Gabriella Vitali accanto alla foto del marito ucciso
BERGAMO - Sono passati quasi 34 anni ma il ricordo di quella fredda mattina del 6 febbraio 1977 in cui suo marito, il maresciallo di polizia Luigi D’Andrea, perse la vita insieme al collega appuntato Renato Barborini in un conflitto a fuoco avvenuto al casello autostradale di Dalmine con la banda del bandito Renato Vallanzasca, è intatto, lucidissimo: «Mi telefonarono. Era già successo tutto. In un istante mi crollò il mondo addosso e mi ritrovai vedova, a 28 anni, con due figlie di 6 e 3 anni da crescere». Gabriella Vitali, vedova del maresciallo D’Andrea, parla con la dignità e, al tempo stesso, l’inflessibile fermezza che ha usato tutte le volte in cui le è stato chiesto di pronunciarsi su Vallanzasca, sulle (vere o presunte) richieste di grazia che lo hanno coinvolto, sulla decisione del tribunale, l’8 marzo del 2010, di concedergli, alla fine, la semilibertà: «L’ho detto e lo ripeto – scandisce - E’ un criminale che deve scontare fino in fondo la sua pena. Non ci ha mai chiesto scusa, perché per lui non è dignitoso. Quando ha potuto, ha sempre ostentato arroganza e presunzione. Dopo l’arresto a me scrisse una lettera in cui diceva che non aveva nulla da farsi perdonare. Pensava che avrei dato pubblicità a quel testo, ma io l’ho tirato fuori apposta dopo vent’anni. Ho sempre pensato una sola cosa- aggiunge -: di fronte a certi episodi tragici, a certe vicende che hanno segnato nel profondo i destini di tante persone. lo Stato non può fare sconti, altrimenti trasmette un messaggio sbagliato alle nuove generazioni, oltre che mancare di rispetto ai familiari delle vittime. Noi il nostro “ergastolo” ce lo portiamo sulle spalle dal giorno in cui Vallanzasca ci strappò i nostri cari. Lui sconti i suoi. Non chiediamo né vendette né accanimenti. Ma non possiamo accettare che, con ritmo assurdamente regolare, questo individui torni sotto i riflettori». Compresi quelli, naturalmente, del cinema: perché per Gabriella D’Andrea il film di Michele Placido “Vallanzasca. Gli angeli del male”, di prossima uscita nelle sale, non è che l’ultimo schiaffo indirizzato a chi porta ancora vive e mai rimarginate sulla propria pelle le ferite e il dolore infinito causati dal bandito e dai suoi complici. «Il film? E’ un oltraggio alla nostra sensibilità – dichiara la vedova D’Andrea, che ha ripercorso la sua vicenda familiare nel libro dal titolo “Nessuno dimentichi”, pubblicato nel 2003 –. Se si fosse voluta fare un’operazione di giustizia nei confronti della verità, gli autori si sarebbero rivolti a noi familiari delle vittime, avrebbero letto gli atti giudiziari oppure coinvolto i magistrati che all’epoca furono in prima linea. Invece niente. Tutto è basato sull’autobiografia di questo assassino, condannato, non lo si dimentichi, a 4 ergastoli e 260 anni complessivi di reclusione». La tragedia di Dalmine si consumò, come detto, la mattina del 6 febbraio 1977. Era di domenica e alla centrale operativa della Polizia stradale di Seriate giunse la segnalazione di una Fiat 132 con tre persone a bordo che procedeva a tutta velocità lungo l’A4 in direzione di Brescia. Il maresciallo D’Andrea con il collega Barborini intimarono l’alt alla vettura, a bordo della quale c’era Vallanzasca, in prossimità dello svincolo di uscita da Milano al casello di Dalmine. I banditi subito fecero fuoco contro i due agenti, uccidendoli a bruciapelo.
di Alessandro Borelli da ilgiorno.it
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