Foto da Ansa
(ASAPS), 20 dicembre 2010- Questa è la cronaca di un terremoto che è venuto giù dal cielo, che ha spezzato in due la spina dorsale di una regione che si credeva moderna, delle sue città famose nel mondo per aver ospitato, da sempre, popoli e culture da tutto il pianeta. È la storia di tre uomini della Polizia Stradale, che hanno preso sputi e caffè caldo, offese e ringraziamenti e che solo dopo trenta ore, minuto più o minuto meno, sono rientrati in caserma. Tutto comincia, però, parecchi giorni prima, quando gli allerta meteo dicono a tutti che la neve scenderà a quota mare. La prova che fosse una cosa nota a tutti sta nella scelta che, uno dei protagonisti di questa cronaca, ha fatto la mattina quando si è preparato per andare in ufficio: la calzamaglia. Sì. La prova è quella: potete sequestrarla, se volete, esaminarla e farla passare al setaccio dalla Scientifica. Me la sono messa perché sapevo che la notte l’avrei passata fuori, come spesso accade con queste preannunciate condizioni meteo e se uno come me prende precauzioni di questo genere, è evidente che anche gli altri avrebbero dovuto fare altrettanto. Sì, perché un po’ di polemica bisogna farla: dov’è la modernità di un paese che si vanta di essere tra i primi 8 del mondo, se non ha uno spazzaneve per sgomberare i viali della propria città? Se non ha un cestello per scossare la neve dai pini secolari che, uno dopo l’altro, continuano a spezzarsi? Se non ha operai che spalano e sghiacciano i marciapiedi, che hanno fatto strage di femori, polsi e spalle? Se non ha servizi di trasporto pubblico che possano dirsi tali, visto che centinaia di bus sono rimasti abbandonati per giorni perché privi di catene…
Foto da Agi Alle 10 del mattino di venerdì 17, un venerdì così bianco da diventare uno dei più neri che Toscana e Italia ricordino, il cielo è ancora sereno. Poi un velo di nubi altissime smorza la luce del sole e, minuto dopo minuto, il grigio opprime Firenze e i primi fiocchi di neve iniziano a scendere che la campana non ha ancora suonato il tocco. L’atmosfera cambia di colpo e dalla radio compartimentale cominciano a gracchiare le selettive lontane della provincia di Grosseto, Siena e Arezzo. Eccola. Due ore dopo siamo tutti fuori: alle 15 i primi alberi cominciano a cedere per l’improvviso peso che l’inusuale coltre impone loro, altri schiantano per il ghiaccio perché la temperatura è scesa di brutto. Le rampe d’accesso all’autostrada si dimostrano trappole implacabili, aiutate dall’incosciente condotta di conducenti che di catene o pneumatici invernali non ne hanno mai voluto sapere. C’è anche chi mette le catene davanti nonostante la trazione posteriore: è il caso di un pulmino dei servizi sociali, un Mercedes, che gira su sé stesso come una trottola. L’autostrada è già imbottigliata alle 16, con svincoli sigillati da auto e camion intraversati. La coltre ha raggiunto appena i 20 centimetri ma sono più che sufficienti. L’ordine è quello di andare sull’Autopalio, ma la situazione ci obbliga a fermarci molto prima: sul raccordo del Varlungo centinaia di auto sono ferme: in direzione autostrada, perché verso l’A1 non si passa; verso il centro perché una bisarca si è intraversata. Scarica, senza catene e con pneumatici normali, è come una balena morta in balia della corrente. Nella coda c’è un pullman della Polizia Penitenziaria, con otto detenuti reduci da un processo all’aula bunker. A terra due uomini, armati, garantiscono la sicurezza mentre altri due aiutano me e Andrea a placare gli animi, a spiegare che dovremo aiutarci tutti. Sì, noi rappresentiamo le istituzioni che non ci sono: se saremo bravi, la macchina avrà funzionato, se non riusciremo a svuotare l’oceano coi bicchieri saremo inefficienti e vagabondi. Sbarbiamo i paletti di un varco e apriamo il traffico contromano, facendo uscire chi è diretto a Bagno a Ripoli, alleggerendo la pressione sulla coda. Scortiamo i più anziani all’area di servizio, che resta aperta come un centro di prima accoglienza e anche i detenuti possono rifocillarsi. Sono i Baschi Azzurri che comprano loro panini, bevande e sigarette. Passano le ore e riusciamo a far spostare la bisarca, quel poco che basta al pullman del carcere a compiere una manovra impossibile per ritentare la strada urbana. Al limite porteranno tutti in una qualche caserma. Intanto dal casello di Firenze Sud una campanella elettrica, come quella della scuola, fa uscire tutti dalle auto, mentre le luci dei semafori alle porte d’esazione diventano rosse una dopo l’altra: l’autostrada è formalmente chiusa. Mi sembra che siano le otto di sera, forse le nove. Io raggiungo il piazzale, lasciando il collega a presidiare il varco contromano e vengo subito accerchiato da un centinaio di persone. La mia salvezza è nell’aver azzeccato la frase di esordio: è una vergogna, lo so. Uno dice bravo! ma ora viene il difficile: devo spiegare loro che è tutto a posto, che penserò a tutto io ma che non so come e quando quelle luci diventeranno verdi. Non si è ancora visto uno spargisale, ed è vero. Spiego che prima bisogna spazzare la neve, e quando una signora mi fa notare che non si è visto nemmeno uno spartineve riattacco con è una vergogna, lo so. Faccio invertire la marcia a molti, ottengo la collaborazione dei casellanti. Poi riempio la macchina di casse d’acqua e panini per due pullman di liceali e vado lungo la corsia d’emergenza per un chilometro scarso: trasbordiamo i viveri, tutti pagati dai professori, e rientro a marcia indietro. Nel frattempo arrivano quattro volontari, due della VAB e due di una Misericordia: hanno comprato, coi loro soldi, merendine e bibite: riempiono lo zaino e vanno verso la carreggiata, tutta illuminata come un gigantesco serpentone di natale, immobile, letargico, silenziosissimo. Sono gli unici soccorsi che vedo. Risalgo la coda a piedi, sveglio i dormienti, scambio due chiacchiere, mi faccio offrire un caffè da un pullman di giapponesi, che poi fanno a gara per farsi fotografare insieme a me! Ridono, mi salutano, chinano il capo e uno di loro mi chiede what’s happening? rispondo che se glielo spiego poi dovrò fare harakiri per dimostrare almeno il mio onore. Quando i quaranta turisti scoppiano in una risata capisco che l’inglese è la vera lingua del mondo e che i giapponesi hanno un senso dell’umorismo spiccatissimo. È la prima risata che sento. Quando consegno loro il bicchierino del caffè ormai vuoto, spunta una tavoletta di cioccolata. È buonissima, viene dalla Svizzera. Anche là molta neve, ma zero problemi. E giù risate… Scusi maresciallo, mia moglie si sente poco bene, può aiutarci? La signora è in auto, intirizzita. Sono le dieci di sera e da ore è in viaggio dopo la chemioterapia. Una fitta al cuore: rimetto il berretto e liberiamo la strada. Comprimiamo le auto, le facciamo arretrare e spostare, come se facessimo una partita al tetris, ma alla fine ce la faccio. Portiamo l’auto fino allo svincolo di Ponte a Ema e salutiamo. Gli occhi di quella donna sono come un regalo di Natale ed ecco nuove energie. Montiamo catene, spingiamo le auto, diamo informazioni. Alle undici un uomo a piedi, con una busta in mano, mi dice che suo figlio ha una malattia genetica, che deve prendere assolutamente delle medicine e nutrirsi. Il problema è che si trova al km 314, carreggiata nord, bloccato. Noi ci andiamo e lasciamo il Varlungo a sé stesso: imbocco lo svincolo, vado in sud: non c’è nessuno. Solo qualche auto qua e là, abbandonata, camion parcheggiati e ormai gelati. Il telefono del giovane ha ormai finito le batterie e quando arriviamo in zona apro lo sportello fin quando il genitore mi dice di fermarmi. Non so come abbia fatto a vedere, ma scende dall’auto e chiama Stefano! Quando sentiamo rispondere babbo sono qui, è come quando salvi un naufrago o tiri fuori un alpinista da sotto una valanga. Il babbo resta alla macchina, noi imbarchiamo Stefano, un brillante avvocato e tentiamo di rientrare a Firenze. La carreggiata nord è intasata di gente, si appiccano anche dei fuochi. Una pattuglia di cinofili in transito soccorre un lattante. Un’altra delle nostre racconta di due ragazze rimaste bloccate tra alcuni camion e che se la sono fatta addosso per il pudore di mostrarsi. Foto da Ansa Il casello di Incisa è bloccato e qui un presidio della Croce Rossa e della Misericordia dimostra che se il corpo è malato, il cuore funziona ancora. È una vergogna, lo so, ma apriamo un varco e proviamo con la SS69: l’Alfa 159 è un mostro a quattro ruote motrici. Viaggia che è una bellezza e si arrampica sulla neve fino a quando due camion di traverso ci obbligano a tornare indietro. Una jeep con le ruote dentellate si offre di accompagnarci, nel caso ci sia bisogno e saliamo su da Figline verso Bagno a Ripoli, sulla SP1. È ormai l’una: il primo ostacolo è un furgone piantato nel mezzo ad una salita, senza catene. Lo facciamo scendere piano e per fare 50 metri ci mette un’ora. Lo faccio parcheggiare tra altri mezzi abbandonati o ribaltati nelle scarpate. Lo scenario è quello di uno dei film tipo The day after. Ci aiutiamo tutti, l’uno con l’altro.
Consigliere Nazionale Asaps, Responsabile Comunicazione |
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