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1. Premessa: la giurisprudenza costituzionale Con la sentenza n. 284 del 26.5.2002, la Corte Costituzionale ribadì che l’imposizione del canone Rai non è incostituzionale. Nell’occasione richiamò la propria precedente giurisprudenza con la quale aveva riconosciuto che il canone non può più essere ritenuto una tassa connessa alla fruizione di un servizio, ma, a seguito dell’evoluzione dei tempi, va considerato un’imposta, essendo la detenzione di un televisore “ragionevole indice di capacità contributiva”. Queste le pronunce richiamate in tale occasione: l’ordinanza n. 585 dell’11.5.1988, con la quale la Corte affermò che: “il giudizio di legittimità costituzionale circa l’obbligo di pagamento del canone di abbonamento alla RAI da parte di coloro che, pur in possesso di apparecchio televisivo, siano nell’impossibilità di fruire delle trasmissioni statali per mancanza di ripetitori nella zona di residenza, postula la possibilità di apprezzare la legittimità anche dell’art. 15, comma secondo, della legge 14 aprile 1975 n. 103, il quale - collegando il medesimo obbligo alla possibilità di ricevere trasmissioni provenienti dall’estero, ed oggi anche dalle emittenti private - esclude la necessità di una relazione diretta tra il canone RAI e la possibilità di uso del servizio televisivo fornito dallo stato italiano, rendendo per ciò dubbia la natura di ‘tassa’ del canone in esame”. la successiva ordinanza n. 219 del 12.4.1989, con la quale la Corte sviluppò il ragionamento così iniziato, osservando ulteriormente che: “anche a voler considerare il canone di abbonamento radiotelevisivo come un’imposta, la mera detenzione di un apparecchio può essere ragionevolmente ritenuta indice di capacità contributiva ai fini dell’imposizione del modestissimo tributo che l’utente è tenuto a versare. La capacità contributiva difatti consiste nell’idoneità ad eseguire la prestazione coattivamente imposta, correlata non già alla concreta capacità del singolo contribuente, bensì al presupposto economico al quale l’obbligazione è collegata. Conseguentemente risulta del tutto irrilevante che in concreto il contribuente consegua o no l’utilità sperata, restando inalterato, per quanto si e detto, il rapporto tributario” (ossia, è irrilevante che possa ricevere segnali e vedere programmi e trasmissioni). Questo assunto fu di nuovo, integralmente ribadito dalla Corte con l’ordinanza 499 26.10.1989. Con la sentenza n. 284 del 2002 la Corte ha aggiunto che: “non è irragionevole la imposizione di un canone destinato alla sola concessionaria RAI, in quanto il venir meno del monopolio statale delle emissioni televisive non ha fatto venir meno l’esistenza e la giustificazione costituzionale dello specifico ‘servizio pubblico radiotelevisivo’ esercitato da un apposito concessionario rientrante nella sfera pubblica con specifici obblighi di servizio pubblico, quali l’obbligo di assicurare una informazione completa, di adeguato livello professionale e rigorosamente imparziale nel riflettere il dibattito fra i diversi orientamenti politici che si confrontano nel Paese, nonché di curare la funzione di promozione culturale e l’apertura dei programmi alle più significative realtà culturali. Ne, sotto altro profilo, può dirsi lesivo del principio di uguaglianza il collegamento dell’obbligo di pagare il canone alla semplice detenzione dell’apparecchio, stante la natura di imposta impressa al canone, che esclude ogni nesso di necessaria corrispettività fra obbligo tributario e fruizione effettiva del servizio. Non è pertanto fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 1, 10 e 25 del regio decreto legge 21 febbraio 1938, n. 246, convertito dalla legge 4 giugno 1938, n. 880, e degli articoli 15 e 16 della legge 14 aprile 1975, n. 103, ‘e norme ivi citate’, sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3, 9 e 21 della Costituzione”. Il giudice remittente (Tribunale di Milano), in particolare, aveva obiettato che: “la detenzione di un apparecchio atto a captare le trasmissioni via etere non potrebbe più costituire il presupposto per l’imposizione di una tassa ‘prevista e dovuta a favore di un solo concessionario in esclusiva per l’utilizzo dell’etere’, anzitutto ‘perché una simile esclusiva di fatto non esiste ed in secondo luogo perché ... creerebbe oggi una disparità evidentissima di trattamento tra chi riceve le trasmissioni televisive attraverso la normale televisione e chi le ricevesse (addirittura migliori), attraverso l’utilizzo della scheda adattata al computer, ovvero chi non le ricevesse affatto (pur avendo l’apparecchio per vedere films videoregistrati)’”, ed altresì che: “in un contesto di trasmissioni via etere tecnologicamente avanzato, quindi, sarebbe irragionevole e darebbe luogo a disparità di trattamento l’obbligo per il detentore di un apparecchio televisivo di corrispondere una tassa ad una società di diritto privato come la Rai, sulla base di una normativa, dettata per un sistema di monopolio, priva del carattere di generalità che la norma di legge deve avere, nell’imporre un determinato precetto a tutti i soggetti che si trovino nella medesima situazione”. Con ordinanza n. 27092 del 22.12.2009, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno a loro volta avallato l’interpretazione della Corte Costituzionale osservando che: “spetta alla Corte dei conti la giurisdizione in tema di risarcimento del danno cagionato alla Rai Radio televisione Italiana s.p.a., da componenti del consiglio d’amministrazione e da dipendenti di tale società e degli enti pubblici azionisti, in relazione alla nomina del direttore generale e al trattamento economico dello stesso e degli ex direttori generali; la Rai, infatti, nonostante la veste di società per azioni (peraltro partecipata totalitariamente da enti pubblici), ha natura sostanziale di ente pubblico, con uno statuto assoggettato a regole legali, per cui essa è: designata direttamente dalla legge quale concessionaria dell’essenziale servizio pubblico radiotelevisivo; sottoposta a penetranti poteri di vigilanza da parte di un’apposita commissione parlamentare; destinataria di un canone d’abbonamento avente natura di imposta; compresa tra gli enti sottoposti al controllo della Corte dei Conti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria; tenuta all’osservanza delle procedure di evidenza pubblica nell’affidamento degli appalti; né l’esperibilità dell’azione di responsabilità amministrativa è ostacolata dalla possibilità di promuovere l’ordinaria azione civilistica di responsabilità, poiché la giurisdizione civile e quella contabile sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, sicché il rapporto tra le due azioni si pone in termini di alternatività anziché di esclusività, dando luogo a questioni non di giurisdizione ma di proponibilità della domanda”.
Il quadro normativo che scaturisce da questa giurisprudenza, segnata da un’interpretazione marcatamente evolutiva, s’impernia quindi su un punto fondamentale: che la presenza, nell’abitazione o nel domicilio di una persona, anche di un solo apparecchio idoneo alla ricezione di programmi televisivi, costituisce indice di una particolare capacità contributiva (ossia di ricchezza e/o disponibilità) di quella persona. Vi sono tuttavia molteplici obiezioni da fare.
2. Detenzione di un apparecchio e capacità contributiva Innanzitutto la normativa stabilisce che l’obbligo di pagare questa imposta deriva dalla semplice detenzione dell’apparecchio, ossia da una situazione di mera disponibilità materiale della cosa, a prescindere dal possesso e dalla proprietà della stessa. La norma dell’art. 1 c. 1 del regio decreto-legge 21 febbraio 1938, n. 246, convertito in legge 4 giugno 1938, n. 880 (Disciplina degli abbonamenti alle radioaudizioni) stabilisce infatti: “Chiunque detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento, giusta le norme di cui al presente decreto”. La stessa Corte Costituzionale, nella propria sentenza n. 284 del 2002, nel rilevare la non irragionevolezza dell’imposizione del canone, ha fatto riferimento alla “mera detenzione” dell’apparecchio (parte in diritto, par. 3, ultima riga) (come già il TAR Lazio, con sentenza n. 1053 del 29.5.1997, a sua volta aveva parlato di “semplice detenzione di uno o più apparecchi atti alla ricezione delle radioaudizioni”). Non solo. Ad ulteriore sostegno di quanto sopra, sul sito www.abbonamenti.rai.it, fra le domande possibili più frequenti con relative risposte, compaiono anche le seguenti: 1. Ho affittato un TV, devo pagare ugualmente il canone? R: sì, in quanto il canone è dovuto per la semplice detenzione dell’apparecchio (art. 1 RDL 21.2.1938, n. 246); 2. Vivo in un appartamento ammobiliato in cui è presente un apparecchio non di mia proprietà, a chi spetta il versamento del canone?R: il versamento dell’imposta spetta all’affittuario, in quanto detentore dell’apparecchio (art. 1 RDL 21.2.1938 n.246). A questo punto ci si deve chiedere come una situazione in fatto, quale la detenzione, indipendente dalla proprietà, possa costituire indice di particolare capacità contributiva, ossia di ricchezza. Ci si deve chiedere per quale motivo chi ha ricevuto un apparecchio in comodato o lo detenga in un appartamento ammobiliato occupato in locazione, sia chiamato a pagare un’imposta su una ricchezza che non ha. La stessa Rai, nel giudizio di legittimità costituzionale concluso con la sentenza n. 284 del 2002, nella propria memoria di costituzione ammise che le disposizioni sul canone “potrebbero, semmai, indubbiarsi di incostituzionalità quanto alla adeguatezza e alla ragionevolezza di un siffatto indice di capacità contributiva individuato dal legislatore” (così si legge nella sentenza, parte in fatto, par. 2), non approfondendo però la questione in quanto l’ordinanza di rimessione argomentava invece intorno ad altro. Sembra quindi ricorrere un vizio di ragionevolezza con violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 della Costituzione, stante una irragionevole disparità di trattamento fra chi detiene l’apparecchio in quanto proprietario e chi lo detiene per altra ragione, estranea alla propria capacità contributiva.
3. Progressività dell’imposta Ma anche qualora si volesse ricondurre l’obbligo di pagamento del canone alla proprietà dell’apparecchio (ammesso e non concesso che ciò sia possibile), sorgono altri pesanti interrogativi. Sempre a norma dell’art 1 del RDL 21.2.1938, n. 246, il canone deve essere corrisposto da chiunque detenga uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radiotelevisive, indipendentemente dalla qualità o dalla quantità del relativo utilizzo (lo ribadisce, in questi termini, sempre il sito www.abbonamenti.rai.it, citando all’uopo anche le sentenze n. 535 del 12.5.1988 della Corte Costituzionale e n. 8549 del 3.8.1993 della Corte di Cassazione, la quale espressamente, riconosce che, in effetti, “si è tenuti a versare un solo canone anche per il possesso di più apparecchi”). Ancora il sito, alla domanda: “Ho una seconda casa devo pagare un altro canone?”, risponde: “No. Il pagamento del canone di abbonamento alla televisione per l’abitazione primaria consente la detenzione di uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radio televisive ad uso privato da parte dello stesso soggetto o componenti del suo nucleo familiare anagraficamente inteso nella propria residenza o dimora abituale e secondaria”, richiamando sul punto l’art. 27 c. 2 della legge 6.8.1990 n. 223, per il quale: “il pagamento del canone di abbonamento alla televisione consente la detenzione di uno o più apparecchi televisivi ad uso privato da parte dello stesso soggetto nei luoghi adibiti a propria residenza o dimora”. Ci possono quindi essere le diverse situazioni di chi ha un solo apparecchio nella propria abitazione (magari un modello base del costo di duecento euro, o anche un usato pagato poche decine di euro) e di chi invece ha numerose ville e case sparse, ognuna attrezzata con vari apparecchi ultraccessoriati, indicativa della spesa di varie decine di migliaia di euro solo in televisori. Ci possono essere, più in generale, le diverse situazioni di chi vive in quasi povertà ed è riuscito a procurarsi un piccolo televisore con fatiche e magari facendo anche debiti, e di chi è ricchissimo e ha redditi annuali di milioni di euro è può acquistare un televisore con la stessa facilità con cui una persona qualunque può comprare un giornale. Ebbene, in tutti i casi l’utente è chiamato a pagare un solo canone (che per il 2011 è fissato in euro 110,50). Occorre chiedersi se ciò è in linea con il principio di progressività delle imposte sancito dall’art. 53 c. 2 della Costituzione, per il quale l’aliquota dell’imposta aumenta all’aumentare dell’imponibile (per cui l’imposta da pagare aumenta più che proporzionalmente rispetto all’aumento dell’imponibile), oltre che, ovviamente, con il principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Sul principio di progressività dell’imposta, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 128 del 15.12.1966 (richiamata integralmente dalla recente sentenza n. 102 del 15.4.2008), ha affermato che: “la norma costituzionale non vieta che i singoli tributi siano ispirati a criteri diversi da quello della progressività, ma si limita a dichiarare che il sistema tributario deve avere nel suo complesso un carattere progressivo. Ed invero - nella molteplicità e varietà di imposte, attraverso le quali viene ripartito fra i cittadini il carico tributario non tutti i tributi si prestano, dal punto di vista tecnico, all’adattamento al principio della progressività, che - inteso nel senso dell’aumento di aliquota col crescere del reddito - presuppone un rapporto diretto fra imposizione e reddito individuale di ogni contribuente. Pertanto il principio della progressività, applicabile alle imposte personali ma non a tutte le altre diverse imposte, non può riguardare quelle di bollo. Il precetto costituzionale della progressività ha un fine politico sociale, che potrà essere attuato, nei limiti consentiti dalle particolari esigenze, ricorrendo di preferenza a tipi di tributi i quali consentano di fare gravare maggiormente il carico sui redditi personali più elevati, e rendano quindi la partecipazione di ciascuno alle spese pubbliche adeguata alla capacità contributiva individuale”. Bisogna allora chiedersi, ulteriormente, se il canone, che è imposta espressiva della capacità contributiva di una persona (in quanto, secondo quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, riferita alla sua disponibilità di beni indicativi di tale capacità), debba essere considerata un’imposta personale (che colpisce la ricchezza in quanto appartenente ad una determinata persona). E quindi, in relazione alle diverse situazioni che si possono verificare come sopra profilate, così regolata (con il pagamento di una somma fissa a prescindere), non realizzi una disparità di trattamento, con violazione dei principi di uguaglianza (art. 3 Costituzione) e di progressività dell’imposta (art. 53 c. 2 Costituzione). In altri termini, sorge un interrogativo pesante sulla necessità di ancorare, diversamente da quanto avviene ora, il canone che ciascun contribuente deve pagare al reddito da lui dichiarato, oppure, in alternativa, a quella parte di reddito da lui impiegata per l’acquisto di beni di consumo (qui, televisori e apparecchi adattabili alla ricezione di programmi televisivi), in quanto espressiva della sua capacità contributiva.
I rilievi sollevabili, tuttavia, non finiscono qui. Occorre anche considerare se l’ordinamento è in grado di porre in essere gli opportuni accertamenti volti ad assicurare la soggezione dei cittadini al pagamento del canone, e quindi l’effettività dell’obbligo. La risposta sembra negativa. E’ possibile dare disdetta dall’abbonamento, nelle forme previste dall’art. 10 RDL 21.2.1938, n. 246, per sparizione o distruzione dell’apparecchio (ad esempio, per un incendio accidentale, per furto, per smarrimento) o per cessione a un terzo compiutamente individuato. Non sembra però che vi siano strumenti atti a verificare la veridicità di tali disdette ove gli apparecchi siano situati in private abitazioni. Ed infatti, ai sensi degli artt. 32 e 33 del DPR 29 settembre 1973, n. 600, “Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi”, è previsto che per l’adempimento dei loro compiti gli uffici delle imposte possono procedere all’esecuzione di accessi, ispezioni e verifiche, valendosi all’uopo anche della Guardia di Finanza, secondo le disposizioni dell’art. 52 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (“Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto”), il quale a sua volta stabilisce che: “Gli uffici dell’imposta sul valore aggiunto possono disporre l’accesso di impiegati dell’Amministrazione finanziaria nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e delle altre violazioni. Gli impiegati che eseguono l’accesso devono essere muniti di apposita autorizzazione che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono. Tuttavia per accedere in locali che siano adibiti anche ad abitazione, è necessaria anche l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica. In ogni caso, l’accesso nei locali destinati all’esercizio di arti o professioni dovrà essere eseguito in presenza del titolare dello studio o di un suo delegato.” Stabilisce inoltre che: “L’accesso in locali diversi da quelli indicati nel precedente comma può essere eseguito, previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica, soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme del presente decreto, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni”. Quindi, per accedere a locali di privata abitazione occorre l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica, la quale può essere rilasciata solo in presenza di gravi indizi di violazioni tributarie. La giurisprudenza sul punto ha chiarito che: “in tema di accertamento delle imposte, l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare, prescritta in materia di IVA dall’art. 52 del DPR n. 633 del 1972, richiamato in materia di imposte dirette dall’art. 33 del DPR n. 600 del 1973, mira a conciliare la rilevanza costituzionale dell’inviolabilità del domicilio, espressamente riconosciuta dall’art. 14, comma 1, Cost., con l’esigenza dell’acquisizione degli elementi di riscontro di una supposta evasione fiscale, al fine di evitarne l’occultamento o la distruzione. Essa, quindi, deve essere giustificata dall’esistenza di gravi indizi di violazione della legge fiscale, la cui valutazione va effettuata ‘ex ante’ con prudente apprezzamento, e deve essere, sia pure concisamente, motivata (in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto illegittimo il provvedimento del Procuratore della Repubblica che, in presenza di una richiesta di autorizzazione della Guardia di Finanza motivata soltanto nel senso che ‘una verifica fiscale doveva essere eseguita nei confronti della società della quale ... era socio’, si era limitato ad accennare che il motivo dell’accesso risiedeva nella necessità di controllare il regolare assolvimento della normativa in materia di IVA ed imposte dirette)”. In particolare, occorre che si “faccia riferimento ad elementi cui l’ordinamento attribuisca valenza indiziaria” (Cass. 20.3.2009, n. 6836). Sono pertanto necessari, ai fini di un accesso che pregiudica l’inviolabilità del domicilio (bene costituzionalmente garantito), gravi indizi di una violazione, desumibili da elementi significativi in tal senso. La normale disdetta, quindi, effettuata nelle forme previste dalla legge (ossia l’esercizio di una pura e semplice facoltà riconosciuta dalla legge), in assenza di un quid pluris, non sembra possa legittimare ispezioni o verifiche domiciliari. Ragionare in termini contrari, infatti, porterebbe all’assurdo di ritenere l’esercizio di una facoltà legittima un fatto in sé indiziante, a prescindere da altri fattori. Né è possibile acquisire utilmente la notizia della presenza di un apparecchio in un’abitazione in via incidentale, nel corso di altri accertamenti o magari attraverso espedienti volti all’accesso. Infatti, come abbiamo visto, la Corte di Cassazione, ha affermato che la valutazione dell’esistenza di gravi indizi di violazione della legge fiscale va effettuata ex ante. L’accesso, quindi, deve essere mirato. La Corte di Cassazione, al riguardo, ha puntualizzato che l’assenza dell’autorizzazione del Procuratore della Repubblica (che, come detto, deve essere finalizzata al reperimento di notizie ed elementi di prova in relazione a uno specifico accertamento preventivamente individuato) importa “la inutilizzabilità, a sostegno dell’accertamento tributario, delle prove reperite nel corso della perquisizione illegale, in ragione del valore stesso dell’inviolabilità della libertà personale solennemente consacrato nell’art. 13 Cost., senza che assuma alcun rilievo la circostanza che il perquisito non abbia sollevato alcuna contestazione, né al momento della perquisizione, né successivamente: la mancata opposizione, infatti, oltre a non essere presa in considerazione da alcuna norma di legge, non equivale a consenso alla perquisizione personale, né rende legittima una perquisizione operata al di fuori delle previsioni legislative”. (Cass. 19.10.2005, n. 20253). Le osservazioni da fare in tema, peraltro, non finiscono qui. Il sito www.abbonamenti.rai.it puntualizza anche che l’uso dell’apparecchio televisivo solo come monitor per il computer o per vedere videocassette impone egualmente il pagamento del canone, in quanto tale obbligo, secondo quanto disposto dall’art. 1 del RDL 21.2.1938 n. 246, sorge a seguito della detenzione di uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radiotelevisive, indipendentemente dalla qualità o dalla quantità del relativo utilizzo (vengono di nuovo citate al riguardo le sentenze n. 535 del 12.5.1988 della Corte Costituzionale e n. 8549 del 3.8.1993 della Corte di Cassazione). Per cui, si prosegue nel sito, la destinazione dell’apparecchio televisivo ad uso diverso (visione di nastri preregistrati, utilizzazione come terminale per home-computer o come monitor per video-games) non ne esclude la adattabilità alla ricezione delle trasmissioni televisive e conferma l’obbligo a corrispondere il canone di abbonamento. Ne deriva quindi anche, per inciso, che il pagamento di un canone satellitare, via cavo o pay-tv, non esonera dall’obbligo di pagamento del canone in quanto, si ribadisce, tale obbligo nasce a seguito della detenzione di uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radiotelevisive. Non solo. Deve di conseguenza pagare il canone anche chiunque abbia una TV o un cellulare Umts, un tivufonino, un videoregistratore, un personal computer portatile o un masterizzatore di DVD, cioè apparecchi atti alla ricezione in quanto dotati di sintonizzatore, o adattabili alla ricezione in quanto, pur non essenzialmente dotati di sintonizzatore, sono tuttavia dotati di porte per connettori audio/video collegabili ad un sintonizzatore. Oggi, inoltre, deve pagarlo anche chi ha un vecchio televisore collegabile a un decoder digitale terrestre. Dunque, per essere coerente, l’imposizione del canone a chi possiede un cellulare adattabile alla ricezione di programmi televisivi, dovrebbe prevedere anche modalità di verifica mirate a riscontrare il possesso dell’apparecchio, ovunque e comunque. Qui il discorso diviene addirittura utopistico, in quanto, per accertare se una persona ha con sé un cellulare fuori dalla propria abitazione (sulla strada o in luoghi pubblici), occorrerebbe addirittura procedere a una perquisizione personale, la quale è invece possibile solo nell’ambito di indagini volte all’accertamento di reati. L’art. 52 c. 3 DPR 633/1972, infatti prevede che perquisizioni personali siano possibili solo nel corso di un accesso domiciliare preventivamente autorizzato dal Procuratore della Repubblica (si veda al riguardo Cass. 19.10.2005, n. 20253, e ferme in ogni caso tutte le obiezioni di cui sopra in ordine agli accessi domiciliari). Fuorvianti, quindi, appaiono anche le diffide contenute negli avvisi che la Rai spedisce all’abbonato inadempiente, ove spesso compare l’avviso che potranno essere effettuati a suo carico i necessari controlli e che l’unico modo che egli ha per evitare tali accertamenti è pagare. Significativa al riguardo è la notizia riportata da Wikipedia, secondo la quale “nel 2006 la Rai è stata condannata al pagamento delle spese processuali e ad un simbolico risarcimento danni a favore di un cittadino di Tradate, vessato per anni dalla stessa Rai con richieste del pagamento della tassa di possesso del televisore, e con esplicite minacce di visite della Guardia di Finanza, oltre che alla violazione del diritto alla privacy, senza che questo possedesse effettivamente alcun apparecchio televisivo”. Il commento (del tutto plausibile), sempre su Wikipedia, è che “evidentemente viene violato il principio secondo cui occorrono delle prove certe per poter intervenire, ignorando la Rai che, comunque, l’accesso ad una abitazione privata, non è assolutamente consentito ad alcun funzionario o dipendente Rai, ma deve essere esclusivamente riservato alle forze dell’ordine, previa autorizzazione della Procura del Tribunale di competenza, fornite di regolare ordine di perquisizione”. Da tutto questo scenario critico derivano quindi pesantissimi dubbi sulla possibilità di assicurare il rispetto dell’obbligo di pagare il canone, in violazione dell’art. 53 c. 1 della Costituzione, che afferma il dovere di tutti i cittadini di concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
5. Considerazioni conclusive In generale, quindi, si può affermare che per gli abbonamenti c.d. ordinari possano ritenersi non manifestamente infondati i rilievi di incostituzionalità qui descritti. Per i c.d. abbonamenti speciali, invece, il discorso è lievemente diverso. Il canone speciale è previsto dall’art. 2 del decreto legislativo luogotenenziale 21 dicembre 1944, n. 458 (che ha sostituito il secondo comma dell’articolo 10 del regio decreto legge 23 ottobre 1925, n. 1917), per il quale: «Qualora le radioaudizioni siano effettuate in esercizi pubblici o in locali aperti al pubblico o comunque al di fuori dell’ambito familiare, o gli apparecchi radioriceventi siano impiegati a scopo di lucro diretto o indiretto, l’utente dovrà stipulare uno speciale contratto di abbonamento con la società concessionaria». Qui non entrano in gioco fattori relativi alla tutela della riservatezza e del domicilio, per cui le questioni rilevanti sul piano della legittimità costituzionale paiono limitate a quelle qui rappresentate ai paragrafi In ogni caso, al di là di tutte le osservazioni tecnico-giuridiche formulabili, l’impressione complessiva che rimane sullo sfondo delle vicende che hanno caratterizzato il canone Rai, è quella di uno sforzo per trovare una soluzione di continuità fra una realtà sociale e tecnologica ampiamente superata e quella odierna, attraverso l’artificio di trasformare una tassa su un servizio (giustificata quando esisteva solo la TV di Stato) in un’imposta sulla ricchezza. Il risultato è stato anche quello di assicurare all’erario il mantenimento di una cospicua entrata. Sul piano del puro e semplice buon senso, ci si deve anche chiedere perché si debba pagare un’imposta sulla ricchezza per un televisore o un computer, quando invece non si deve pagare per una lavatrice, un frigorifero, un mobile di antiquariato, e via dicendo.
*Presidente di Sezione Tribunale di Bologna |
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