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Articoli 03/04/2004

Non importa se un incidente ti cambia la vita

Il tribunale di Roma: "non è riconoscibile il danno esistenziale"

Non importa se un incidente
ti cambia la vita

Il tribunale di Roma: "non è riconoscibile il danno esistenziale"

di Ugo Terracciano*

Un incidente può cambiarti la vita, ma può distruggerla anche a chi ti sta vicino. Sì, è proprio così, un sinistro stradale produce un dolore inconsolabile, ma può comportare una rivoluzione del quotidiano, dello stile di vita, anche per chi non l’ha materialmente subito. Cambiano le abitudini, l’organizzazione della giornata, la concezione dell’esistenza stessa: passano in secondo piano cose un tempo importanti e le priorità si sconvolgono. Un figlio sulla carrozzella, il coniuge non più autosufficiente, la persona cara che scompare, non sono solo dolore e commiserazione: è la vita dei familiari che cambia irreversibilmente. Un incidente, insomma, ti travolge, ti segna per sempre, anche se tu su quella strada non c’eri. Ragionamenti scontati e strappalacrime? Può darsi, ma nondimeno siamo tutti d’accordo. Tutti, meno che – sul piano giuridico, s’intende - il Tribunale di Roma, che sulla questione ha sentenziato (XIII Sezione Sent. 7 marzo 2002) con argomentazioni spinte inevitabilmente oltre ogni considerazione comune sul piano etico o morale. Così è il diritto: dura lex, sed lex. Il fatto è che, il Tribunale capitolino, a sorpresa, contraddicendo una linea del tutto innovativa sposata da tempo dai tanti giudici ed anche dalla Cassazione, ha disconosciuto la categoria del danno "esistenziale" (cioè il diritto a ricevere la somma che ripaga un’esistenza per sempre compromessa). Al bando ogni tentativo di gabellare il danno morale, già ampiamente riconosciuto, con altro titolo di risarcimento, frutto di una estensiva interpretazione delle norme del codice civile. In termini più tecnici, la parola d’ordine è: porre un freno alla proliferazione delle voci di danno. Ecco il senso – in verità non del tutto criticabile - della sentenza di Roma.
Ma per capire partiamo dai fatti. Un sinistro mortale, cambia la sorte di due donne: moglie e figlia della vittima della strada, le quali, in Tribunale, chiedono all’unisono all’automobilista responsabile, ed al suo assicuratore, ogni tipo di riconoscimento economico. Tra le richieste anche quella di ricevere una somma per la propria vita irrimediabilmente cambiata.
L’assicurazione si sente a posto: ha già pagato il danno morale e con questo ha cercato di lenire – nei limiti della previsione di legge – il dolore per l’irreversibile perdita.
Alle due donne, però, questo non basta. L’avvocato, con tanto di sentenza della Corte Costituzionale alla mano (Cort. Cost. 14 luglio 1986, n. 184), aveva spiegato loro che, da quasi vent’anni a questa parte, le corti di giustizia avevano iniziato a prendere in considerazione e a valutare il danno alla vita, alla quotidianità della famiglia, riconoscendone il corrispettivo valore economico in aggiunta alla somma versata a titolo di danno morale. Sul piano tecnico, d’altra parte, mentre il danno morale è riconosciuto ai sensi dalla restrittiva norma dell’art. 2059 cod. civ. il danno "esistenziale" rientra nella più ampia disposizione dell’art. 2043 dello stesso codice: il vantaggio, per il danneggiato, è più che ottimo.
Se le Corti lo hanno già detto, il problema sembra presto risolto. Invece, il Tribunale di Roma, gettando alle ortiche tanto di argomentazioni corposamente sostenute, ha dovuto deludere le aspettative dei familiari della vittima.
Ecco la domanda: è risarcibile il danno esistenziale cioè la "modificazione in peius della personalità del leso"? Per la Corte la cosa non convince proprio per niente. Intanto, evidenzia il Tribunale, non c’è chiarezza nemmeno sulla categoria: alcune decisioni giurisprudenziali (di legittimità e di merito) hanno ritenuto configurabile un tipo di danno, definendolo talora "danno esistenziale", talora in altro modo e la stessa incertezza lessicale la dice lunga sulla fumosità di una simile figura. Comunque, si tratterebbe di un tipo diverso tanto dal danno alla salute, quanto dal danno morale, quanto da quello patrimoniale. Il danno esistenziale è qualcosa di diverso e consisterebbe nella forzosa rinuncia alle proprie abitudini di vita, in conseguenza del fatto illecito del terzo. E perché chi ha causato l’incidente dovrebbe ripagare i parenti per le loro diverse abitudini di vita? Attenzione alla complicata risposta: tutti hanno diritto alla salute, al benessere ed un evento tragico incide inevitabilmente sulla tranquillità della vita. Ergo la perdita o l’inabilità del proprio caro, incide su un diritto costituzionalmente garantito, precisamente dall’art. 32. E’ questa norma che contiene il precetto, l’art. 2043 del codice civile, poi, contiene la sanzione. Chi ti rovina l’esistenza, o te la cambia compromette la tua tranquillità e deve perciò pagare: questo grossomodo il ragionamento sotteso alla maggior parte delle decisioni sul danno esistenziale (Giud. Pace Sora 10 luglio 2000, in Giurispr. Romana, 2001, 341; Trib. Milano 31 maggio 1999 e Trib. Treviso 25 novembre 1998, ambedue in Rivista giuridica circolaz., 2000, 143; Trib. Torino, 8 agosto 1995, in Resp. Civ., 1996, 282). A questo orientamento non consolidato, multiforme negli esiti e "polisenso" nelle motivazioni, il Tribunale di Roma muove diverse obiezioni. Se il danno esistenziale è stato voluto dalla Corte Costituzionale con la storica sentenza n. 184 la stessa Consulta, poi, con la successiva sentenza 372/94, ha chiaramente ritenuto non condivisibile il principio secondo cui la lesione di un diritto costituzionalmente protetto fosse risarcibile di per sé, a prescindere dalle conseguenze che tale lesione abbia cagionato. La qualcosa significa che – secondo la nuova linea interpretativa - il risarcimento presuppone sempre una "perdita di tipo patrimoniale o personale". Indietro tutta dunque, con l’appoggio peraltro anche della Cassazione (Cass. 4991/96) sulla valenza del binomio "diritto al proprio stile di vita/risarcimento del danno".
Altra osservazione: la tesi del "danno esistenziale" sembra trascurare del tutto che il nostro sistema della responsabilità civile si fonda sul criterio della "colpa", con poche (anche se non marginali) eccezioni (ad esempio, quelle di cui agli articoli 2048, 2050, 2052 c.c.).
La nozione di "colpa civile", distinta da quella di colpa penalmente rilevante (Cassazione 1375/96; Pret. Forlì, 19 febbraio 1986), viene tradizionalmente fondata su due elementi: da un lato l’idea di deviazione, di scostamento, di abbandono, di inosservanza di una regola di condotta, sia essa frutto di una norma di legge, regolamentare, contrattuale, deontologica, di comune prudenza (art. 1176 c.c.); dall’altro lato, la nozione di colpa viene tradizionalmente fondata sull’idea della concreta prevedibilità ed evitabilità dell’evento. Ricordiamo, anzi, che proprio nella prevedibilità ed evitabilità, risiede la distinzione tra colpa e caso fortuito: non sarebbe giusto ascrivere ad un soggetto le conseguenze di un fatto che egli non poteva né prevedere né evitare (Corte cost. 372/94). Ovviamente, la prevedibilità dell’evento non va confusa con la prevedibilità delle conseguenze dannose da esso scaturite. Come dire che non si discute sul fatto che chi omette, per esempio, di dare la precedenza sia in grado di prevedere che da questo possa derivarne un incidente, si discute sul fatto che chi ha commesso quella pericolosa infrazione sia in grado di preconizzare addirittura in che modo e misura ne resterà condizionata negativamente la vita dei familiari dell’eventuale guidatore antagonista. Se non c’è prevedibilità non c’è colpa e se non c’è colpa non c’è obbligo di risarcimento. Le attività esistenziali astrattamente compromettibili per effetto dell’altrui illecito, infatti, sono troppo varie e multiformi per potere essere ritenute prevedibili dal danneggiate. Ma il ragionamento del Tribunale va ben oltre. Entrando nel merito di che tipo di vita si cambierà, possiamo spingerci fino a dire che persino la perduta possibilità – ad esempio – di fare schiamazzi, imbrattare i muri, ed insomma di compiere qualsiasi insignificante gesto quotidiano costituisca un danno risarcibile. Ed allora occorrerebbe anche spiegare perché mai debba considerarsi "ingiusta" la perdita della possibilità di compiere un gesto od attività insignificanti, inutili od illecite. Viene scontato replicare che non qualsiasi perdita esistenziale possa costituire un danno risarcibile. Ma in questo caso chi svolgerà l’ingrato ed importantissimo ruolo del selettore? Chi sceglierà il criterio in base al quale discernere le perdite esistenziali meritevoli di tutela risarcitoria da quelle non risarcibili?
L’abile giurista non ha nessun problema a sfornare la risposta: l’attività esistenziale meritevole di tutela è immancabilmente ancorata o a principi costituzionali, o a norme di legge. Ma, in questo modo, viene a perdersi tutta la portata innovativa del danno esistenziale: se infatti, affinché il danno sia risarcibile, è necessario individuare la norma costituzionale o la norma di legge alla quale "ancorare" l’ingiustizia del danno, non c’è bisogno di mettere in campo una nuova figura, in quanto oggi la lesione di un interesse normativamente qualificato costituisce già un danno risarcibile, secondo quanto stabilito da Cassazione (Sezioni un. Sent. 500/99). Qualsiasi lesione – dice la Cassazione - e quindi qualsiasi perdita (patrimoniale, biologica, morale o esistenziale), può dar luogo a un risarcimento, a condizione che l’interesse leso sia protetto da disposizioni specifiche; ovvero sia oggetto di norme che rilevano una esigenza di protezione. Nel primo caso, il risarcimento sarà sempre dovuto, purché sussistano gli altri elementi dell’illecito; nel secondo caso, sarà dovuto se il giudice accerti, nel caso concreto, la prevalenza dell’interesse leso rispetto a quello, eventualmente concorrente, dell’offensore.
Per finire, secondo il Tribunale, andrebbe messo un po’ d’ordine nel confronto tra la figura del danno esistenziale (ammesso che essa si possa configurare autonomamente) e quella del danno morale. Secondo i sostenitori della tesi del danno esistenziale, quest’ultimo costituisce una rinuncia ad una attività positiva, ad un facere, mentre il danno morale costituisce una mera sofferenza soggettiva, interiore, inesprimibile, insomma un pati. Ma come la proviamo questa sofferenza dell’animo una volta sui banchi del tribunale. Nell’impossibilità della prova al danneggiato basterà chiedere e conseguentemente al responsabile non resterà che pagare? Siamo di fronte a una cosa del tipo: "sono veramente triste" e l’altro stacca l’assegno sulla parola. Ma entrando di più del merito della distinzione tra danno morale e danno esistenziale si dice che chi subisce un danno morale "soffre", mentre chi subisce un danno esistenziale "non fa". La sofferenza morale causata dall’illecito, infatti, è sempre una sofferenza causata da una rinuncia: tanto è vero che nessuno potrebbe ragionevolmente sostenere che costituisce un danno la rinuncia ad attività sgradite o spiacevoli. Ma se così è, deve concludersi che il cosiddetto "danno esistenziale" non è che la sofferenza causata da una rinuncia, cioè un pregiudizio d’affezione, e quindi è un danno morale. Andiamo al nostro caso: la sofferenza causata dalla perdita di uno stretto congiunto, indubbiamente può condurre a molteplici rinunce (andare al cinema, andare a passeggio, visitare musei e mostre, eccetera). Ma questo tipo di danno, conseguenza della sofferenza morale, già oggi viene "messo in conto" e valutato al momento della liquidazione del danno morale. Se si ammettesse, accanto a quest’ultimo, la risarcibilità anche del danno esistenziale, delle due l’una: o si compie una duplicazione risarcitoria, liquidando due volte la pecunia doloris per le medesime privazioni; oppure si "scomputa", per così dire, il danno esistenziale da quello morale, ma quest’ultimo corre il rischio di divenire una entità sfuggente e difficilmente valutabile. Riassumendo, la differenza non c’è: il danno esistenziale non è che la sofferenza causata da una rinuncia, cioè un pregiudizio d’affezione, e quindi è un danno morale.
Discorsi difficili, non c’è che dire, ma si sostanziano in un punto molto concreto: i parenti della vittima si accontentino di ciò che le tabelle prevedono per il danno morale. Si rallegrino di quel che troveranno nella confezione: nella "scatola" dell’art. 2059 del codice civile. Niente duplicazioni, dunque, teniamo rigidi i limiti del risarcimento per una vita segnata. Il morale ha un prezzo, lo stile di vita no.


* Funzionario della P. d. S.
Comandante della P.M. di Parma


di Ugo Terracciano

da "Il Centauro" n. 85
Sabato, 03 Aprile 2004
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