Non si può parlare di resistenza a pubblico ufficiale se l’imputato reagisce in maniera violenta ma non impedisce al soggetto di compiere l’atto previsto dalla norma. Lo ha stabilito la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 23 settembre 2010, n. 34345, attraverso la quale si afferma che per l’esistenza del reato in esame sia necessario che il reo si opponga allo svolgimento dell’atto di ufficio. Nel corso di un pattugliamento notturno, Tizio, su cui pendeva il divieto di tornare nella capitale, viene fermato dalle forze dell’ordine all’interno del comune di Roma; costui, in sede di accertamento delle generalità, aggrediva i militari. Da ciò la conseguente richiesta di condanna per resistenza a pubblico ufficiale. La prevalente giurisprudenza sul tema precisa che la violenza o la minaccia, anche se estrinsecabili con modalità diverse e con qualsiasi mezzo, debbono comunque essere idonee a turbare l’attività del pubblico ufficiale, ponendone in pericolo l’incolumità fisica (Cass. pen., Sez. III, 6 settembre 1990, n. 12268) affermando che ricorre violenza, quando l’energia fisica è diretta contro il pubblico ufficiale per impedirne la sua libertà d’azione e il compimento del proprio atto di ufficio Secondo gli ermellini, “[…] la condotta oggetto dell’imputazione non rivela alcuna volontà di [Tizio] di opporsi allo svolgimento dell’atto d’ufficio, ma rappresenta piuttosto una forma di contestazione della pregressa attività svolta dal pubblico ufficiale, contestazione che non configura il reato di cui all’art. 337 c.p., ma che avrebbe potuto integrare altri reati, come l’ingiuria, la minaccia o le lesioni, reati per i quali però non risulta presentata alcuna querela”. (Altalex, 15 ottobre 2010. Nota di Simone Marani)
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE VI PENALE Sentenza 13 maggio - 23 settembre 2010, n. 34345 Svolgimento del processo - Motivi della decisione Con la decisione in epigrafe la Corte d’appello di Roma, sull’impugnazione dell’imputato, ha confermato la sentenza del 29 gennaio 2004 con cui il Tribunale di quella stessa città aveva condannato L.F. alla pena di sei mesi di reclusione per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali. Dalla sentenza si apprende che nei confronti dell’imputato, fermato per un controllo in ore notturne, risultava essere stato emesso il foglio di via con divieto di ritornare nel Comune di Roma per tre anni; L. contestava la legittimità del controllo, assumendo di essere stato fermato fuori dal raccordo anulare e iniziava un diverbio con gli operanti, che invece sostenevano che l’imputato proveniva dal quartiere dell’****; l’imputato veniva quindi condotto in caserma per l’identificazione e i necessari controlli, dove assumeva un atteggiamento sempre più aggressivo e arrogante; a questo punto si sarebbe verificata l’aggressione fisica del L. il quale rifiutava di aderire all’invito del maresciallo S.M. di allontanarsi dalla caserma e dava in escandescenze, colpendo con calci il maresciallo S.M. e il carabiniere D.D.R., che riportavano lesioni giudicate guaribili, rispettivamente, in 3 e 5 giorni. Contro questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato. Con il primo motivo ha dedotto il vizio di motivazione, evidenziando alcune contraddizioni esistenti tra le testimonianze rese dai Carabinieri, anche nel confronto con le dichiarazioni difensive dell’imputato, in particolare sull’orario di arrivo in caserma e sull’ora in cui L. avrebbe lasciato la caserma stessa. Inoltre, il ricorrente rileva la mancata valutazione della testimonianza resa dal Dott. V., che venne chiamato proprio dall’imputato tramite il 113 e che ha riferito di essersi recato in caserma, di avere misurato la pressione del L., ma di non aver potuto constate se presentasse o meno ecchimosi o lacerazioni sul corpo. Infine, censura la sentenza per non avere esaminato le doglianze dedotte con l’atto di appello. Il ricorso è fondato. Dalla stessa ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza impugnata risulta evidente l’insussistenza del reato di resistenza a pubblico ufficiale, in quanto appare pacifico che la reazione violenta dell’imputato non è stata diretta ad impedire l’atto d’ufficio, cioè l’identificazione e il successivo controllo, in quanto tali atti erano già stati compiuti. In particolare, la condotta oggetto dell’imputazione non rivela alcuna volontà del L. di opporsi allo svolgimento dell’atto d’ufficio, ma rappresenta piuttosto una forma di contestazione della pregressa attività svolta dal pubblico ufficiale, contestazione che non configura il reato di cui all’art. 337 c.p., ma che avrebbe potuto integrare altri reati, come l’ingiuria, la minaccia o le lesioni, reati per i quali però non risulta presentata alcuna querela. Invero, all’imputato erano state contestate le lesioni, ma una volta escluso il reato di resistenza, vengono meno anche le condizioni che consentivano la procedibilità d’ufficio anche per le lesioni, dovendo escludersi la sussistenza del regime delle aggravanti di cui al combinato disposto degli artt. 582, 585, 576 c.p. e art. 61 c.p., n. 2. Ne consegue che la sentenza deve essere annullata con la formula "perchè il fatto non sussiste", per quanto riguarda il delitto di resistenza a pubblico ufficiale, e per mancanza di querela, con riferimento al reato di lesione personale. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al reato di resistenza a pubblico ufficiale perchè il fatto non sussiste e al reato di lesioni personali volontarie, esclusa l’aggravante contestata, perchè l’azione penale non poteva essere esercitata per mancanza di querela. Da altelex.com |
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