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Articoli 04/01/2012

STRANIERI: IL CLANDESTINO HA DIRITTO DI SPOSARSI IN ITALIA
La Consulta: le ragioni di pubblica sicurezza degradano di fronte al diritto fondamentale alla famiglia
di Ugo Terracciano

Nessun impedimento per lo straniero clandestino che vuole sposarsi in Italia. Con sentenza n. 245/2011, la Consulta ha infatti eliminato il divieto introdotto due anni fa col “pacchetto sicurezza” nella norma del codice civile sul matrimonio dello straniero. In termini tecnici, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 116, primo comma, cod. civ., limitatamente alla parte in cui obbliga il nubendo straniero ad esibire, per far luogo alle pubblicazioni, “un documento attestante la regolarità del soggiorno in Italia”. Insomma ora, in termini pratici, si può essere considerati clandestini per le leggi di pubblica sicurezza, ma non per il codice civile. Se da un lato la polizia ti deve tradurre in frontiera, dall’altro i vigili urbani ti aprono le porte della sala più lussuosa del municipio addobbata con tanto di fiori e cuscini rossi. Lo strabismo col quale la legge tratta le due questioni può essere spiegato solo partendo da un dato di fondo: la disciplina in tema di immigrazione, in tutte le legislazioni del mondo, tenta un difficile equilibrio tra ragioni di ordine pubblico e istanze del migrante in quanto uomo. Da un lato le ragioni di sicurezza pubblica e di protezione dell’assetto socio-economico, dall’altro i diritti fondamentali di soggetti che esprimono la propria umanità prima ancora che la loro particolare posizione giuridica di non cittadino.
E’ in questo difficile bilanciamento che si giocano le motivazioni della sentenza n. 245/2011.

IL CASO: Negli ultimi giorni del luglio 2009, due giovani, lei italiana, lui cittadino marocchino, si erano presentati presso l’Ufficio dello Stato civile del Comune di Catania per chiedere le pubblicazioni di matrimonio. Le carte necessarie, una dichiarazione dell’autorità competente del proprio paese di stato libero e il nulla osta al matrimonio, erano a posto. Peccato che da qualche giorno era entrata in vigore la legge 15 luglio 2009, n. 94 la quale, modificando l’art. 116 del codice civile (intitolato: matrimonio dello straniero), aveva aggiunto, al novero delle carte necessarie, un documento attestante la regolarità del soggiorno in Italia. La celebrazione era fissata per il 28 agosto, ma il giorno 31 successivo l’Ufficiale dello Stato civile dava ai nubendi la comunicazione ufficiale che non era stato possibile celebrare il matrimonio per la mancanza proprio dell’ultimo documento citato, dal quale si sarebbe dovuto desumere che la posizione dello straniero fosse regolare.

LA QUESTIONE:  Essendo in discussione il diritto a formare una famiglia e trattandosi di una faccenda che attiene alle prerogative fondamentali della persona, la coppia ha fatto ricorso al Tribunale, che ha sospeso il giudizio per il sospetto di incostituzionalità della nuova disciplina. Secondo il giudice, la norma modificata dalla legge 94/2009, violava gli artt. 2 (diritti inviolabili dell’uomo), 3 (eguaglianza), 29 (diritti della famiglia), 31 (famiglia) e 117 (potestà legislativa) della Costituzione.
Secondo il Tribunale, la nuova formulazione dell’art. 116 cod. civ. ledeva il riconoscimento dei diritti inviolabili della persona come singolo individuo e nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità; violava la regola di ragionevolezza delle norme con inevitabile riflesso sul principio di uguaglianza; contrastava con la prerogativa fondamentale a contrarre liberamente matrimonio e col diritto di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi sui quali è ordinato il sistema del matrimonio nel vigente ordinamento giuridico; interponeva un serio ostacolo al diritto dell’altro coniuge (quello italiano) a contrarre il matrimonio. Inoltre, la potestà legislativa, tanto statuale che regionale, deve uniformarsi alla normativa comunitarie ed agli strumenti internazionali. In questo caso, la norma cozzava con la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, con la convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, con la Carta di Nizza e con il Trattato di Lisbona. Tutte queste convenzioni internazionali ricomprendono, infatti, la libertà matrimoniale tra quei diritti e libertà che devono essere assicurati, senza distinzione di sorta, anche se sono le leggi nazionali a dover disciplinare l’esercizio di questa prerogativa.
Il quadro prospettato dal Tribunale è dunque il seguente: le leggi internazionali, che inevitabilmente vincolano quelle nazionali, pongono il matrimonio tra i diritti dell’uomo. La nuova formulazione dell’art. 116 cod. civ. fa degradare questo diritto di fronte a prevalenti ragioni di ordine e sicurezza pubblica. Questo bilanciamento appare però in contrasto con una serie di principi costituzionali dai quali si desumerebbe, invece,  la prevalenza del diritto a costituire una famiglia.

LE RAGIONI DELLA MODIFICA APPORTATA DALLA LEGGE 94/2011: Con la libertà di contrarre matrimonio, le modifiche apportate al codice civile dalla legge 94/2009, hanno a che fare solo di riflesso. L’intento dichiarato della legge (pacchetto sicurezza) era quello di contrastare i “matrimoni di comodo”, ovvero la scorciatoia, per lo straniero clandestino di conseguire l’inespellibilità sulla scorta di un’unione “di paglia”. Una norma di pubblica sicurezza, insomma, incastrata un po’ a forza nel codice dei rapporti civili. C’è da chiedersi perché il testo originario dell’art. 116, scritto in epoca di totalitarismo non contenesse già una simile limitazione, ma la risposta è chiara: col controllo applicato allora allo straniero, l’ipotesi che un clandestino giungesse al cospetto del Podestà era inconcepibile e velleitaria. Quindi, inutile affermare un principio così aleatorio, per l’epoca.
    C’è anche da dire che la modifica di cui trattasi non costituiva, nel disegno del pacchetto sicurezza, un’interpolazione spuria, ma piuttosto una norma coordinata con altre modifiche apportate al testo unico sull’immigrazione. Per esempio, si poneva in perfetto coordinamento col novellato art. 6, comma 2 del d.lgs. 286/1998 che prevede, in via generale, l’obbligo di esibizione della documentazione di soggiorno per gli atti dello stato civile. La nuova formulazione del secondo comma, dopo le modifiche della legge 94/2009, recita: “Fatta eccezione per i provvedimenti riguardanti attività sportive e ricreative a carattere  temporaneo, per quelli inerenti all’accesso alle prestazioni sanitarie di cui all’art. 35 (stranieri non iscritti al SSN e quindi irregolari sul territorio) e per quelli attinenti alle prestazioni scolastiche obbligatorie, i documenti inerenti al soggiorno di cui all’art. 5, comma 8, devono essere esibiti agli uffici della pubblica amministrazione ai fini del rilascio delle licenze, autorizzazioni, iscrizioni ed altri provvedimenti di interesse dello straniero comunque denominati”. Si deve ritenere che il legislatore, prevedendo espressamente i settori nei quali l’obbligo di esibire il titolo di soggiorno è obbligatorio, abbia inteso circoscrivere la discrezionalità amministrativa.
    In verità la ratio delle esclusioni dell’obbligo, risulta piuttosto evidente se ci soffermiamo sull’accesso a prestazioni sanitarie o scolastiche, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti a chiunque. In fase di approvazione della legge si era particolarmente discusso sull’obbligo del medico di segnalare la condizione di clandestinità del proprio assistito, che sarebbe certamente derivato dalla previsione del correlativo onere dello straniero di dimostrare la titolarità del permesso. La nuova previsione, invece, si coordina, con il testo già vigente dell’art. 35, comma 5, TU il quale prevede il divieto di segnalazione alle autorità, da parte dei medici o sanitari in genere, dei casi di assistenza prestata a stranieri irregolari. Ovviamente è fatto salvo l’obbligo di referto ai sensi dell’art. 365 c.p. a parità di condizioni con il cittadino italiano.
    Vanno altresì richiamati, a questo proposito, i chiarimenti pervenuti, dopo la modifica legislativa, dal Ministero dell’Interno - Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione, che con circolare n. 12 del 27 novembre 2009, ha sostanzialmente sottolineato la piena vigenza dell’art. 35, comma 5, citato. In particolare, il Dicastero, stabilisce: «Occorre infine chiarire, anche alla luce delle modifiche introdotte dall’art. 1 comma 22 lettera g) della legge n. 94/2009, relative alla esibizione dei documenti inerenti al soggiorno per l’accesso a prestazioni della pubblica amministrazione, che non è richiesta l’esibizione di tali documenti per le prestazioni di cui all’art. 35, cit., come espressamente previsto dall’art. 6, comma 2, del d.lgs 286/1998 e successive modificazioni».
    Si noti, tuttavia, che nel novero delle esclusioni rientrano anche le temporanee attività sportive e ricreative, la cui previsione non fa capo alla stessa ratio di cui dicevamo.
Si è posta la questione degli effetti della nuova previsione in ordine alla questione delle iscrizioni delle nascite nei registri dello stato civile, paventando la possibilità di irregolarità dovute all’impossibilità dello straniero di esibire il titolo di soggiorno all’atto dell’iscrizione. In realtà, la regola non vale per lo svolgimento delle attività riguardanti le dichiarazioni di nascita e di riconoscimento di filiazione (registro di nascita dello stato civile). Infatti, per tali pratiche non devono essere esibiti i documenti inerenti al soggiorno trattandosi di dichiarazioni rese, anche a tutela del minore, nell’interesse pubblico della certezza delle situazioni di fatto.
In sostanza, l’atto dello stato civile ha natura diversa e non assimilabile a quella dei provvedimenti (licenze, autorizzazioni, iscrizioni ed altri provvedimenti di interesse dello straniero comunque denominati), menzionati dall’art. 6 TU, nuova formulazione.
Certo, bastava questo, a depotenziare la novella dell’art. 116, comma 2, che nella nuova formulazione dettava una speciale e diversa, ma forse non del tutto razionale, disciplina per le dichiarazioni inerenti il matrimonio.

LA VECCHIA E LA NUOVA FORMULAZIONE DELL’ART. 116 COD. CIV. A CONFRONTO:
Prima della modifica, lo straniero, intenzionato a contrarre matrimonio in Italia, doveva presentare all’ufficiale dello stato civile solo un nulla osta rilasciato dall’autorità competente del proprio Paese. Oltre al predetto requisito formale, sul piano sostanziale, il nubendo doveva in ogni caso (e deve tuttora) rispettare le condizioni previste dalla normativa italiana riguardanti la capacità di contrarre matrimonio (tra l’altro, libertà di stato, età minima) e l’assenza di situazioni personali ostative (ad esempio, impedimenti per parentela ed affinità). Si tratta, infatti, di norme di applicazione necessaria secondo l’ordinamento interno, che devono comunque essere osservate, anche se non sono previste dalla legge nazionale dello straniero.
La nuova formulazione ha stabilito, in più l’obbligo di «presentare un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano».  Si tratta di una novella che va letta anche alla luce delle modifiche introdotte dal legislatore in merito ai requisiti necessari per l’acquisto della cittadinanza a seguito di matrimonio dello straniero con il cittadino italiano, disciplinati dalla legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza). Sempre al fine di ridurre il fenomeno dei cosiddetti “matrimoni di comodo”, la legge 94/2009 ha sostituito l’art. 5 della predetta legge n. 91 del 1992, prevedendo, al comma 1, che «il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano può acquistare la cittadinanza italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero, qualora», al momento dell’adozione del decreto di acquisto della cittadinanza, «non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi». I termini sono, peraltro, «ridotti della metà in presenza di figli nati o adottati dai coniugi».


UN DIFFICILE BILANCIAMENTO TRA SICUREZZA E DIRITTI DELLA PERSONA: Certo, la libertà di contrarre matrimonio attiene ad una sfera individuale del singolo sulla quale, in linea di massima, lo Stato non dovrebbe interferire. Ma – domanda - non è forse legittimo un intervento restrittivo se a quello del singolo si oppongono incompatibili interessi collettivi come quello alla sicurezza e all’ordine pubblico?
Lo status di clandestino non induce certo ad una valutazione positiva, sul piano del rispetto delle norme di pubblica sicurezza.
Insomma, posti i due interessi sulla bilancia, il piatto della protezione collettiva (ordine pubblico) pesa di più oppure di meno del diritto di farsi una famiglia? Quanto, incide, infine, come contrappeso, la normativa internazionale che pure lascia al legislatore di limitare il diritto al matrimonio, in vista della tutela di valori «evidentemente ritenuti di rango superiore»?

LA DECISIONE DELLA CONSULTA: Il nodo essenziale che la Corte si è trovata a dover sciogliere riguarda l’estensione del potere discrezionale del legislatore nel limitare il diritto al matrimonio, rispetto a ragioni di pubblica sicurezza.  Possiamo dire già qui, prima di esaminare a fondo la questione, che la decisione riguarda, da un lato, la proporzionalità della scelta limitativa, dall’altro il peso che, un diritto come quello matrimoniale, assume nella legislazione internazionale cui l’Italia è vincolata.
•    La Giurisprudenza costituzionale: A sostegno dell’esistenza di un’ampia discrezionalità legislativa, con la sentenza n. 250 del 2010, la stessa Corte Costituzionale, nel riconoscere al legislatore la discrezionalità di definire quali condotte costituiscano o meno fatti aventi rilevanza penale, sembra aver «affermato la sussistenza di una discrezionalità del legislatore nel qualificare la situazione di “clandestinità” come rilevante in punto di tutela dell’ordine pubblico».
Pertanto, la necessità di un controllo giuridico dell’immigrazione, in vista della tutela di valori costituzionali – ordine pubblico, sovranità territoriale, rispetto di obblighi internazionali – potrebbe giustificare e legittimare un bilanciamento di valori, tutti di rango costituzionale, tale per cui la “clandestinità” è qualificata situazione ostativa al matrimonio, in ragione di esigenze di ordine pubblico, di difesa dei confini e di controllo del flusso migratorio.
Sempre in un recente passato la Corte (sentenze n. 61 del 2011, n. 187 del 2010 e n. 306 del 2008) ha affermato che al legislatore italiano è certamente consentito dettare norme, non palesemente irragionevoli e non contrastanti con obblighi internazionali, che regolino l’ingresso e la permanenza di stranieri extracomunitari in Italia.
Già con sentenza n. 62 del 1994, la Consulta, aveva affermato che la basilare differenza esistente tra il cittadino e lo straniero – consistente nella circostanza che, mentre il primo ha con lo Stato un apporto di solito originario e comunque permanente, il secondo ne ha uno acquisito e generalmente temporaneo – può «giustificare un loro diverso trattamento»  nel godimento di certi diritti, consentendo l’assoggettamento dello straniero «a discipline legislative e amministrative» ad hoc, l’individuazione delle quali resta «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici», quali quelli concernenti «la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione». Tuttavia, resta pur sempre fermo – come la Corte Costituzionale ha di recente nuovamente precisato con sentenza n. 249 del 2010 – che i diritti inviolabili, di cui all’art. 2 Cost., spettano «ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani», di talché la «condizione giuridica dello straniero non deve essere pertanto considerata – per quanto riguarda la tutela di tali diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi»

•    La sproporzionata limitazione del diritto di sposarsi: Le norme restrittive, devono costituire pur sempre il risultato di un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale, implicati dalle scelte legislative in materia di disciplina dell’immigrazione, specialmente quando esse siano suscettibili di incidere sul godimento di diritti fondamentali, tra i quali certamente rientra quello «di contrarre matrimonio, discendente dagli articoli 2 e 29 della Costituzione, ed espressamente enunciato nell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e nell’articolo 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (v. sentenza n. 445 del 2002).
La chiave di lettura della norma di cui all’art. 116 cod. civ. , per stabilirne la legittimità costituzionale è dunque quella della “proporzionalità” con cui il diritto al matrimonio viene compresso dall’espansione di quello di tutelare l’ordine pubblico.
La ratio della disposizione censurata – proprio alla luce della ricostruzione che ne ha evidenziato il collegamento con le nuove norme sull’acquisto della cittadinanza e, dunque, la loro comune finalizzazione al contrasto dei cosiddetti “matrimoni di comodo” – può essere effettivamente rinvenuta nella necessità di «garantire il presidio e la tutela delle frontiere ed il controllo dei flussi migratori». Ma la domanda è: si può ritenere proporzionato a tale obiettivo il sacrificio imposto – dal novellato testo dell’art. 116, primo comma, cod. civ. – alla libertà di contrarre matrimonio non solo degli stranieri ma, in definitiva, anche dei cittadini italiani che intendano coniugarsi con i primi?
È evidente che la limitazione al diritto dello straniero a contrarre matrimonio nel nostro Paese si traduce anche in una compressione del corrispondente diritto del cittadino o della cittadina italiana che tale diritto intende esercitare. Ciò comporta che il bilanciamento tra i vari interessi di rilievo costituzionale coinvolti deve necessariamente tenere anche conto della posizione giuridica di chi intende, del tutto legittimamente, contrarre matrimonio con lo straniero.
Pertanto, la previsione di una generale preclusione alla celebrazione delle nozze, allorché uno dei nubendi risulti uno straniero clandestino, rappresenta uno strumento non idoneo ad assicurare un ragionevole e proporzionato bilanciamento dei diversi interessi coinvolti, considerato che il testo unico sull’immigrazione (d.lgs. 286/1998), già disciplina alcuni istituti volti a contrastare i cosiddetti “matrimoni di comodo”.
In particolare, l’art. 30, comma 1-bis, del citato d.lgs. n. 286 del 1998 prevede: con riguardo agli stranieri regolarmente soggiornanti ad altro titolo da almeno un anno che abbiano contratto matrimonio nel territorio dello Stato con cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione europea, ovvero con cittadini stranieri regolarmente soggiornanti, che il permesso di soggiorno «è immediatamente revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è seguita l’effettiva convivenza salvo che dal matrimonio sia nata prole».  Con riguardo, poi, allo straniero che ha fatto ingresso in Italia con visto di ingresso
per ricongiungimento familiare, ovvero con visto di ingresso al seguito del proprio familiare nei casi previsti dall’articolo 29, del medesimo d.lgs., ovvero con visto di ingresso per ricongiungimento al figlio minore, che la richiesta di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno «è rigettata e il permesso di soggiorno è revocato se è accertato che il matrimonio o l’adozione hanno avuto luogo allo scopo esclusivo di permettere all’interessato di soggiornare nel territorio dello Stato».

La giurisprudenza della Corte Europea:  la Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 14 dicembre 2010 (O’Donoghue and Others v.The United Kingdom) è recentemente intervenuta sulla normativa del Regno Unito in tema di capacità matrimoniale degli stranieri. Nel decidere la causa ha affermato che il margine di apprezzamento riservato agli Stati non può estendersi fino al punto di introdurre una limitazione generale, automatica e indiscriminata, ad un diritto fondamentale garantito dalla Convenzione. Secondo i giudici di Strasburgo, pertanto, la previsione di un divieto generale, senza che sia prevista alcuna indagine riguardo alla genuinità del matrimonio, è lesiva del diritto di cui all’art. 12 della Convenzione.
Ora, l’art. 177 Cost. impone allo Stato italiano di armonizzare le proprie norme ai principi dettati a livello comunitario ed internazionale. Il legislatore, nel modificare l’art. 116 c.c. – lungi dal rendere più agevole le condizioni per l’accertamento del carattere eventualmente “di comodo” del matrimonio di un cittadino con uno straniero – ha dato vita ad una generale preclusione a contrarre matrimonio a carico di stranieri extracomunitari non regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato. E questa è una patente violazione di quell’obbligo di armonizzarsi con gli strumenti internazionali che l’art. 117 Cost. impone.

ELIMINATO IL DIVIETO DI MATRIMONIO DELLO STRANIERO CLANDESTINO, RESTA UN PROBLEMA DI COORDINAMENTO DI NORME: Salva la prerogativa dello straniero di sposarsi in Italia, non viene certo meno l’impianto del “pacchetto sicurezza”.
Ora, la legge 125/2008 (che potremmo definire “prima parte del pacchetto sicurezza”), nella logica di allargare il campo del controllo, ha dato un compito anche al Sindaco nell’azione di contrasto dell’immigrazione clandestina.
A questo proposito ha introdotto, nell’art. 54 Testo Unico Enti Locali, il comma 5-bis. che prescrive: «Il sindaco segnala alle competenti autorità, giudiziaria o di pubblica sicurezza, la condizione irregolare dello straniero o del cittadino appartenente ad uno Stato membro dell’Unione europea, per la eventuale adozione di provvedimenti di espulsione o di allontanamento dal territorio dello Stato».
Quindi cosa succede se, presso l’Ufficio dello Stato Civile si presenta uno straniero dichiaratamente clandestino? E’ evidente che le pubblicazioni di matrimonio non possono essere negate, ma il sindaco dovrà segnalare al Prefetto lo stato di clandestinità dello straniero. E’ appena il caso di osservare che, è lo stesso art. 54 D.lgs. 267/2000 (TUEL) ad attribuire al sindaco le funzioni di Stato Civile.
Inoltre, la stessa legge 94/2009 ha “penalizzato” lo stato di clandestinità dello straniero. Quindi, in forza dell’art. 10 bis del testo unico sull’immigrazione, lo straniero che entra e si trattiene in Italia senza un regolare permesso va processato. Ma chi deve denuncialo per tale reato? Certamente gli organi di polizia e su questo non ci piove, ma il codice di procedura penale, all’art. 331, impone l’obbligo di denuncia a qualsiasi pubblico ufficiale, che riscontri un reato nell’esercizio delle proprie funzioni. Sta di fatto, che tanto il sindaco che l’ufficiale dello stato civile da lui nominato siano pubblici ufficiali e su di loro, quindi grava quest’obbligo.
In definitiva, seppure la Corte Costituzionale abbia eliminato l’obbligo per lo straniero nubendo di esibire i documenti di soggiorno, resta il fatto che appurato in concreto il suo stato di clandestinità restano gli obblighi di segnalazione e denuncia.
Insomma, non è detto che fatte le pubblicazioni, il matrimonio si celebrerà.

 

* Funzionario della Polizia di Stato e
Docente di Politiche della Sicurezza
Presso l’Università di Bologna

Mercoledì, 04 Gennaio 2012
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