Sono immagini forti quelle che il sito americano allvoices pubblica a corredo della notizia (ASAPS) CIUDAD JUAREZ (MESSICO), 3 dicembre 2010 – Mentre la televisione ci propina una valanga di fiction made in Usa, con varianti europee (del tipo Law & Order), mentre notiziari e dirette ci esibiscono in trofeo scenari di guerra in evoluzione, di minacce col turbante o vomitevoli voci narranti dei gialli in casa nostra, il mondo sembra dimenticarsi di ciò che accade a Ciudad Juarez, città dello stato messicano del Chihuahua, nell’estremo nord del paese, al confine con gli Stati Uniti. Qui, nella notte tra martedì e mercoledì, una donna molto speciale è stata ammazzata. Si chiamava Hermila García Quiñones, aveva 38 anni appena e nonostante la sua giovane età era stata recentemente nominata capo della polizia più pericolosa del mondo. Pericolosa non perché cattiva, non perché specializzata a menare le mani o a sparare. Pericolosa perché l’aspettativa di vita dei suoi agenti è brevissima e se non fosse per il continuo turnover, nessuno potrebbe mai aspirare ad uscirne vivo. Hermilla, donna senza paura, comandava la struttura di polizia locale e aveva due priorità: la prima, combattere la corruzione, la seconda, combattere i narcotrafficanti. Il che significa, a Ciudad Juarez, solo una cosa: combattere il narcotraffico fino a quando non ti ammazzano. Le statistiche del Citizen’s Council for Public Security (CCPS) dicono che si tratti della città più pericolosa del mondo, dopo Caracas e New Orleans, per via del fatto che attraverso questa metropoli – un milione e mezzo i suoi abitanti – transita l’80% della cocaina in arrivo dalla Colombia e destinata al mercato americano. Si tratta di un sentiero reso sicuro, per i cartelli, da un esercito di 500 bande di strada, composte da uomini armati fino ai denti. Il 2 settembre del 2009, in una sparatoria avvenuta in un centro di riabilitazione, sono rimasti sul campo 18 cadaveri. Nel 2009 gli omicidi sono stati 2.500, 130 ogni 100mila abitanti. Caracas è ferma a 96, New Orelans non supera i 90. Quelli del 2010 sono già 2.700. Ciudad Juarez, però, è soprattutto il luogo più pericoloso del pianeta per le donne. Si stima che dal 2001 siano state ammazzate circa 5.000 donne: bambine di 10 anni, ragazzine di 14, donne di 40. Tutte minute, capelli lunghi e scuri, tutte morte ammazzate, strangolate o sparite nel nulla. A questo terribile luogo si è ispirato anche il regista Gregory Nava con il film-denuncia, Bordertown (2007), interpretato da Jennifer Lopez e Antonio Banderas che racconta la storia vera di 430 donne (di età compresa tra i 6 e i 25 anni) trovate massacrate nei campi intorno a Ciudad Juarez, e di altre 600 scomparse dal 1993. Morti silenziose, coperte da una cortina di omertà che Hermila García Quiñones ha tentato di rompere, finendo col diventare una minaccia nel breve volgere di poche settimane. Così, nella guerra che molti dicono spaccare in due anche la polizia federale e quella locale, ognuna alle prese con le rispettive frange di corrotti, la donna che ha sfidato mafia e bande è stata soprattutto lasciata sola. L’hanno aspettata, appena uscita di casa, e hanno crivellato la sua auto di colpi. L’allarme è scattato subito ma i primi rinforzi sono arrivati quasi un’ora dopo. Noi non conosciamo quella realtà, né possiamo sapere quanto sia marcio il sistema che la coraggiosa poliziotta aveva scelto di risanare. Quel che è certo, però, è che la guerra che si combatte in quel lembo di deserto americano, oltre i fili spinati che separano stelle e strisce da un tricolore identico al nostro, ricorda tanto l’eterna lotta tra il bene e il male. Una lotta che, a giudicare dall’oblio in cui è confinata, non interessa proprio a nessuno. (ASAPS)
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