Che fosse caro agli ermellini il tema dell’individuazione della norma applicabile alle ipotesi di responsabilità della PA per i danni subiti dall’utente della strada, è cosa nota.
E tuttavia, il flusso ininterrotto di pronunce sul punto potrebbe avere – o, forse, ha già– l’effetto di produrre una grande confusione, anzichè una grande chiarezza, tra gli operatori del diritto che, soli, si trovano a dover spiegare all’ignaro, dolente, attònito, assistito i motivi di opportunità o sconvenienza dell’intrapresa di una causa per ottenere il risarcimento dei danni patiti.
In un contesto giurisprudenziale così fluido ed instabile, la Giustizia che non dà certezze, ci rimette la faccia, ma con le sembianze dell’avvocato di turno. Se, poi, si considera che, come nel caso in esame, per arrivare a capo della questione si deve passare attraverso 21 anni (la citazione è stata notificata il 12 gennaio 1989!!) di processo, durante i quali l’avvocato fa in tempo anche morire (e non è una battuta) e bisogna pure trovarne un altro, beh, lo scenario diviene oltremodo sconfortante.
Vediamo il caso nel dettaglio. Dal punto di vista fattuale, la vicenda è molto lineare: un pedone che cammina sul marciapiede, improvvisamente, inciampa in un tombino sporgente non segnalato e cade, riportando lesioni personali di cui chiede il risarcimento al Comune. La domanda attorea, respinta in primo grado ed accolta in appello, perviene in Cassazione a seguito di ricorso promosso da Comune per insufficiente motivazione sull’eziologia dell’evento lesivo: secondo la Corte d’appello, infatti, l’instabilità del tombino in carenza di segnalazione costituiva evento imprevedibile per il pedone, idoneo a provocarne la caduta e, quindi, a configurarsi quale antecedente necessario e sufficiente alla determinazione della stessa, diversamente la PA ricorrente ritiene che, considerate le circostanze di tempo e di luogo in cui si trovava a transitare, ben avrebbe il pedone, potuto prevedere la presenza di pericoli e, quindi, adottare comportamenti atti ad evitare di incapparvi,come, ad esempio, camminare sul marciapiede situato dal lato opposto. La Corte di Cassazione accoglie la tesi difensiva della Corte territoriale già “percorsa dal pedone” in primo grado sostenendo che l’assenza di segnalazioni atte ad avvertire della presenza di pericoli, ingenera nell’utente della strada il legittimo affidamento in ordine alla stabilità e regolarità della superficie su cui si trova a transitare. Laddove la superficie stradale si riveli, in concreto, priva delle qualità attese, allora ogni pericolo ivi presente costituirebbe insidia perché caratterizzato oggettivamente dalla non visibilità e, soggettivamente dell’imprevedibilità. L’insidia così descritta è antecedente logico ed ontologico necessario e sufficiente a determinare evento caduta che, a sua volta, determina l’insorgenza di danno alla persona. Se, dunque, l’insidia è causa della caduta e la caduta dei danni, allora, per proprietà transitiva, l’insidia è causa dei danni ed il Comune dovrà risarcirli, stante la Sua condotta colposa dovuta a negligenza. In base a quale norma, però? Insegna la Cassazione:”qualora non sia applicabile la disciplina di cui all’art. 2051 c.c., in quanto sia accertata, in concreto, l’impossibilità dell’effettiva custodia del bene, a causa della notevole estensione dello stesso e delle modalità di uso da parte dei terzi, l’ente pubblico risponde dei pregiudizi subiti dall’utente secondo la regola generale dell’art. 2043 c.c., norma che non limita affatto la responsabilità della P.A. alle ipotesi di esistenza di un’insidia o trabocchetto”. Riguardo all’onere della prova, graverà sul danneggiato di dimostrare l’anomalia del bene (che, in uno all’assenza di segnalazioni di pericolo, integra di per sé, comportamento colposo) oltre che i danni subiti, e sulla P.A. di dimostrare la presenza di fatti impeditivi dell’insorgenza della propria responsabilità , ovvero l’impossibilità di rimuovere la situazione di pericolo, pur avendo adottato tutte le misure idonee. In quest’ottica, dunque, l’utente della strada gode di un vantaggio processuale non indifferente in termini istruttori, perché in un colpo solo, cioè tramite la prova dell’anomalia del bene, riuscirà a provare anche la sussistenza degli altri elementi richiesti per l’accertamento di responsabilità da atto illecito, cioè l’elemento soggettivo della colpa ed il nesso di causalità tra condotta colposa ed evento.
Nel variegato panorama giurisprudenziale che la tematica in questione offre, la sentenza in commento sale, dunque, agli onori della cronaca non soltanto per la sua attualità cronologica, ma anche perché ispirata a un principio che, pur permeando di sé tutto l’ordinamento giudico, è poco noto e, soprattutto, poco applicato: il buon senso.
(Altalex, 14 gennaio 2011. Nota di Marta Buffoni)
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVLE Sentenza 13 ottobre - 18 novembre 2010, n. 23277 (Presidente Trifone - Relatore Amendola)
Svolgimento del processo
I fatti di causa possono così ricostruirsi sulla base della sentenza impugnata
A. D., con atto di citazione notificato il 12 gennaio 1989, convenne in giudizio il Comune di omissis chiedendo il ristoro dei danni patiti a seguito di una caduta, determinata dallo stato di dissesto del fondo stradale. B. L’ente, costituitosi in giudizio, contestò la domanda attrice.
Con sentenza del 12 febbraio 2004 il Tribunale di Napoli rigettò la domanda. Su gravame della soccombente, la Corte d’appello l’ha invece ritenuta fondata e, per l’effetto, ha condannato il Comune di omissis al pagamento in favore della D. della somma di euro 55.798,54. Avverso detta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione, illustrato anche da memoria, il Comune di ****, formulando un solo, complesso motivo con pedissequo quesito.
Ha resistito con controricorso la D.. Il giudizio, rinviato a nuovo ruolo all’udienza del 19 febbraio 2006, a seguito del decesso del difensore dell’intimata, è stato trattato e deciso all’udienza odierna. Motivi della decisione 1. Nell’unico mezzo il Comune di **** lamenta insufficienza della motivazione su un punto decisivo della controversia. Oggetto della critica è il convincimento del giudice a quo in ordine alla eziologia dell’evento lesivo. Secondo la Corte territoriale, invero, l’instabilità del tombino sul quale la D. era andata ad inciampare costituiva evento imprevedibile, e quindi insidia per l’ignaro passante, idonea all’affermazione dell’efficienza causale della condotta della P.A. nella determinazione dell’evento. Sostiene invece il deducente che, considerate le caratteristiche di tempo e di luogo in cui si era verificato il sinistro, l’attrice bene avrebbe potuto prevedere un pericolo per la sua incolumità e, conseguentemente, adottare tutte le cautele necessarie ad evitare che esso si materializzasse, transitando sul lato della strada non interessato dai lavori. 2. La doglianza è infondata. È consolidata affermazione di questo giudice di legittimità che, in tema di responsabilità per danni da beni di proprietà della Pubblica amministrazione, qualora non sia applicabile la disciplina di cui all’art. 2051 cod. civ., in quanto sia accertata in concreto l’impossibilità dell’effettiva custodia del bene, a causa della notevole estensione dello stesso e delle modalità di uso da parte di terzi, l’ente pubblico risponde dei pregiudizi subiti dall’utente, secondo la regola generale dell’art. 2043 cod. civ., norma che non limita affatto la responsabilità della P.A. per comportamento colposo alle sole ipotesi di esistenza di un’insidia o di un trabocchetto. Conseguentemente, secondo i principi che governano l’illecito aquiliano, graverà sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene, che va considerata fatto di per sé idoneo - in linea di principio - a configurare il comportamento colposo della P.A., mentre spetterà a questa dimostrare i fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia o l’impossibilità di rimuovere, adottando tutte le misure idonee, la situazione di pericolo (confr. Cass. 6 luglio 2006, n. 15383). Non è superfluo aggiungere che siffatto ordine di idee ha a suo tempo ricevuto il significativo avallo della Corte costituzionale la quale, chiamata a scrutinare la conformità con gli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione degli artt. 2051, 2043 e 1227 cod. civ., ha ritenuto infondato il dubbio proprio in ragione della aderenza ai principi della Carta fondamentale del nostro Stato dell’interpretazione affermatasi nella giurisprudenza di legittimità (confr. Corte cost. n. 156 del 1999). 2.1. Principio altrettanto pacifico è poi che, allorquando si faccia valere la responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione per danni subiti dall’utente a causa delle condizioni di manutenzione di una strada pubblica, la valutazione della sussistenza di un’insidia, caratterizzata oggettivamente dalla non visibilità e soggettivamente dalla non prevedibilità del pericolo, costituisce un giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente e logicamente motivato (confr. Cass. civ., 19 luglio 2005, n. 15224). 3. Venendo al caso di specie, il giudice di merito ha affermato che l’instabilità del tombino costituiva, in mancanza di qualsivoglia segnalazione dei lavori in corso e di recinzione della zona interessata, un pericolo occulto e imprevedibile, segnatamente rimarcando l’incongruità della linea difensiva della convenuta amministrazione - volta a rovesciare sull’infortunata la responsabilità dell’accaduto - alla luce del criterio, di elementare buon senso, che proprio per la mancanza di ogni segnalazione, l’utente poteva camminare indifferentemente sull’uno o sull’altro lato della strada. Ciò significa che il decidente ha valutato, in termini che non possono essere tacciati di implausibilità e di illogicità rispetto al contesto fattuale di riferimento, la sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del presidio generale di cui all’art. 2043 cod. civ. e ha poi dato del suo convincimento una motivazione esaustiva e corretta. Tanto basta perché la relativa valutazione si sottragga al sindacato di questa Corte. Il ricorso deve pertanto essere rigettato. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in complessivi euro 4.200 (di cui euro 200 per spese), oltre IVA e CPA, come per legge.
Da altalex.com |