Un incidente può cambiarti la vita, ma può distruggerla
anche a chi ti sta vicino. Sì, è proprio così, un
sinistro stradale produce un dolore inconsolabile, ma può comportare
una rivoluzione del quotidiano, dello stile di vita, anche per chi non
l’ha materialmente subito. Cambiano le abitudini, l’organizzazione
della giornata, la concezione dell’esistenza stessa: passano in secondo
piano cose un tempo importanti e le priorità si sconvolgono. Un
figlio sulla carrozzella, il coniuge non più autosufficiente, la
persona cara che scompare, non sono solo dolore e commiserazione: è
la vita dei familiari che cambia irreversibilmente. Un incidente, insomma,
ti travolge, ti segna per sempre, anche se tu su quella strada non c’eri.
Ragionamenti scontati e strappalacrime? Può darsi, ma nondimeno
siamo tutti d’accordo. Tutti, meno che – sul piano giuridico,
s’intende - il Tribunale di Roma, che sulla questione ha sentenziato
(XIII Sezione Sent. 7 marzo 2002) con argomentazioni spinte inevitabilmente
oltre ogni considerazione comune sul piano etico o morale. Così
è il diritto: dura lex, sed lex. Il fatto è che, il Tribunale
capitolino, a sorpresa, contraddicendo una linea del tutto innovativa
sposata da tempo dai tanti giudici ed anche dalla Cassazione, ha disconosciuto
la categoria del danno "esistenziale" (cioè il diritto
a ricevere la somma che ripaga un’esistenza per sempre compromessa).
Al bando ogni tentativo di gabellare il danno morale, già ampiamente
riconosciuto, con altro titolo di risarcimento, frutto di una estensiva
interpretazione delle norme del codice civile. In termini più tecnici,
la parola d’ordine è: porre un freno alla proliferazione delle
voci di danno. Ecco il senso – in verità non del tutto criticabile
- della sentenza di Roma.
Ma per capire partiamo dai fatti. Un sinistro mortale, cambia la sorte
di due donne: moglie e figlia della vittima della strada, le quali, in
Tribunale, chiedono all’unisono all’automobilista responsabile,
ed al suo assicuratore, ogni tipo di riconoscimento economico. Tra le
richieste anche quella di ricevere una somma per la propria vita irrimediabilmente
cambiata.
L’assicurazione si sente a posto: ha già pagato il danno morale
e con questo ha cercato di lenire – nei limiti della previsione di
legge – il dolore per l’irreversibile perdita.
Alle due donne, però, questo non basta. L’avvocato, con tanto
di sentenza della Corte Costituzionale alla mano (Cort. Cost. 14 luglio
1986, n. 184), aveva spiegato loro che, da quasi vent’anni a questa
parte, le corti di giustizia avevano iniziato a prendere in considerazione
e a valutare il danno alla vita, alla quotidianità della famiglia,
riconoscendone il corrispettivo valore economico in aggiunta alla somma
versata a titolo di danno morale. Sul piano tecnico, d’altra parte,
mentre il danno morale è riconosciuto ai sensi dalla restrittiva
norma dell’art. 2059 cod. civ. il danno "esistenziale"
rientra nella più ampia disposizione dell’art. 2043 dello
stesso codice: il vantaggio, per il danneggiato, è più che
ottimo.
Se le Corti lo hanno già detto, il problema sembra presto risolto.
Invece, il Tribunale di Roma, gettando alle ortiche tanto di argomentazioni
corposamente sostenute, ha dovuto deludere le aspettative dei familiari
della vittima.
Ecco la domanda: è risarcibile il danno esistenziale cioè
la "modificazione in peius della personalità del leso"?
Per la Corte la cosa non convince proprio per niente. Intanto, evidenzia
il Tribunale, non c’è chiarezza nemmeno sulla categoria: alcune
decisioni giurisprudenziali (di legittimità e di merito) hanno
ritenuto configurabile un tipo di danno, definendolo talora "danno
esistenziale", talora in altro modo e la stessa incertezza lessicale
la dice lunga sulla fumosità di una simile figura. Comunque, si
tratterebbe di un tipo diverso tanto dal danno alla salute, quanto dal
danno morale, quanto da quello patrimoniale. Il danno esistenziale è
qualcosa di diverso e consisterebbe nella forzosa rinuncia alle proprie
abitudini di vita, in conseguenza del fatto illecito del terzo. E perché
chi ha causato l’incidente dovrebbe ripagare i parenti per le loro
diverse abitudini di vita? Attenzione alla complicata risposta: tutti
hanno diritto alla salute, al benessere ed un evento tragico incide inevitabilmente
sulla tranquillità della vita. Ergo la perdita o l’inabilità
del proprio caro, incide su un diritto costituzionalmente garantito, precisamente
dall’art. 32. E’ questa norma che contiene il precetto, l’art.
2043 del codice civile, poi, contiene la sanzione. Chi ti rovina l’esistenza,
o te la cambia compromette la tua tranquillità e deve perciò
pagare: questo grossomodo il ragionamento sotteso alla maggior parte delle
decisioni sul danno esistenziale (Giud. Pace Sora 10 luglio 2000, in Giurispr.
Romana, 2001, 341; Trib. Milano 31 maggio 1999 e Trib. Treviso 25 novembre
1998, ambedue in Rivista giuridica circolaz., 2000, 143; Trib. Torino,
8 agosto 1995, in Resp. Civ., 1996, 282). A questo orientamento non consolidato,
multiforme negli esiti e "polisenso" nelle motivazioni, il Tribunale
di Roma muove diverse obiezioni. Se il danno esistenziale è stato
voluto dalla Corte Costituzionale con la storica sentenza n. 184 la stessa
Consulta, poi, con la successiva sentenza 372/94, ha chiaramente ritenuto
non condivisibile il principio secondo cui la lesione di un diritto costituzionalmente
protetto fosse risarcibile di per sé, a prescindere dalle conseguenze
che tale lesione abbia cagionato. La qualcosa significa che – secondo
la nuova linea interpretativa - il risarcimento presuppone sempre una
"perdita di tipo patrimoniale o personale". Indietro tutta dunque,
con l’appoggio peraltro anche della Cassazione (Cass. 4991/96) sulla
valenza del binomio "diritto al proprio stile di vita/risarcimento
del danno".
Altra osservazione: la tesi del "danno esistenziale" sembra
trascurare del tutto che il nostro sistema della responsabilità
civile si fonda sul criterio della "colpa", con poche (anche
se non marginali) eccezioni (ad esempio, quelle di cui agli articoli 2048,
2050, 2052 c.c.).
La nozione di "colpa civile", distinta da quella di colpa penalmente
rilevante (Cassazione 1375/96; Pret. Forlì, 19 febbraio 1986),
viene tradizionalmente fondata su due elementi: da un lato l’idea
di deviazione, di scostamento, di abbandono, di inosservanza di una regola
di condotta, sia essa frutto di una norma di legge, regolamentare, contrattuale,
deontologica, di comune prudenza (art. 1176 c.c.); dall’altro lato,
la nozione di colpa viene tradizionalmente fondata sull’idea della
concreta prevedibilità ed evitabilità dell’evento.
Ricordiamo, anzi, che proprio nella prevedibilità ed evitabilità,
risiede la distinzione tra colpa e caso fortuito: non sarebbe giusto ascrivere
ad un soggetto le conseguenze di un fatto che egli non poteva né
prevedere né evitare (Corte cost. 372/94). Ovviamente, la prevedibilità
dell’evento non va confusa con la prevedibilità delle conseguenze
dannose da esso scaturite. Come dire che non si discute sul fatto che
chi omette, per esempio, di dare la precedenza sia in grado di prevedere
che da questo possa derivarne un incidente, si discute sul fatto che chi
ha commesso quella pericolosa infrazione sia in grado di preconizzare
addirittura in che modo e misura ne resterà condizionata negativamente
la vita dei familiari dell’eventuale guidatore antagonista. Se non
c’è prevedibilità non c’è colpa e se non
c’è colpa non c’è obbligo di risarcimento. Le
attività esistenziali astrattamente compromettibili per effetto
dell’altrui illecito, infatti, sono troppo varie e multiformi per
potere essere ritenute prevedibili dal danneggiate. Ma il ragionamento
del Tribunale va ben oltre. Entrando nel merito di che tipo di vita si
cambierà, possiamo spingerci fino a dire che persino la perduta
possibilità – ad esempio – di fare schiamazzi, imbrattare
i muri, ed insomma di compiere qualsiasi insignificante gesto quotidiano
costituisca un danno risarcibile. Ed allora occorrerebbe anche spiegare
perché mai debba considerarsi "ingiusta" la perdita della
possibilità di compiere un gesto od attività insignificanti,
inutili od illecite. Viene scontato replicare che non qualsiasi perdita
esistenziale possa costituire un danno risarcibile. Ma in questo caso
chi svolgerà l’ingrato ed importantissimo ruolo del selettore?
Chi sceglierà il criterio in base al quale discernere le perdite
esistenziali meritevoli di tutela risarcitoria da quelle non risarcibili?
L’abile giurista non ha nessun problema a sfornare la risposta: l’attività
esistenziale meritevole di tutela è immancabilmente ancorata o
a principi costituzionali, o a norme di legge. Ma, in questo modo, viene
a perdersi tutta la portata innovativa del danno esistenziale: se infatti,
affinché il danno sia risarcibile, è necessario individuare
la norma costituzionale o la norma di legge alla quale "ancorare"
l’ingiustizia del danno, non c’è bisogno di mettere in
campo una nuova figura, in quanto oggi la lesione di un interesse normativamente
qualificato costituisce già un danno risarcibile, secondo quanto
stabilito da Cassazione (Sezioni un. Sent. 500/99). Qualsiasi lesione
– dice la Cassazione - e quindi qualsiasi perdita (patrimoniale,
biologica, morale o esistenziale), può dar luogo a un risarcimento,
a condizione che l’interesse leso sia protetto da disposizioni specifiche;
ovvero sia oggetto di norme che rilevano una esigenza di protezione. Nel
primo caso, il risarcimento sarà sempre dovuto, purché sussistano
gli altri elementi dell’illecito; nel secondo caso, sarà dovuto
se il giudice accerti, nel caso concreto, la prevalenza dell’interesse
leso rispetto a quello, eventualmente concorrente, dell’offensore.
Per finire, secondo il Tribunale, andrebbe messo un po’ d’ordine
nel confronto tra la figura del danno esistenziale (ammesso che essa si
possa configurare autonomamente) e quella del danno morale. Secondo i
sostenitori della tesi del danno esistenziale, quest’ultimo costituisce
una rinuncia ad una attività positiva, ad un facere, mentre il
danno morale costituisce una mera sofferenza soggettiva, interiore, inesprimibile,
insomma un pati. Ma come la proviamo questa sofferenza dell’animo
una volta sui banchi del tribunale. Nell’impossibilità della
prova al danneggiato basterà chiedere e conseguentemente al responsabile
non resterà che pagare? Siamo di fronte a una cosa del tipo: "sono
veramente triste" e l’altro stacca l’assegno sulla parola.
Ma entrando di più del merito della distinzione tra danno morale
e danno esistenziale si dice che chi subisce un danno morale "soffre",
mentre chi subisce un danno esistenziale "non fa". La sofferenza
morale causata dall’illecito, infatti, è sempre una sofferenza
causata da una rinuncia: tanto è vero che nessuno potrebbe ragionevolmente
sostenere che costituisce un danno la rinuncia ad attività sgradite
o spiacevoli. Ma se così è, deve concludersi che il cosiddetto
"danno esistenziale" non è che la sofferenza causata
da una rinuncia, cioè un pregiudizio d’affezione, e quindi
è un danno morale. Andiamo al nostro caso: la sofferenza causata
dalla perdita di uno stretto congiunto, indubbiamente può condurre
a molteplici rinunce (andare al cinema, andare a passeggio, visitare musei
e mostre, eccetera). Ma questo tipo di danno, conseguenza della sofferenza
morale, già oggi viene "messo in conto" e valutato al
momento della liquidazione del danno morale. Se si ammettesse, accanto
a quest’ultimo, la risarcibilità anche del danno esistenziale,
delle due l’una: o si compie una duplicazione risarcitoria, liquidando
due volte la pecunia doloris per le medesime privazioni; oppure si "scomputa",
per così dire, il danno esistenziale da quello morale, ma quest’ultimo
corre il rischio di divenire una entità sfuggente e difficilmente
valutabile. Riassumendo, la differenza non c’è: il danno esistenziale
non è che la sofferenza causata da una rinuncia, cioè un
pregiudizio d’affezione, e quindi è un danno morale.
Discorsi difficili, non c’è che dire, ma si sostanziano in un punto
molto concreto: i parenti della vittima si accontentino di ciò
che le tabelle prevedono per il danno morale. Si rallegrino di quel che
troveranno nella confezione: nella "scatola" dell’art. 2059
del codice civile. Niente duplicazioni, dunque, teniamo rigidi i limiti
del risarcimento per una vita segnata. Il morale ha un prezzo, lo stile
di vita no.