono il 26%. La restante parte sono bevitori occasionali, non ricercano cioè direttamente gli alcolici, ma seguono le opportunità che gli si presentano. Per inciso, questo non significa che siano più moderati. Le occasioni per bere non mancano di certo. Esiste un punto vendita o somministrazione di alcolici ogni duecento abitanti, molto più che per pane, zucchero o altro. Tutti conosciamo la vasta gamma di occasioni in cui ci vengono offerti alcolici.
Il 26% di bevitori regolari è un dato simile al 25% degli adulti che fumano, non per caso. Come per il fumo, una parte smette poi per scelta o per necessità. Rimane una sorta di zoccolo duro costituito dal quindici, diciotto per cento della popolazione che, a mio avviso è la percentuale di persone per le quali i comportamenti edonistici sono una sorta di bisogno primario irrinunciabile. Per chi lavora nelle tossicodipendenze non è difficile valutare quando ci si trova di fronte a persone per le quali il piacere si esprime principalmente attraverso l’uso di sostanze. Ad esempio, contrariamente a quanto accade alla maggior parte delle persone che quando sospendono di bere o usare sostanze riducono spontaneamente l’uso di sigarette, questi “compensano” e si gratificano fumando di più.
I dati epidemiologici sembrano indicarci che solo per una parte minoritaria il bere soddisfa una sorta di bisogno ineluttabile. Le spinte culturali a bere sono sostenute da una grande offerta e un’insistente pubblicità, oltre il novanta per cento delle persone è convinto che bere moderatamente faccia bene alla salute. Dovremmo attenderci un consumo ancora più diffuso, la maggior parte invece, avendone l’occasione, fa tranquillamente a meno degli alcolici.
Se partiamo dal presupposto che non bere è meglio che bere, quindi, possiamo proporre la sobrietà alla maggior parte delle persone, senza il timore che ciò contrasti con bisogni insopprimibili. Soprattutto nei confronti dei giovani e dei giovanissimi, la proposta prioritaria in ogni caso deve essere la sobrietà. Prima di tutto perché quella che comporta meno rischi, secondariamente perché dare per scontato che sceglieranno di bere è un errore.
Molti sono spontaneamente refrattari all’uso degli alcolici, altri possono bere o meno a seconda delle opportunità. Le occasioni di bere rappresentano una voce importantissima nel determinare le abitudini di buona parte della popolazione ed è proprio su questo che bisogna intervenire, non certo però sostenendo la cultura alcolica. Affinché possano orientarsi nelle proprie scelte, le persone dovrebbero avere, come minimo, le stesse opportunità di bere come di non bere, invece assistiamo a una sostanziale negazione della libertà di non bere. Se si rifiuta un’offerta di alcolici ne viene chiesto il motivo, occorre cioè giustificarsi. Questo non accade, ad esempio, nei confronti delle sigarette.
Scopo principale della prevenzione primaria non è insegnare a convivere con gli alcolici, ma offrire la possibilità di sottrarsi a questa convivenza.
Per arrivare a questo obbiettivo, il primo e più importante ostacolo da superare è proprio la visione del bere come condizione “normale” e sempre piacevole.
Si possono capire i motivi culturali ed economici che stanno alla base delle pressioni al bere, è meno comprensibile che siano avallati da chi si occupa di prevenzione. La riduzione del consumo di alcolici è la irrinunciabile “madre di tutte le battaglie” nella prevenzione dei problemi alcol correlati. Difficile immaginare che possa essere perseguita utilizzando le stesse argomentazioni o addirittura le stesse iniziative dei produttori.
La proposta prioritaria, nell’ambito delle attività di prevenzione, deve essere la sobrietà. Perché quella con meno rischi e perché è quella che si adatta alla maggior parte della popolazione. Soprattutto quando ci si rivolge ai giovani o giovanissimi. Dare per scontato che per tutti bere sarà un piacere non è solo un errore statistico, ma inserisce in una categoria a rischio persone che non lo sarebbero se potessero sperimentare altre opportunità.
I dati che vedono fumatori e bevitori come una minoranza si scontrano con il comune sentire che identifica il piacere con i consumi edonistici. La cultura prevalente e le spinte al consumo influenzano i nostri bisogni e la loro percezione. Ciò che serve è una modifica di questa cultura, non un adattamento a essa. Il vero salto di qualità alla prevenzione dei problemi alcol correlati è riuscire a immaginare un mondo senza alcolici. Non ricercare aggiustamenti con la speranza di spostare di qualche decimale la percentuale di rischio.
Sono cinquemila anni che l’uomo cerca di convivere con gli alcolici. Se ci fosse un modo per evitare i problemi alcol correlati qualcuno l’avrebbe già trovato. Se invece questo modo non esiste, occorrere fare un bilancio tra l’enorme mole di sofferenza causata dagli alcolici e il piacere che alcune persone provano nel bere.
Un così lungo periodo di sperimentazione ci permette di affermare che la cultura alcolica è il problema, non la soluzione.
I problemi non possono essere risolti rimanendo allo stesso livello che li ha creati.
Gli alcolici hanno causato e causano dieci volte tanto morti di tutte le guerre messe assieme, guerre mondiali e olocausto compresi. Confidare su modelli di bere meno pericolosi è come ricercare armi migliori per fare la guerra. Quando sta per iniziare una guerra chi è favorevole ci racconta che è inevitabile, ma che, con armi e strategie intelligenti, non ci saranno abusi e vittime innocenti. Puntualmente poi questo non accade. Chi è favorevole al consumo di alcolici ci racconta che la convivenza con essi è inevitabile e che con un loro uso intelligente non ci saranno abusi e vittime innocenti. Puntualmente poi questo non accade. La soluzione sta in un diverso livello di consapevolezza. Così come è preferibile usare il nostro impegno per evitare le guerre e non per costruire armi migliori, analogamente è meglio impegnarsi per un’umanità senza alcolici, piuttosto che ricercare il modo migliore di bere.


di Roberto Argenta

DALFAREALDIRE - Periodico di informazione e confronto sulle patologie da dipendenza a cura degli operatori dei SERT piemontesi
Martedì, 12 Ottobre 2010
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