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Guidatori e bevitori Per una mera casualità statistica, nel nostro Paese il numero di persone in possesso di patente di guida e il numero di coloro che consumano alcolici è lo stesso: 35,5 milioni. I guidatori causano quattromila morti all’anno, i bevitori circa trentamila. I lutti, i problemi e i danni causati da chi non è astemio sono di gran lunga maggiori di quanto non lo siano quelli dovuti ai guidatori che circolano sulla strada. Come mai per guidare ci vuole la patente e per bere no? Tutti trovano assolutamente logico che la guida di veicoli sia severamente controllata, da più parti anzi si levano richieste di inasprimento delle sanzioni. Come pure è assolutamente condiviso che la guida possa essere vietata in particolari circostanze o in seguito a specifiche infrazioni. È evidente che la possibilità di vietare o meno dei comportamenti non è per nulla in relazione alla loro concreta pericolosità. Nell’ambito delle droghe, gli alcolici sono in cima alla classifica della pericolosità, ma ne viene consigliato l’uso; i cannabinoidi, di gran lunga meno deleteri, sono vietati. I divieti dipendono dall’allarme sociale suscitato. Nel caso degli alcolici scandalosamente basso. Da questo punto di vista fare prevenzione significa attivarsi affinchè le scelte personali, politiche, culturali, giuridiche e altro siano valutate alla luce dei dati reali e non in base a pregiudizi, luoghi comuni o, peggio ancora, false informazioni. Un altro aspetto accomuna i bevitori ai guidatori: la ferma convinzione che il rischio stia in modalità di bere - o di guidare - diverse dalle proprie. Per la guida, tuttavia, questa idea è confinata tra i convincimenti personali, mentre per gli alcolici il pregiudizio è istituzionalizzato. Non esiste una chiara definizione lessicale di “guidatore buono” e di “guidatore cattivo”, al contrario per indicare chi ha problemi alcol correlati esistono diverse espressioni: alcolista, alcoldipendente, beone, ecc.. L’identificazione di un bere “cattivo” ha l’importante funzione sociale di giustificare un bere “buono”, rafforzando l’idea di normalità e di innocuità nel resto dei bevitori. Questo, ancora di più che una insufficiente informazione, è il motivo per cui bere alcolici è percepito come meno rischioso che guidare. Nei confronti degli alcolici questa sorta di autovalutazione viene ritenuta sufficiente, per guidare no. La cosa appare ancora più paradossale se consideriamo che questa fiducia viene riposta nei confronti di chi usa una sostanza che ha proprio la disinibizione e l’alterazione delle capacità critiche tra i suoi primi effetti.
Una patente per bere? Verrebbe la tentazione di proporre anche per i bevitori una sorta di patente. Sappiamo però che una simile congettura si scontrerebbe immediatamente con lo spettro del proibizionismo. Nei confronti degli alcolici, e principalmente nei confronti degli alcolici, accuse e dubbi di proibizionismo rispuntano a ogni accenno di regolamentazione. Anche molto più blanda di quanto sarebbe una provocatoria proposta di una “patente per bere”. Se la legittimazione e la condivisione sociale dei divieti non è in rapporto al rischio che si cerca di limitare, le resistenze all’introduzione di limitazioni al consumo di alcolici vanno necessariamente ricercate nella percezione e nei significati attribuiti al bere. Dato che quasi tutti si dichiarano contrari al proibizionismo, il rischio non è certo che vengano approvati provvedimenti eccessivamente restrittivi. Il problema è semmai di considerare come proibizionistici provvedimenti e iniziative che invece non lo sono. Il timore di essere proibizionisti fa rinunciare a iniziative di indubbia utilità che, se non fosse per questo pregiudizio, sarebbero accettate e condivise.
Bere alcolici è considerato un fatto privato mentre guidare no Ciò che trasforma una proibizione in proibizionismo è l’intrusione nella sfera privata delle persone. A nessuno piace ricevere indicazioni o peggio ancora controlli su aspetti della vita che considera personali. Nè tanto meno piace uno “stato-balia” che stabilisce per tutti cosa è buono e cosa è cattivo. Anche nel codice della strada, tuttavia, ci sono regole che riguardano aspetti più privati che sociali della guida. Ad esempio allacciare le cinture di sicurezza e indossare il casco sono volti a tutelare principalmente chi guida e meno gli interessi della collettività. Certo, in ultima analisi anche i danni conseguenti dal mancato rispetto di queste norme hanno un costo sociale, in termini di spese sanitarie, mancata produttività ecc., ma da questo punto di vista gli alcolici non sono certo da meno. Il 10% dei tumori e il 10% dei ricoveri ospedalieri sono alcol correlati, per limitarci a due esempi. I problemi causati dagli alcolici hanno un peso non da poco sulla collettività. Bere alcolici, in sostanza, è un fatto molto meno privato di quanto non lo sia il mettersi alla guida. Così come una parte delle vittime della strada sono non guidatori, gli alcolici non producono danni solo ai bevitori. La maggior parte degli stupri e una buona parte delle violenza è correlata dal consumo di alcolici. Producono sofferenze psicologiche e familiari difficilmente quantificabili, ma non ci sono dubbi che l’impatto degli alcolici sui non bevitori sia maggiore, come valore assoluto e forse anche percentualmente, di quanto sia quello delle vittime passive della strada. Eppure, nell’immagine comune la percezione di questo dato è quasi assente. Qualche anno fa, l’allora ministro alle Politiche agrarie Alemanno ha sostenuto (ridendo) che non esistono danni da “alcol passivo” alla stregua del fumo passivo. La scarsa visibilità dell’impatto degli alcolici sui non bevitori è uno degli ostacoli alla possibilità di limitarli. L’accettazione delle norme passa soprattutto attraverso la consapevolezza della loro utilità sociale; le intrusioni nella sfera privata suscitano reazioni di riluttanza, se non di rivalsa. L’attuale legge sul fumo che vieta di fumare nei locali pubblici, è stata la prima a essere efficace. È stata approvata e accettata soprattutto perché vissuta come una tutela dei non fumatori.
La possibilità o meno di interdire per legge attività ritenute pericolose è correlata alla presenza di strumenti legislativi o amministrativi sui quali intervenire. Sono più facilmente regolamentabili le attività che prevedono a priori permessi o licenze per essere esercitate, come appunto la guida o il possesso di armi. Ma possono esserlo anche attività diverse, come ad esempio l’assistere a eventi sportivi. Quest’ultima, infatti, può essere interdetta attraverso il Daspo (acronimo di Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive). A proposito di Daspo: nella maggior parte delle circostanze che producono questa restrizione, i tifosi sono sotto effetto di alcolici. Nonostante che da questo non si possa far discendere automaticamente che da sobri non avrebbero saputo tenere comportamenti adeguati, viene vietato loro l’accesso agli stadi e nessun limite viene posto al loro bere. Da questo punto di vista, analogamente, si può considerare curioso che a una persona sorpresa a guidare in stato di ebbrezza venga sospesa la patente, ma che nessuna restrizione diretta venga imposta al suo bere. Eppure dall’aver guidato in stato di alterazione non se ne può conseguire direttamente che l’interessato non sia in grado di guidare da sobrio. Sarebbe più logico interdire gli alcolici, non la patente. La normalità del bere Un altro aspetto degli alcolici che fomenta lo spettro del proibizionismo è la loro “normalità”, la loro scontata presenza. Se si considera naturale bere alcolici è evidente che l’idea di limitarne l’uso appare come la violazione di un diritto. Bere alcolici è una sorta di diritto naturale che si acquisisce molto presto in famiglia ed è riconosciuto e incentivato dalla società. Alcuni anni fa, di fronte ai primi timidi tentativi di informare sui rischi alcol correlati, il famoso giornalista Giorgio Bocca scrisse un articolo di fondo dal titolo: “Lasciateci bere in pace”. Fino a qualche decennio fa fumare era considerato normale, lo si faceva in tutti i locali pubblici, negli ospedali, nei dibattiti televisivi..., questa normalità induceva a ricercare ed enfatizzare i vantaggi di un uso moderato, così come oggi accade per gli alcolici. È la normalità sociale degli alcolici che produce ricerche, informazioni e convinzioni sui vantaggi del bere moderato, non il contrario. La convivenza con una sostanza ne influenza lo studio, compresa la ricerca scientifica, molto più di quanto le conoscenze e le scoperte ne influenzino l’uso. Gli alcolici stanno ripercorrendo la stessa evoluzione sociale del tabacco, con qualche decennio di ritardo. Quando l’immagine degli alcolici cambierà, l’alcol avrà la stessa considerazione che oggi attribuiamo al tabacco. In relazione anche alla possibilità di immaginare un mondo senza alcolici e di non sentirsi lesi nei propri diritti se vengono proposti provvedimenti che cercano di prevenire danni alcol correlati agli altri.
I divieti e il piacere Il principale motivo per cui vietare gli alcolici riporta all’idea del proibizionismo è che bere è un comportamento che ha a che fare con il piacere. Vietare una cosa piacevole, non solo suscita l’idea che sia una violazione della sfera privata e quindi non accettabile, ma soprattutto entra in conflitto con una sorta di tabù. L’epoca attuale è caratterizzata dal consumismo e dall’edonismo. Sia pure con i limiti e i difetti che tutti riconosciamo loro, hanno avuto il merito di liberare il piacere dal senso di colpa. Le nostre generazioni hanno sperimentato per prime una parziale emancipazione, dopo secoli di cultura repressiva nei confronti del piacere in generale e della sessualità in particolare. La cultura consumistica ci ha indirizzato a espressioni del benessere esterne a noi stessi, trasformando il fumare, il bere e il mangiare in icone del piacere. È una cultura imposta dal consumismo, ma profondamente interiorizzata. Nonostante che la maggior parte delle persone non fumi, non beva regolarmente e non sia in sovrappeso, ogni tentativo di mettere dei limiti a questi simboli viene vissuto come un attacco alla legittima aspirazione di ognuno di noi di provare piacere. È un condizionamento culturale e non deriva da dati di esperienza personale. Tant’è che è condiviso anche dalla maggior parte delle persone sobrie. Tutto ciò rafforzato da massicci investimenti pubblicitari, dalla costante presenza degli alcolici nei mezzi di informazione e in praticamente tutti gli momenti della nostra vita. Vietare gli alcolici appare quindi ai più come un tentativo di riportare il bere nell’ambito del vizio, nell’ambito cioè delle azioni associate al senso di colpa. Per superare questa remora occorre riconsiderare il monopolistico concetto di piacere che vede nel consumismo il modo principale di soddisfare i nostri bisogni. Il timore di essere proibizionisti, paradossalmente, riguarda soprattutto coloro che sono maggiormente sensibili alle problematiche alcol correlate. Provoca i suoi effetti più deleteri nell’inibire l’ideazione e la proposizione di modelli diversi di benessere. La maggior parte delle persone beve semplicemente perché lo ritiene normale e perchè ha avuto molte più occasioni di bere che di sperimentare la sobrietà. L’opportunità di conoscere modelli di comportamento alternativi è un potentissimo fattore di cambiamento. La sua efficacia è tale che si può esprimere anche in assenza di un contesto educativo. Una parte delle persone a cui è stata sospesa la patente, dopo il periodo di forzata astinenza in attesa della Commissione medica patenti, non riprende a bere, trovando più piacevole la nuova condizione di sobrietà.
Nei confronti dei divieti che riguardano gli alcolici è difficile avere un atteggiamento obiettivo, prevalgono sempre considerazioni di carattere sostanzialmente emotivo o simbolico. A questo non si sottraggono nemmeno persone che per professione o scelta dicono di riferirsi a dati scientifici. L’oncologo Veronesi, a chi gli chiedeva come mai di fronte alle evidenze scientifiche, non sconsigliasse il consumo di alcolici nella prevenzione del cancro al seno, ha risposto di essere contrario al proibizionismo. Eppure mettere in guardia dai rischi degli alcolici o sconsigliarne l’uso non ha niente a che vedere con il proibizionismo. Porre l’attenzione sulla capacità delle persone di compiere delle scelte, creare un allarme sociale, fornire informazioni, suggerire comportamenti non violano, né tanto meno limitano, la possibilità di scegliere, anzi. Anche di fronte a reali e documentati rischi, l’idea di rinunciare a qualcosa che si ritiene piacevole fa vivere come proibizionismo anche un semplice consiglio. Il dubbio che il porre in cattiva luce renda maggiormente attraente ciò che si vuole limitare è legittimo. Ma non sempre è così. È difficile immaginare che nel mettere in guardia sulla associazione alcolici/cancro al seno, le parole di un autorevole esperto provochino nella popolazione femminile un maggior desiderio di bere.
Proibire non è sempre proibizionismo Anche le persone maggiormente sensibili alle problematiche alcol correlate raramente prendono in considerazione l’idea di intervenire direttamente sul consumo di alcolici; c’è una sorta di autocensura sulla base della frettolosa considerazione che proibire sarebbe peggio. L’idea di vietare gli alcolici evoca immediatamente l’esperienza del proibizionismo americano dei primi del novecento, con le conseguenza che conosciamo. Anche se in realtà le poche e discrete proposte fatte per limitare il consumo di alcolici non hanno di certo previsto divieti totali e categorici. Non si può però considerare proibizionismo le norme che mirano a tutelare l’integrità degli altri. Altrimenti lo sarebbero anche e in toto le leggi del codice penale, del codice della strada ecc.. Come pure non si può considerare proibizionismo proporre la sobrietà. Eppure, in tutte le circostanze in cui si avanzano simili proposte, i dubbi e le accuse aleggiano sempre. Ci si priva però in questo modo di opportunità che si sono rivelate molto più efficaci di qualsiasi campagna informativa. Di fronte alla gravità ed entità dei problemi alcol correlati, occorre orientarsi verso scelte efficaci. Troppo semplicistico ricondurre qualsiasi divieto al proibizionismo, troppo riduttivo credere che il cambiamento passi solo attraverso attività educative. Iniziative direttamente finalizzate alla riduzione del consumo di alcolici e la sensibilizzazione verso il problemi alcol correlati devono andare di pari passo. Non è possibile attivare iniziative semplicemente perché lo richiedono l’epidemiologia e le statistiche, ma, nello stesso tempo, non è possiamo stare ad aspettare l’avvento di un compiuto cambiamento culturale. Per ridurre i problemi alcol correlati, vi sono misure realmente efficaci, anche se possono risultare impopolari, per cui bisogna avere il coraggio politico di metterle in atto. Per esempio, l’aumento delle imposte sulle bevande alcoliche ne farà aumentare il prezzo finale e questo sappiamo che scoraggia i consumi. Rigorosi controlli di polizia sui locali muniti di licenza di vendita, per evitare che vengano vendute bevande alcoliche ai minori di 16 anni, o a chi è già alterato dall’alcol, sono più efficaci delle campagne di informazione destinate agli stessi gestori dei locali di vendita. La riduzione della disponibilità delle bevande alcoliche, anche rispetto ai giovani, attraverso la riduzione degli orari di apertura e vendita dei locali, evitando che gli stessi locali raggiungano una densità eccessiva nei centri storici, ed impedendo in certi orari la vendita da asporto, che viene spesso praticata dai maggiorenni a favore dei minorenni. (OMS - Framework for Alcohol Policy (2005) articoli 52 e 53).
Se da un lato occorre tenere conto di tutti gli aspetti che concorrono a frenare iniziative utili alla riduzione dei problemi alcol correlati, dall’altro lato una parte importante della prevenzione alcologica consiste nell’intervenire proprio su questa nostra cultura che considera gli alcolici unicamente per i loro aspetti edonistici e individuali. Già ora, tuttavia, ci sono spazi per proporre dei limiti al consumo di alcolici senza suscitare il timore di essere proibizionisti.
* Psicologo Asti
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