Io Centauro sopravvissuto da un sinistro, rivivo una domenica col sangue dei Centauri. di Lorenzo Borselli |
Ho
ancora, nonostante tanti ferri nelle ossa (per pregresso, grave e incolpevole
incidente) la voglia di chiamarmi motociclista. Me lo sento dentro,
lo scoppiare dei pistoni, lo sferragliare delle valvole, la risposta precisa
e potente del propulsore incastonato nel cavallo d’acciaio che ci
ostiniamo, e siamo in tanti, a voler montare. Ancora zoppico, per il dolore
di ferite che non si rimarginano, e già so quanto dovròspendere
dal Boga per riprendere un ferro gommato tutto nuovo. Lui che è
un corsaiolo, lo schernisce chiamandolo cancello.
Perdonatemi il gergo usato e che userò. E il preambolo. Il primo maggio è, nel Mugello, una giornata davvero spettacolare. Una grandiosa bistecca onora l’ospitalità che offro a due amici, e il Chianti innaffia praticamente ogni succulento boccone che la nostra forchetta riesce a ghermire, sotto lo sguardo sconsolato di tre rispettive consorti, alle quali è rimasto poco più dell’antipasto. La giornata è destinata a regalarci un pomeriggio da favola, sul lago di Bilancino, dove facciamo i quattro passi dopo caffè e l’ammazzacaffé, una morbidissima grappa di moscato che insegue l’espresso nel nostro organismo provato dalla performance culinaria. Tutto perfetto, comprese le mie battute sul futuro, prossimo acquisto. Saliamo sulla 7 posti (guida chi non ha bevuto alcolici) e riprendiamo la via di Firenze, dove gli amici romagnoli prenderanno l’autostrada alla volta di Bertinoro. Tre curve e le nostre risate si spengono, all’improvviso. Ho detto che quelli con me erano solo amici? Scusate, anche colleghi di divisa. Quattro portiere si aprono all’istante e ci precipitiamo più avanti, trenta metri. Un cavallo d’acciaio tace, adagiato a terra col faro ancora acceso e una ruota che ancora gira, mentre a fianco vedo una ragazza, casco calzato, respira ed è cosciente. Dieci metri più avanti un ragazzo, casco calzato, è prono a terra, con le gambe incredibilmente rigirate all’indietro, a guscio di noce. Risparmio i particolari. Dico solo che al ragazzo allineiamo le fratture sotto le direttive di un’infermiera di passaggio, angelo del 118, che impreca contro i jeans per scovare al tatto delle carni i polsi tibiali dello sventurato centauro, volato a terra dopo aver tamponato una macchina e investito da un altro sventurato e forse incolpevole centauro, che andava dall’altra parte. Si parlano. Chiamiamo i soccorsi, arrivano i Carabinieri. Quando rialzo gli occhi è passata una piccola eternità di venti minuti e attorno a me c’è il popolo delle dueruote. In silenzio hanno impastoiato le loro belve assetate di pieghe e allunghi, hanno sfilato caschi ultramoderni e mostrato i loro lineamenti finora celati dietro quelle minacciose visiere scure, riponendovi dentro – alla maniera rituale che solo noi sappiamo – i guanti che tengono la briglia del gas e della frizione, che giocano con lo sbacchettìo del forcellone in quelle favolose riprese dopo i tornanti delle strade più belle, che domano la nervosa frenata dei doppi dischi. Sono lì, attorno ai loro compagni a terra, che solo per un soffio respirano ancora. Ed è strano quanto una strada sia uguale all’altra, quanto quella puzza che emana dai motori distrutti sia così identica alla volta prima. È quasi un trimetro giambico, una rima che si assona senza licenza poetica, che ti scricchiola sotto la suola mentre cammini sull’asfalto sempre uguale cosparso dai pezzi di vetro di un faro o di un cupolino, inciso da un’altra pedanina o da un manubrio che non sbacchetta più. Stravolta mi sento diverso. Prima di quel maledetto giorno che mi ha spezzato le reni capitava spesso di accapare dietro una curva e trovare una moto sbriciolata, gente a terra, ambulanze, elicotteri, gente in divisa. E capitava anche in pattuglia, di arrivare e coprire qualcuno con un telo. A volte ne sono uscito fiero, per quelle mie capacità di confortare, che viene dal mio lavoro con pistola e stivali, e di curare, per quel vezzo di famiglia di passare serate in ambulanza. A volte ne sono uscito scosso. Sempre, ne sono uscito convinto che a me no! Mi sollevo da quel ragazzo con le gambe spezzate e vedo il popolo delle dueruote. Sono tanti. Molti mi conoscono. Qualcuno sussurra il mio nome, ma ogni parola, ogni rumore, divengono sottofondo di un nuovo stato di me, che oggi esce da un bozzolo durato tutti quei mesi da quel maledetto giorno d’estate: quello di un sopravvissuto. E così cammino tra quel popolo che è anche il mio, sapendo che tra loro c’è qualcuno che c’è già passato e qualcuno che ci passerà. Cammino e dietro le ambulanze la vedo poggiata sul guardrail che piange. Anche lei, sopravvissuta. |