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Corte di Cassazione 18/05/2011

Giurisprudenza di legittimità - Danno parentale, danno biologico, danno tanatologico, precisazioni

(Cass. Civ., sez. III, 9 maggio 2011, n. 10107)

Il danno da lesione del rapporto parentale è ontologicamente diverso da quello che consegue alla lesione della integrità psicofisica (danno lato sensu, biologico), si collega alla violazione di un diritto di rilevanza costituzionale diverso dal diritto alla salute tutelato dall’art. 32 Cost., l’uno e l’altro, peraltro, definitivamente trasmigrati - non come autonome categorie di danno, ma come entità descrittive della conformazione che l’unitaria figura del danno non patrimoniale di volta in volta assume in concreto - nell’area normativa dell’art. 2059 cod. civ..
Più nello specifico, il danno da perdita del rapporto parentale va al di là del crudo dolore che la morte in sé di una persona cara, tanto più se preceduta da agonia, provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi esso nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti.

Peraltro i criteri di liquidazione di tale profilo del danno non patrimoniale non possono ignorare la complessiva risposta che il diritto vivente da all’esigenza di ristoro fatta valere dai prossimi congiunti della vittima primaria.
Costituiscono invero massime ormai consolidate nella giurisprudenza di questa Corte:

a) che in caso di lesione dell’integrità fisica con esito letale, un danno biologico risarcibile in capo al danneggiato, trasmissibile agli eredi, è configurabile solo se la morte sia intervenuta dopo un apprezzabile lasso di tempo, si da potersi concretamente configurare un’effettiva compromissione dell’integrità psicofisica del soggetto leso, non già quando la morte sia sopraggiunta immediatamente o comunque a breve distanza dall’evento, giacché essa non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma lesione di un bene giuridico diverso, e cioè del bene della vita;

b) che parimenti il danno cosiddetto catastrofale - e cioè la sofferenza patita dalla vittima durante l’agonia - è risarcibile e può essere fatto valere iure hereditatis unicamente allorché essa sia stata in condizione di percepire il proprio stato, abbia cioè avuto l’angosciosa consapevolezza della fine imminente, mentre va esclusa quando all’evento lesivo sia conseguito immediatamente il coma e il danneggiato non sia rimasto lucido nella fase che precede il decesso;

c) che non è risarcibile il danno tanatologico, da perdita del diritto alla vita, fatto valere iure successionis dagli eredi del de cuius, per l’impossibilità tecnica di configurare l’acquisizione di un diritto risarcitorio derivante dalla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del titolare, e da questo fruibile solo in natura: e invero, posto che finché il soggetto è in vita, non vi è lesione del suo diritto alla vita, mentre, sopravvenuto il decesso, il morto, in quanto privo di capacità giuridica, non è in condizione di acquistare alcun diritto, il risarcimento finirebbe per assumere, in casi siffatti, un’anomala funzione punitiva, particolarmente percepibile laddove il risarcimento dovesse essere erogato a eredi diversi dai congiunti o, in mancanza di successibili, addirittura allo Stato.

A ben vedere, a monte di tali opzioni ermeneutiche, e soprattutto dell’ultima, vi è l’elementare considerazione che, in caso di morte di un congiunto, la stessa nozione di risarcimento per equivalente - e cioè di un intervento a carico del danneggiante che serva a rimettere il patrimonio del soggetto leso nella situazione in cui si sarebbe trovato se non fosse intervenuto l’atto illecito - ha senso solo con riferimento alle conseguenze di carattere patrimoniale del fatto pregiudizievole, predominante essendo invece la funzione consolatoria dell’erogazione pecuniaria (non a caso tradizionalmente definita denaro del pianto), inattuabile, per forza di cose, nei confronti del defunto. (1-3)

(*) Riferimenti normativi: art. 2059 c.c.
(1) In tema di danno parentale e prova, si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza 06.04.2011 n° 7844.
(2) In materia di danno tanatologico, si veda Cassazione civile , sez. III, sentenza 08.04.2010 n° 8360.
(3) In tema di danno non patrimoniale, si veda Cassazione Civile, SS.UU., 11.11.2008, n. 26972 (si vedano anche le video riflessioni di VIOLA, in materia di integralità del risarcimento del danno alla persona, e le video riflessioni di CESARI, nell’ambito del convegno Il Risarcimento del danno non patrimoniale con pregiudizi esistenziali tenutosi in Roma il 24 novembre 2008 presso il Palazzo Marini della Camera dei Deputati.

Tra i contributi della dottrina, si vedano:
- CENDON (a cura di), Trattato dei nuovi danni, Padova, 2011;
- CARBONE P., Perdita del rapporto parentale, in Danno e Resp., 2010, 10, 963;
- VIOLA, Danni da morte e da lesione alla persona, Padova, 2009;
- TUOZZO, Il danno da perdita del rapporto parentale nel bipolarismo risarcitorio, in Resp. civ., 2008, 6, 495.

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 10 marzo - 9 maggio 2011, n. 10107
(Presidente Preden - Relatore Amendola)

Svolgimento del processo

 

I fatti di causa rilevanti ai fini della decisione del ricorso possono così ricostruirsi sulla base della sentenza impugnata.
D.B.F. e C..D.B. , rispettivamente marito e figlio di M.S. convennero in giudizio, innanzi al Tribunale di Roma, An..Co., A..C. e SAI Ass.ni s.p.a., per essere risarciti dei danni subiti a seguito dell’incidente stradale in cui aveva perso la vita la loro congiunta. Esposero che questa, investita sulle strisce pedonali, aveva riportato lesioni che, dopo una degenza ininterrotta di ventuno giorni, ne avevano provocato la morte.

Con sentenza del 12 novembre 2002, il giudice adito, per quanto qui interessa, condannò i convenuti al pagamento, in solido tra loro, delle somme di Euro 113.142, in favore di F..D.B., e di Euro 86.208, in favore di C..D.B., per danno morale, mentre escluse ogni attribuzione a titolo di danno patrimoniale, in favore del coniuge superstite, in relazione alla pensione di cui era titolare la moglie, in ragione del riconoscimento al marito di una reversibile del 60%.

Proposto gravame da D.B.F. e C..D.B., la Corte d’appello, in data 12 luglio 2005, in parziale riforma dell’impugnata sentenza, ha condannato An..Co., C.A. e SAI Ass.ni s.p.a. al pagamento dell’ulteriore somma di Euro 840,00, a titolo di danno biologico spettante agli attori iure hereditatis, compensando tra le parti le spese del grado in ragione della metà e condannando gli appellanti al pagamento in solido del residuo.
Avverso detta pronuncia propongono ricorso per cassazione, illustrato anche da memoria, D.B.F. e C., articolando quattro motivi.

Resiste con controricorso A.C.

Motivi della decisione

1.1 Col primo motivo gli impugnanti lamentano violazione degli artt. 2059 e 112 cod. civ., ex art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ.. Le critiche si appuntano contro il mancato riconoscimento del danno esistenziale, argomentato dalla Corte d’appello con l’assunto che la relativa istanza era stata tardivamente proposta.

Rilevano per contro gli esponenti che nell’atto introduttivo del giudizio essi avevano chiesto il risarcimento di tutti i danni derivati dalla grave perdita subita, agendo sia iure proprio che iure hereditatis. E in relazione a tale formulazione della domanda, reiterata in appello e meglio specificata nella comparsa conclusionale, la richiesta di attribuzione del danno esistenziale, non poteva essere qualificata come domanda nuova.

1.2 Col secondo mezzo denunciano insufficienza e contraddittorietà della motivazione, ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., con riferimento alla determinazione quantitativa del danno morale. Sostengono che nei motivi di gravame avevano prospettato l’insufficienza delle somme liquidate dal giudice di prime cure, il quale aveva applicato criteri genericamente automatici, senza tener conto della particolare gravità del fatto, del lungo periodo di sofferenze sopportate dalla vittima tra l’evento dannoso e la morte, e del danno morale riflesso che ad essi ne era derivato. Il giudice di merito avrebbe segnatamente trascurato la lesione dell’affettività conseguente a una perdita repentina e irreversibile.

1.3 Col terzo motivo i ricorrenti lamentano violazione degli artt. 2056, 1223 e 1227 cod. civ., 115 e 116 cod. proc. civ., ex art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ. Deducono che il rigetto della domanda di liquidazione del danno patrimoniale derivato dal venir meno del reddito del coniuge deceduto, argomentato, tra l’altro, col rilievo che una parte della pensione della vittima primaria veniva dalla stessa utilizzata per sopperire ai propri bisogni, era erroneo, non avendo il giudice di merito considerato l’impraticabilità, in parte qua, dell’istituto della compensato lucri cum damno.

Peraltro neppure era stato considerato che la morte della moglie comportava per il marito superstite maggiori oneri di sostentamento, in relazione alle quotidiane esigenze di vita.

1.4 Col quarto mezzo infine gli impugnanti denunciano erroneità della motivazione con riferimento alla loro condanna al pagamento di metà delle spese di giudizio, senza che di tale scelta venisse fornita alcuna motivazione.

2 Si prestano a essere esaminate congiuntamente, per la loro evidente connessione, le censure formulate nei primi due motivi di ricorso.

Esse sono fondate per le ragioni che seguono.

A ben vedere, ciò di cui i ricorrenti si dolgono, evocando le figure del danno esistenziale nonché, con qualche confusa ridondanza argomentativa, di un danno biologico come danno indiretto, di riflesso o di rimbalzo, è l’insufficiente liquidazione del danno non patrimoniale da essi patito - e quindi iure proprio rivendicato - a seguito della morte del congiunto e segnatamente di quel particolare profilo della subita incisione nella propria sfera areddituale, costituita dal danno da perdita del rapporto parentale. Questo danno, che è ontologicamente diverso da quello che consegue alla lesione della integrità psicofisica (danno lato sensu, biologico), si collega alla violazione di un diritto di rilevanza costituzionale diverso dal diritto alla salute tutelato dall’art. 32 Cost., l’uno e l’altro, peraltro, definitivamente trasmigrati - non come autonome categorie di danno, ma come entità descrittive della conformazione che l’unitaria figura del danno non patrimoniale di volta in volta assume in concreto - nell’area normativa dell’art. 2059 cod. civ. (confr. Cass. civ. 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828; Corte cost. 11 luglio 2003, n. 233; Cass. civ. sez. un. 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975), dopo che per anni avevano trovato copertura nell’ambito dell’art. 2043, in combinato disposto con i diritti fondamentali costituzionalmente tutelati (confr. Cass. civ. sez. un. 22 maggio 2002, n. 7470).

Più nello specifico, il danno da perdita del rapporto parentale va al di là del crudo dolore che la morte in sé di una persona cara, tanto più se preceduta da agonia, provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi esso nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti.

3. Peraltro i criteri di liquidazione di tale profilo del danno non patrimoniale non possono ignorare la complessiva risposta che il diritto vivente da all’esigenza di ristoro fatta valere dai prossimi congiunti della vittima primaria.
Costituiscono invero massime ormai consolidate nella giurisprudenza di questa Corte: a) che in caso di lesione dell’integrità fisica con esito letale, un danno biologico risarcibile in capo al danneggiato, trasmissibile agli eredi, è configurabile solo se la morte sia intervenuta dopo un apprezzabile lasso di tempo, si da potersi concretamente configurare un’effettiva compromissione dell’integrità psicofisica del soggetto leso, non già quando la morte sia sopraggiunta immediatamente o comunque a breve distanza dall’evento, giacché essa non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma lesione di un bene giuridico diverso, e cioè del bene della vita (confr. Cass. civ. 17 gennaio 2008, n. 870; Cass. civ. 28 agosto 2007, n. 18163; Corte cost. n. 372 del 1994);
b) che parimenti il danno cosiddetto catastrofale - e cioè la sofferenza patita dalla vittima durante l’agonia - è risarcibile e può essere fatto valere iure hereditatis unicamente allorché essa sia stata in condizione di percepire il proprio stato, abbia cioè avuto l’angosciosa consapevolezza della fine imminente, mentre va esclusa quando all’evento lesivo sia conseguito immediatamente il coma e il danneggiato non sia rimasto lucido nella fase che precede il decesso (confr. Cass. civ. 28 novembre 2008, n. 28423; Cass. civ. 24 marzo 2011, n. 6754);
c) che non è risarcibile il danno tanatologico, da perdita del diritto alla vita, fatto valere iure successionis dagli eredi del de cuius, per l’impossibilità tecnica di configurare l’acquisizione di un diritto risarcitorio derivante dalla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del titolare, e da questo fruibile solo in natura: e invero, posto che finché il soggetto è in vita, non vi è lesione del suo diritto alla vita, mentre, sopravvenuto il decesso, il morto, in quanto privo di capacità giuridica, non è in condizione di acquistare alcun diritto, il risarcimento finirebbe per assumere, in casi siffatti, un’anomala funzione punitiva, particolarmente percepibile laddove il risarcimento dovesse essere erogato a eredi diversi dai congiunti o, in mancanza di successibili, addirittura allo Stato (confr. Cass. civ. 24 marzo 2011, n. 6754; Cass. civ. 16 maggio 2003, n. 7632);

4. A ben vedere, a monte di tali opzioni ermeneutiche, e soprattutto dell’ultima, vi è l’elementare considerazione che, in caso di morte di un congiunto, la stessa nozione di risarcimento per equivalente - e cioè di un intervento a carico del danneggiante che serva a rimettere il patrimonio del soggetto leso nella situazione in cui si sarebbe trovato se non fosse intervenuto l’atto illecito - ha senso solo con riferimento alle conseguenze di carattere patrimoniale del fatto pregiudizievole, predominante essendo invece la funzione consolatoria dell’erogazione pecuniaria (non a caso tradizionalmente definita denaro del pianto), inattuabile, per forza di cose, nei confronti del defunto (confr. Cass. civ. 6754/2011 e 7632/2003 cit.).

L’irriducibile e somma disomogeneità tra bene inciso e mezzo attraverso il quale ne viene attuata la reintegrazione e, prima e ancor più, l’impossibilità fisica di erogare la tutela in favore del soggetto che di quel bene era titolare, mentre disvelano la finalizzazione degli opposti orientamenti al contingente e pur encomiabile obiettivo di far conseguire più denari) ai congiunti (Cass. civ. n. 6754/2011), confermano la validità di scelte decisorie basate sulla massima emersione possibile del rapporto parentale, come bonum in sé materialmente esistente prima dell’evento lesivo, irrimediabilmente da questo leso, concretamente passibile di consolazione pecuniaria.

5. I principi qui sinteticamente riportati valgono a chiarire le ragioni della ritenuta fondatezza delle critiche formulate dagli impugnanti nei primi due motivi di ricorso.

Mette conto evidenziare che la Corte d’appello ha affermato la piena condivisivilità della liquidazione del danno morale effettuata dal giudice di prime cure, in quanto non meramente simbolica; adeguata al caso concreto, e segnatamente alla circostanza che gli appellanti potevano contare sull’appoggio di più familiari superstiti; opportunamente diversificata tra coniuge e figlio.

6. Ad avviso del collegio le argomentazioni svolte dalla Curia capitolina - che ha giustificato il giudizio di congruità delle somme attribuite ai superstiti in base a un’ipotetica vicinanza di altri, non meglio individuati familiari e alla apodittica capacità lenitiva delle connesse relazioni affettive - evidenziano la palese sottovalutazione del danno da lesione del rapporto parentale in cui è incorso il giudice di merito e conseguentemente concretano non solo un vizio motivazionale, per la complessiva inadeguatezza dell’apparato giustificativo della decisione, formulato in termini puramente assertivi e senza neppure esplicitare i parametri tabellari probabilmente applicati, ma una inemendabile violazione del disposto dell’art. 2059 cod. civ., nella portata innanzi precisata.

Il giudice di merito ha invero ignorato il principio per cui il danno da perdita del rapporto parentale deve si essere risarcito mediante il ricorso a criteri di valutazione equitativa, rimessi alla prudente discrezionalità del giudice di merito, ma esplicitando le regole di equità applicate (comb. disp. artt. 1226 e 2056 cod. civ.) e, nello specifico, tenendo conto dell’irreparabilità della perdita della comunione di vita e di affetti e della integrità della famiglia subita dai prossimi congiunti della vittima, di talché la relativa quantificazione esige un’attenta considerazione di tutte le circostanze idonee a lumeggiare la pregnanza, in concreto, dell’entità della lesione subita dai superstiti.

7. L’accoglimento dei primi due motivi di ricorso - cui consegue la cassazione della sentenza impugnata in relazione alle censure ritenute fondate e il rinvio al giudice di merito - comporta l’assorbimento del quarto mezzo, relativo al regime delle spese processuali del giudizio di appello.

8. Non hanno invece pregio le censure svolte nel terzo motivo.

La Corte territoriale ha escluso che i ricorrenti avessero subito un danno patrimoniale a seguito della morte della loro congiunta, evidenziando che il marito usufruiva di una pensione di reversibilità pari al 60% di quella goduta dalla moglie e, in ogni caso, che gli appellanti non avevano provato che l’evento luttuoso avesse determinato un peggioramento del loro tenore di vita.

9. Osserva il collegio che la prospettiva in cui si è mosso il giudice di merito è all’evidenza la qualificazione come quota sibi (e cioè come porzione del reddito che la defunta avrebbe speso per sé), della parte di pensione non devoluta ai superstiti, congruamente motivando il suo convincimento anche in relazione al contesto probatorio di riferimento. E non par dubbio che il relativo accertamento è incensurabile in sede di legittimità, se immune da vizi di motivazione. Peraltro i rilievi critici formulati dagli impugnanti sono eccentrici, rispetto alle argomentate ragioni della decisione, risolvendosi nell’incongrua denuncia dell’applicazione di un principio - quello della compensatio lucri cum damno - in realtà del tutto estraneo alla ratio decidendi della sentenza oggetto di ricorso.

9. In definitiva la decisione impugnata deve essere cassata in relazione ai primi due motivi di ricorso, con rinvio, anche per le spese di giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che, nel decidere, dovrà applicare il seguente principio di diritto: il danno da perdita del rapporto parentale conseguente alla morte di un prossimo congiunto deve essere integralmente risarcito mediante l’applicazione di criteri di valutazione equitativa, rimessi alla prudente discrezionalità del giudice di merito. Tali criteri devono tener conto dell’irreparabilità della perdita della comunione di vita e di affetti e della integrità della famiglia. La relativa quantificazione va operata considerando tutti gli elementi della fattispecie e, in caso di ricorso a valori tabellari, che vanno in ogni caso esplicitati, effettuandone la necessaria personalizzazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie i primi due motivi di ricorso; rigetta il terzo, assorbito il quarto. Cassa in relazione ai motivi accolti e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

 

da Altalex

 

Mercoledì, 18 Maggio 2011
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