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Articoli 19/02/2011

Napoli - Scene di ordinaria follia stradale, rivolta contro agenti della Polizia Municipale che fermano un uomo in scooter

Intanto le aggressione alle divise si moltiplicano. I dati dell’Osservatorio Sbirri Pikkiati: 2.079 aggressioni nel 2010. La maggior parte al sud
Nel 30% di casi alcol e droga protagonisti
Di Lorenzo Borselli
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(ASAPS) NAPOLI, 12.02.2011 – Il lungo parapiglia che ha visto contrapposti, ancora una volta a Napoli, rappresentanti delle Forze dell’Ordine e privati cittadini, non può lasciarci indifferenti. Il clima che sentiamo sulla strada, la crescente insofferenza verso chi ti controlla, è ormai insopportabile.
È il segno di una profonda crisi di valori che tocca tutti gli strati della società: in questa bolgia urlante c’è un manipolo di agenti che, se da un lato non accetta di ripiegare sotto la pressione della folla crescente e urlante, dall’altro non è libera di fare il proprio lavoro. Di videofonini in azione ce n’erano parecchi, ma non abbiamo colto alcun gesto di violenza da parte dei “caschi bianchi”, i quali, invece mantengono la calma. Uno dei più esagitati grida con insistenza “vergogna”. Vergogna di cosa? Di voler fare una multa a un uomo che, secondo le notizie di cronaca, stava viaggiando in scooter senza casco, con un passeggero (pare suo fratello), trasportando una lunga scala di ferro? Sono scene comuni, queste, in molte città del mezzogiorno d’Italia, finite spesso anche nel mirino di trasmissioni televisive come Striscia o Le Iene. Ci si indigna davanti all’indifferenza di rappresentanti delle Forze dell’Ordine, così come ci si indigna quando qualche pirata di turno, meglio se ubriaco o straniero, attenta alla vita e alla sicurezza di tutti noi.
Ci si indigna, dicevamo: a condizione che il pirata sia il prossimo.
Ci si indigna, dicevamo: a condizione che i controlli non vengano fatti a noi.
Il pirata è ubriaco e uccide qualcuno? Ergastolo!
Fanno soffiare noi nell’etilometro? Ma ho fatto gargarismi con il colluttorio, dimostrate il contrario. Oppure: che libertà è quella che impedisce a me di bere un bicchiere di vino o birra (uno?) a cena con gli amici?
No, signori. Qui c’è qualcosa che non funziona più. Lo diciamo da tempo, lo scriviamo ormai da anni.
Nel corso del 2010 l’Osservatorio “Sbirri Pikkiati” ha rilevato 2.079 episodi di violenza perpetrati ad agenti delle polizie dello Stato o Locale. Più o meno gli stessi rilevati nel 2009, quando vennero annotati 2.053 eventi (+1,3%). È, questo, uno degli osservatori più collaudati dell’ASAPS e anche uno dei più delicati: perché in questo contesto noi teniamo un conto impopolare, quello delle botte e della violenza che, quotidianamente, rimediamo sulle strade del paese. A difendere la legalità ci sono poliziotti, carabinieri, finanzieri, agenti delle polizie locali. La loro età media invecchia, il loro numero diminuisce e, con esso, la propria capacità operativa.

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Spesso perdono anche il rispetto della gente e il “timore reverenziale” che, in qualche modo, poteva rappresentare uno scudo protettivo: il 2010 è stato segnato dalla vicenda giudiziaria seguita alla morte di Stefano Cucchi, 31 anni, deceduto il 22 ottobre 2009 in una stanza dell’ospedale Pertini di Roma, dove era stato ricoverato in stato di detenzione a seguito di un arresto per droga. La storia del geometra romano riporta d’attualità altri casi di quella che viene definita, sui blog e su molti media, violenza di stato: c’è quella più famosa di Federico Aldrovandi, quella meno nota di Giuseppe Uva o di Marcello Lonzi, il caso di Carlo Giuliani, sempre pronto a tornare d’attualità.
Accanto a queste storie, però, noi abbiamo – nel solo 2010 – ben 2.079 report di violenza: eventi che ci lasciano non solo basiti, ma anche sconvolti della mancanza di attenzione con cui, quotidianamente, vengono liquidati. A rendere tutto tremendamente frustrante, c’è un’intollerabile violenza sociale alla quale la categoria delle divise viene quotidianamente sottoposta, che trova spesso un’inspiegabile avallo da parte dei poteri di Stato.
Esempi: leggere la sentenza n. 1997/2010, emessa dalla Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione il 9 gennaio 2010, che assolve e giustifica l’automobilista che aveva offeso e minacciato un agente della Polizia Locale, che gli aveva contestato un’infrazione, è stato come ricevere un pugno nello stomaco. Ciò, non tanto per una nostra difesa d’ufficio, ma per l’ennesimo schiaffo che è stato dato alla credibilità e alla dignità di chi tutela Stato e Legge.
In sostanza la Cassazione ci ha detto che ci sono casi in cui, dopo una contravvenzione, si può mandare il vigile a quel paese, addirittura minacciarlo. Ci sono, ovviamente, delle condizioni: il comportamento dell’automobilista può essere perdonato quando la multa sia stata fatta ad una persona che abbia “contingenze prioritarie che prevalgano su ogni altra esigenza”. La vicenda affrontata dagli Ermellini riguardava una doppia condanna, comminata in primo grado e in appello, a un medico catanese, che era stato multato dalla polizia municipale per un’auto in divieto di sosta con rimozione forzata. Il medico, chiamato per una visita cardiologica urgente, aveva lasciato la macchina in divieto e, vedendo i vigili elevargli la contravvenzione, si era rivolto loro dicendo che se avessero concluso il verbale avrebbe fatto vedere loro “l’inferno”. Minaccia da condannare, sia per il Tribunale che per la Corte d’appello di Catania, quest’ultima espressasi nel maggio 2008. La difesa del cardiologo ha fatto ricorso con successo in Cassazione sostenendo che in quel caso doveva scattare “l’esimente dell’adempimento del dovere”, non escludibile “in ragione dello scarso livello di sensibilità dimostrato verso la difficile opera di controllo del traffico e delle esigenze della collettività”.
Ma i supremi giudici, contrariamente alle richieste della pubblica accusa, hanno accolto il ricorso del medico e hanno evidenziato che il medico “reagì all’operato dei vigili con l’atteggiamento di chi ritiene che il proprio compito contingente sia prioritario e prevalga su ogni altra esigenza e, in tale ottica, pretende che chiunque comprenda e condivida tale valutazione”. Quando, dunque, i vigili, “deludendo tale aspettativa – dice la Cassazione – insistettero nel loro atteggiamento, anche per i problemi che la macchina in divieto causava alla circolazione, gli venne naturale reagire con una frase che, al di là del suo obiettivo contenuto minatorio, voleva sostanzialmente esprimere, nella sua stessa enfasi, solo un’esasperata protesta verso quella che gli appariva come un’importuna e ottusa interferenza nell’urgente compito del suo dovere professionale e, non era, quindi, soggettivamente caratterizzata da reale volontà di coartazione”. Da qui l’annullamento della sentenza di condanna “perché il fatto non costituisce reato”.
Non è mai stata nostra abitudine criticare l’operato dei giudici ma siamo ancora in attesa che qualcuno ci spieghi ed elenchi quali sono le “contingenze prioritarie che prevalgono su ogni altra esigenza”. Perché, è ovvio, ognuno avrà le proprie. L’idraulico che interviene per una fuga d’acqua, l’insegnante che sta facendo tardi a scuola, la madre che mamma che accompagna il bambino, il contadino che deve dare il fieno alla vacca. Eravamo abituati a vedere l’annullamento di multe con motivazioni assurde, risibili e a volte inesistenti; eravamo abituati ad interrogatori con domande a tiro incrociato fatte da alcuni giudici di pace e avvocati, per demolire quei pezzi di carta che si chiamano verbali e umiliare gli estensori in divisa che avevano scritto cose che la legge in questi casi dovrebbe tutelare fino a querela di falso, ma che hanno perso ogni peso di attestazione con fede privilegiata. Eravamo abituati alle reazioni scomposte e spesso violente di alcuni conducenti al momento del controllo. Ma che arrivasse una sentenza che stabilisce la possibilità di mandare a quel paese o addirittura minacciare impunemente un agente, no, non ce lo aspettavamo. Ci vien da pensare allora che anche altri pubblici ufficiali, anche in un’aula di giustizia, possano essere mandati a quel paese, ovviamente solo nei casi di “contingenze prioritarie che prevalgano su ogni altra esigenza”.

Vorremmo ci si rendesse conto che certe decisioni non demoliscono solo il ruolo di chi rappresenta la Legge con una divisa (già ad una quota molto prossima allo zero), ma minano il concetto di legalità in senso formale e sostanziale. Quindi contribuiscono alla graduale demolizione del principio di convivenza civile su cui si basa lo Stato, che comprende anche i giudici. La nostra affermazione, ovviamente, è formulata così, solo per “contingenze prioritarie che prevalgono su ogni altra esigenza”.
Un altro caso: a Milano, tre militanti di una fazione politica, accusati di aver spedito l’equipaggio di una volante della Polizia in ospedale, vengono assolti da ogni addebito con una sentenza del tribunale di Milano che ci sembra davvero particolare. Pur rispettando pienamente l’operato dei giudici, c’è qualcosa che non riusciamo a capire: il 9 ottobre 2007 in largo Crocetta, nel centro del capoluogo lombardo, una pattuglia della Questura ferma tre giovani, uno dei quali avrebbe appena partecipato a una rissa con militanti di un gruppo avverso. Le istruzioni della centrale operativa sono chiare. Procedere all’accompagnamento in ufficio del ragazzo, ma il giovane rifiuta. È spalleggiato dagli amici, i poliziotti insistono e poi tutto precipita. Il rifiuto diventa resistenza e cinque poliziotti riportano lesioni: dodici giorni di prognosi per un ispettore, che riporta oltre a una serie di traumi anche la distorsione del rachide cervicale, dieci giorni di prognosi per tre dei suoi colleghi, otto per il quinto. Alla fine scattano le manette, ma al processo avviene, secondo noi, il corto circuito.
Uno dei fermati, quello coinvolto nella rissa, viene condannato per la rissa con i neofascisti alla Statale, ma il terzetto viene assolto in blocco dall’accusa di resistenza a pubblico ufficiale con una motivazione che ci lascia basiti. Secondo il giudice, infatti, l’ordine di seguire i poliziotti in Questura era illegittimo, perché vi sono solo due casi in cui si può costringere qualcuno ad essere accompagnato in un ufficio di polizia: quando rifiuta di dare le proprie generalità o quando esibisce un documento falso, e questo non era il caso, oppure quando riceve un ordine di presentazione, ad esempio ex articolo 650 CP, e non lo rispetta. Ma nemmeno questo era il caso.
Dunque, scrive il giudice, “i tre hanno resistito a un atto oggettivamente illegittimo. Anche se sicuramente gli agenti delle Volanti intervenuti in largo Crocetta non se ne sono resi conto, avendo agito a seguito di ordini ricevuti per via gerarchica e senza nemmeno conoscere il contesto in cui si inseriva il loro operato, la resistenza degli imputati è stata posta in essere a salvaguardia di un diritto costituzionalmente garantito, quello alla libertà personale, e inoltre non vi era modo di opporsi altrimenti all’operato degli agenti, poiché i fatti hanno reso evidente che il rifiuto manifestato a parole di andare in questura e l’affermazione di avere già reso note le proprie generalità e di essere disposto a ripeterle a voce non hanno sortito alcun effetto”.
Cioè, i tre imputati hanno agito in uno stato di necessità davanti a un atto “illegittimo e arbitrario” della polizia e anche se gli sbirri, poi pikkiati per giusta causa, non fossero affatto consapevoli di compiere un atto illegale, e anzi fossero convinti di fare il proprio dovere, non cambia nulla.
Di senso diametralmente opposto, invece, la moltitudine delle condanne emesse per resistenza e lesioni a Pubblico Ufficiale. La stessa Cassazione (sentenza 36.177, 08.10.2010, Sesta Sezione Penale) ha condannato un “portoghese” che, sorpreso da un controllore di un bus a circolare senza biglietto, aveva aggredito il funzionario deputato al controllo dei titoli di viaggio. La Suprema Corte, confermando le precedenti condanne emesse dai giudici di merito, ha così chiarito che il controllore è sì un incaricato di pubblico servizio, ma la tipologia di attività “ispettiva ed accertativa, finalizzata al controllo del mancato fraudolento pagamento del biglietto di viaggio” fa sì che il passeggero che lo aggredisce dopo la verifica della mancata obliterazione del titolo di viaggio deve necessariamente rispondere di resistenza a pubblico ufficiale”.
Se vogliamo che il patto sociale tenga, se vogliamo che la strada sia effettivamente un luogo libero, perché sicuro, bisogna accettare l’idea che la regola deve essere rispettata da ognuno di noi e se anche ci concediamo qualche italianissima libertà, quando un italianissimo agente della forza pubblica ci coglie in flagrante, dovremmo accettare civilmente la sanzione che ci viene comminata. Esattamente come facciamo quando andiamo in vacanza, oltre confine, in paesi – duole dirlo – più civili del nostro. (ASAPS)


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Sabato, 19 Febbraio 2011
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