Immigrazione clandestina e custodia cautelare: l'intervento della Consulta
Con la sentenza 12-16 dicembre 2011, n. 331 la Corte Costituzionale ritorna nuovamente sul portato dell’art. 275 comma 3 c.p.p., dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4bis, Dlgs. n. 286/1998, aggiunto dall’art. 1 comma 26 lettera f) Legge n. 94/2009 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma 3 del medesimo articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Com’è noto, l’art. 275 comma 2 c.p.p. prevede, in ossequio ai principi di uguaglianza, responsabilità penale personale, offensività, proporzionalità e finalità rieducativa delle pene, che ogni misura [cautelare] deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata. Ai sensi del successivo comma 3, poi, a misura coercitiva della custodia in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata.
Spetta, pertanto, al giudice valutare caso per caso quale sia la risposta latu sensu sanzionatoria più opportuna, fermi restando, ovviamente, i presupposti di carattere generale di cui all’art. 273 c.p.p. e le esigenze cautelari ex art. 274 c.p.p..
Al principio del “minor sacrificio necessario”, il legislatore ha previsto delle deroghe.
Deroghe che non hanno fatto parte della norma sin dalla sua genesi, ma sono state piuttosto il frutto di interventi emergenziali successivi, con i quali il governo ha tentato di rispondere alla recrudescenza di alcuni reati di grave allarme sociale, dotati di una potente carica di offensività dei valori tutelati dal nostro ordinamento giuridico.
Con riferimento a tali fattispecie criminose, per far fronte alla richiesta di una maggiore e migliore difesa sociale, il legislatore ha ritenuto di dover incidere sulla disciplina delle misure cautelari, prevedendo ex lege l’idoneità sic et simpliciter della custodia in carcere, a prescindere da una verifica in concreto delle esigenze cautelari, sulla base dei soli gravi indizi di reato.
Con una sostanziale inversione dell’onere probatorio, quindi, non si faceva gravare più sul pm la prova delle esigenze cautelari, ma si attribuiva all’indagato/imputato l’onere di dimostrare l’inesistenza delle stesse, qualora vi fosse il fumus boni iuris in ordine alla commissione di un fatto di reato ed alla responsabilità penale dello stesso nella sua verificazione (gravi indizi di reato).
L’ampliamento eccessivo dei reati assoggettati alla disciplina speciale, tuttavia, fece emergere le implicazioni negative in termini di favor libertatis, incompatibili con i principi della Carta costituzionale. Sicché, in controtendenza rispetto al passato, nel 1995, con la L. n. 332, la disciplina speciale fu drasticamente contenuta, limitandola alla sola ipotesi di reato di cui all’art. 416bis c.p.c.: quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’art. 51 commi 3bis e 3quater è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari.
A distanza di circa 14 anni, nell’ottica di una più severa repressione dei delitti contro la libertà e l’incolumità personale, ancora una volta sulla base di una situazione assertivamente emergenziale, il governo interviene di nuovo sul portato dell’art. 275 comma 3 c.p.p.. Il DL n. 11/2009, convertito con modifiche dalla L. 38/2009 - recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori -, affianca alle ipotesi di cui all’art. 51 citato quelle di cui agli artt. 575, 600bis, comma 1, 600-ter, escluso il comma 4, nonché quelli di cui agli artt. 600quinquies, 609bis, 609quater e 609octies c.p., salvo che ricorrano le circostanze attenuanti dagli stessi contemplate.
Con la L. n. 94/2009 – Disposizioni in materia di sicurezza pubblica -, poi, si è estesa la deroga anche ai reati di cui all’art. 12, comma 3, D.lgs. n. 286/1998. In questa occasione, tuttavia, anziché procedere ad un nuovo ampliamento dell’elenco del comma 3 dell’art. 275 c.p.p., il legislatore ha preferito introdurre tale eccezione nel corpo dell’art. 12, comma 4bis, D.lgs. n. 286/1998: quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma 3 del medesimo articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari.
Con la sentenza n. 265/2010, la Consulta dà avvio ad una serie di pronunce che delimitano l’ambito di operatività delle deroghe al principio del “minor sacrificio necessario”, riaffermando la extrema ratio della custodia cautelare in carcere. In questa occasione, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo c.p.p., come modificato dall’art. 2, D.L. 23 febbraio 2009, n. 11 convertito con modificazioni in legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600bis, comma 1, 609bis e 609quater c.p., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. I giudici costituzionali avevano ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale della norma per violazione degli artt. 3, 13 comma 1 e 27 comma 2 Cost.:
• l’applicazione delle misure cautelari non può essere legittimata in alcun caso esclusivamente da un giudizio anticipato di colpevolezza, né corrispondere – direttamente o indirettamente – a finalità proprie della sanzione penale, né, ancora e correlativamente, restare indifferente ad un preciso scopo (cosiddetto “vuoto dei fini”). Il legislatore ordinario è infatti tenuto, nella tipizzazione dei casi e dei modi di privazione della libertà, ad individuare esigenze diverse da quelle di anticipazione della pena e che debbano essere soddisfatte – entro tempi predeterminati durante il corso del procedimento stesso, tali da giustificare, nel bilanciamento di interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà personale di chi non è stato ancora giudicato colpevole in via definitiva;
• la disciplina della materia [deve] essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario” (sentenza n. 299 del 2005): la compressione della libertà personale dell’indagato o dell’imputato va contenuta, cioè, entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari riconoscibili nel caso concreto;
• il ricorso alle forme di restrizione più intense – e particolarmente a quella “massima” della custodia carceraria – deve ritenersi consentito solo quando le esigenze processuali o extraprocessuali, cui il trattamento cautelare è servente, non possano essere soddisfatte tramite misure di minore incisività. (…) Il criterio del “minore sacrificio necessario” impegna, dunque, in linea di massima, il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma alternativa di misure, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale; dall’altra, a prefigurare meccanismi “individualizzati” di selezione del trattamento cautelare, parametrati sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete.
Lo scopo, avevano sottolineato i giudici delle leggi, è quello di evitare automatismi o presunzioni e, alla stregua dei ricordati principi di adeguatezza, proporzionalità e minor sacrificio, di realizzare una piena “individualizzazione” della coercizione cautelare. Le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit». In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa. Alla luce di ciò, avevano concluso che alle figure criminose di cui agli artt. 600bis, comma 1, 609bis e 609quater c.p non potesse estendersi la ratio già ritenuta, dalla stessa Corte Costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, idonea a giustificare la deroga alla disciplina ordinaria quanto ai procedimenti relativi a delitti di mafia in senso stretto: dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche – connesse alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice – deriva, nella generalità dei casi concreti ad essa riferibili e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità).
Per quanto odiosi e riprovevoli, i fatti che integrano i delitti in questione ben possono essere e in effetti spesso sono meramente individuali, e tali, per le loro connotazioni, da non postulare esigenze cautelari affrontabili solo e rigidamente con la massima misura. Altrettanto può dirsi per quei fatti che si manifestano all’interno di specifici contesti (ad esempio, quello familiare o scolastico o di particolari comunità), in relazione ai quali le esigenze cautelari possono trovare risposta in misure diverse dalla custodia carceraria e che già il legislatore ha previsto, proprio in via specifica, costituite dall’esclusione coatta in vario modo e misura dal contesto medesimo: gli arresti domiciliari in luogo diverso dalla abitazione del soggetto (art. 284 cod. proc. pen.), eventualmente accompagnati anche da particolari strumenti di controllo (quale il cosiddetto braccialetto elettronico: art. 275-bis), l’obbligo o il divieto di dimora o anche solo di accesso in determinati luoghi (art. 283), l’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis, ove al comma 6 sono specificamente evocati anche i casi in cui si proceda per taluno dei delitti a sfondo sessuale qui in esame).
La ragionevolezza della soluzione normativa scrutinata non può essere dedotta dalla sola gravità astratta del reato. D’altro canto, precisa la Corte, la eliminazione o riduzione dell’allarme sociale cagionato dal reato del quale l’imputato è accusato, o dal diffondersi di reati dello stesso tipo, o dalla situazione generale nel campo della criminalità più odiosa o più pericolosa, non può essere peraltro annoverata tra le finalità della custodia preventiva e non può essere considerata una sua funzione. La funzione di rimuovere l’allarme sociale cagionato dal reato (e meglio che allarme sociale si direbbe qui pericolo sociale e danno sociale) è una funzione istituzionale della pena perché presuppone, ovviamente, la certezza circa il responsabile del delitto che ha provocato l’allarme e la reazione della società. Non è dubitabile, in effetti, che il legislatore possa e debba rendersi interprete dell’acuirsi del sentimento di riprovazione sociale verso determinate forme di criminalità, avvertite dalla generalità dei cittadini come particolarmente odiose e pericolose, quali indiscutibilmente sono quelle considerate. Ma a tale fine deve servirsi degli strumenti appropriati, costituiti dalla comminatoria di pene adeguate, da infliggere all’esito di processi rapidi a chi sia stato riconosciuto responsabile di quei reati; non già da una indebita anticipazione di queste prima di un giudizio di colpevolezza.
Ad analoghe declaratorie di incostituzionalità della idoneità presunta della custodia cautelare in carcere la Corte è giunta con le sentenze n. 164/2011, in relazione al reato di omicidio, e n. 31/2011 con riferimento a quello di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope.
Ultima, in ordine di tempo, la sentenza in epigrafe, che si inserisce a pieno nel solco tracciato dalla sentenza n. 265/2010 e dalle altri successive indicate. Anche nella sentenza n. 331/2011, la Corte Costituzionale ritiene che le norme censurate violino il principio del “minor sacrificio necessario” in maniera irragionevole: pur essendo indubbie gravità e riprovevolezza, le esigenze cautelari ad essi correlate possono essere adeguatamente fronteggiabili con misure diverse e meno afflittive di quella carceraria. In ragione di ciò, la previsione di legge risulta in contrasto con gli artt. 3,13 e 27 cost..
Il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è un reato a consumazione anticipata, che si perfeziona con il solo compimento di atti diretti a procurare l’ingresso illegale di stranieri nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente. Dal paradigma legale tipico esula, in ogni caso, il necessario collegamento dell’agente con una struttura associativa permanente. Il reato può bene costituire frutto di iniziativa meramente individuale quando pure risulti ascrivibile a una pluralità di persone, il fatto può comunque mantenere un carattere puramente episodico od occasionale e basarsi su una organizzazione rudimentale di mezzi. (…) In sostanza, dunque, le fattispecie criminose cui la presunzione in esame è riferita possono assumere le più disparate connotazioni: dal fatto ascrivibile ad un sodalizio internazionale, rigidamente strutturato e dotato di ingenti mezzi, che specula abitualmente sulle condizioni di bisogno dei migranti, senza farsi scrupolo di esporli a pericolo di vita; all’illecito commesso una tantum da singoli individui o gruppi di individui, che agiscono per le più varie motivazioni, anche semplicemente solidaristiche in rapporto ai loro particolari legami con i migranti agevolati, essendo il fine di profitto previsto dalla legge come mera circostanza aggravante. L’eterogeneità delle fattispecie concrete riferibili al paradigma punitivo astratto non consente, dunque, di enucleare una regola generale, ricollegabile ragionevolmente a tutte le «connotazioni criminologiche» del fenomeno, secondo la quale la custodia cautelare in carcere sarebbe l’unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari. (…) Ciò che vulnera i valori costituzionali non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del «minore sacrificio necessario». Di contro, la previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria – atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario – non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso.
Il comma 4bis dall’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998 va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma 3, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
(Nota di Antonia Quartarella)
Corte Costituzionale
Sentenza 16 dicembre 2011, n. 331
SENTENZA N. 331
ANNO 2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 26, lettera f), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promosso dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di E.S.A.K.M.F. ed altri con ordinanza del 27 aprile 2011, iscritta al n. 169 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 novembre 2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza depositata il 27 aprile 2011, la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 26, lettera f), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma 3 del medesimo articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
La Corte rimettente riferisce che, con ordinanza del 3 novembre 2010, il Tribunale di Roma, in funzione di giudice distrettuale del riesame, aveva confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Latina nei confronti di cinque cittadini egiziani, da tempo residenti Italia. Agli indagati era contestato il delitto di cui all’art. 12, comma 3, lettere a), b) e d), del d.lgs. n. 286 del 1998, per aver compiuto, tra il 3 e il 4 ottobre 2010, atti diretti a procurare illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato di alcuni stranieri, giunti con un peschereccio davanti alla costa di Borgo Grappa, trasportandoli a terra con un gommone e conducendoli presso un’abitazione sita in Anzio. Si trattava, cioè, «della ipotesi autonoma del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, aggravata in relazione al numero dei migranti trasportati, alle condizioni di pericolo in cui si è svolto il trasporto e al numero dei concorrenti nel reato».
Ravvisati, a carico degli indagati, i gravi indizi di colpevolezza, il Tribunale del riesame rilevava come – non essendo stati acquisiti elementi dai quali evincere l’insussistenza di esigenze cautelari – risultasse operante, nella specie, la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia carceraria, stabilita dall’art. 12, comma 4-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, che privava il giudice di ogni discrezionalità nella scelta della misura cautelare applicabile.
Avverso la decisione proponevano ricorso per cassazione gli indagati, reiterando l’eccezione di illegittimità costituzionale del citato art. 12, comma 4-bis, già disattesa dal Tribunale. I ricorrenti formulavano, altresì, motivi volti a denunciare un preteso profilo di nullità dell’ordinanza impugnata, nonché la carenza di motivazione della medesima in ordine alla sussistenza delle condizioni di cui agli artt. 273 e 274 del codice di procedura penale.
Ad avviso della Corte rimettente, mentre i motivi da ultimo indicati non potrebbero essere accolti, la questione di legittimità costituzionale risulterebbe rilevante e non manifestamente infondata.
Quanto alla rilevanza, il giudice a quo osserva come, nei motivi di ricorso, si sostenga – «non senza fondamento» – che il fatto non è stato commesso nell’ambito di una struttura criminale organizzata avente caratteristiche di stampo mafioso: circostanza che emergerebbe, in effetti, dallo stesso provvedimento impugnato, nel quale si riconosce come «la rudimentale organizzazione delle attività di collaborazione poste in essere da ciascuno degli indagati deponga per una condotta episodica e, in sostanza, di non peculiare gravità». D’altra parte, fin dall’inizio del procedimento, lo stesso pubblico ministero aveva ritenuto di dover distinguere la posizione di almeno uno degli indagati, chiedendo che al medesimo fosse applicata la misura degli arresti domiciliari: istanza non accolta dal giudice – che pure, di regola, non può disporre una misura più afflittiva di quella richiesta dal pubblico ministero – solo in ragione della previsione limitativa contenuta nella norma denunciata.
Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo rileva come questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Ad avviso del giudice a quo, le medesime considerazioni poste a base di tale pronuncia – sinteticamente ripercorse nell’ordinanza di rimessione – varrebbero anche in rapporto all’omologa previsione della norma censurata. In particolare, allo stesso modo dei delitti a sfondo sessuale oggetto della citata sentenza n. 265 del 2010, neppure i delitti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina potrebbero essere assimilati, sotto il profilo che interessa, ai delitti di mafia, in rapporto ai quali questa Corte (con l’ordinanza n. 450 del 1995) ha ritenuto giustificabile la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere. Il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina – consistente nel compimento di atti diretti a procurare l’ingresso illegale di stranieri nel territorio dello Stato – è, infatti, un delitto che, pure nelle ipotesi aggravate, può essere compiuto anche occasionalmente, con condotte individuali fortemente differenziate tra loro e al di fuori di una struttura criminale organizzata.
In questa prospettiva, la norma censurata violerebbe sia l’art. 3 Cost., sottoponendo irrazionalmente i delitti in questione al medesimo trattamento cautelare previsto per i delitti di mafia; sia l’art. 13, primo comma, Cost., introducendo una deroga al regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale senza una adeguata ragione giustificatrice; sia, infine, l’art. 27, secondo comma, Cost., attribuendo alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena, in contrasto con la presunzione di non colpevolezza dell’imputato prima della condanna definitiva.
2.– È intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
La difesa dello Stato rileva che è ben vero che questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, ha dichiarato costituzionalmente illegittima, con riferimento a taluni delitti a sfondo sessuale, l’analoga disposizione dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.: declaratoria di illegittimità costituzionale successivamente estesa dalla sentenza n. 164 del 2011 anche al delitto di omicidio volontario (art. 575 cod. pen.).
In precedenza, tuttavia, la Corte, con l’ordinanza n. 450 del 1995, aveva escluso che la presunzione sancita dal citato art. 275, comma 3, cod. proc. pen. potesse ritenersi costituzionalmente illegittima in riferimento ai delitti di mafia, tenuto conto della specificità degli stessi, caratterizzati dalla permanenza e dalla «vischiosità» del rapporto del reo con il sodalizio criminoso di appartenenza. Nell’occasione, la Corte aveva specificamente affermato che, mentre l’apprezzamento delle esigenze cautelari («l’an della cautela») deve essere lasciato al giudice, l’individuazione del tipo di misura cautelare («il quomodo») può bene essere operata, in termini generali, dal legislatore, nel rispetto della ragionevolezza della scelta e del corretto bilanciamento dei valori coinvolti.
La giurisprudenza costituzionale avrebbe valutato, quindi, diversamente le presunzioni di adeguatezza della sola custodia cautelare, a seconda della natura dei reati e della pericolosità sociale degli indiziati.
A questo riguardo, andrebbe tenuto conto del fatto che le citate sentenze n. 265 del 2010 e n. 164 del 2011 hanno riguardato figure criminose – quali i reati sessuali e l’omicidio volontario – che, nella maggior parte dei casi, si pongono al di fuori di un contesto di criminalità organizzata. Di contro, le fattispecie delittuose previste dall’art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 – se pure non costituiscono, di per sé, reati a concorso necessario – colpirebbero condotte poste in essere, nella generalità delle ipotesi concrete, da soggetti inseriti in organizzazioni criminali stabilmente dedite a promuovere o a favorire l’ingresso clandestino di cittadini extracomunitari nel territorio dello Stato. Come comprovato anche dall’esperienza giudiziaria, i reati in discorso richiederebbero, infatti, una adeguata predisposizione di mezzi e l’impiego di uomini specificamente «addestrati per il traffico di esseri umani». Di conseguenza, essi risulterebbero assimilabili più ai delitti di criminalità organizzata indicati nell’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., che non a quelli oggetto delle richiamate sentenze n. 265 del 2010 e n. 164 del 2011.
Così come in rapporto ai delitti di mafia in senso lato, non potrebbe ritenersi, dunque, irragionevole che il legislatore abbia individuato nella custodia in carcere l’unica misura idonea a fronteggiare le esigenze cautelari in rapporto alle figure criminose di cui si discute. Ciò, sia in considerazione della necessità di interrompere il vincolo che lega il singolo soggetto al gruppo criminale di appartenenza, obiettivo che le misure cautelari più lievi risulterebbero inidonee a realizzare; sia in ragione dell’«alto coefficiente di pericolosità per la sicurezza collettiva connaturato alle suddette fattispecie di reato, anche in relazione alla recrudescenza del fenomeno».
Considerato in diritto
1.– La Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 26, lettera f), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui non consente di applicare misure cautelari diverse e meno afflittive della custodia cautelare in carcere alla persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza in ordine a taluno dei delitti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, previsti dal comma 3 del medesimo art. 12.
Il giudice a quo reputa estensibili ai procedimenti relativi a detti reati le ragioni che hanno indotto questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, a dichiarare costituzionalmente illegittima l’analoga presunzione prevista dall’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale in riferimento a taluni delitti a sfondo sessuale (artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale).
Al pari di tali delitti, neanche le fattispecie di cui all’art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 potrebbero essere, infatti, assimilate, sotto il profilo in esame, ai delitti di mafia, relativamente ai quali questa Corte ha ritenuto giustificabile la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere. Il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina potrebbe essere infatti realizzato, anche nelle ipotesi aggravate cui la norma censurata fa riferimento, con condotte profondamente diverse tra loro, indipendenti da una struttura criminale organizzata, e tali, dunque, da proporre esigenze cautelari affrontabili anche con misure diverse dalla custodia carceraria.
La presunzione censurata verrebbe, di conseguenza, a porsi in contrasto – conformemente a quanto deciso dalla citata sentenza n. 265 del 2010 – con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.), nonché con la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.).
2.– La questione è fondata.
3.– La norma denunciata assoggetta i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina da essa considerati a uno speciale e più severo regime cautelare, omologo a quello prefigurato, in rapporto a un complesso di altre figure delittuose, dall’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, lettere a) e a-bis), del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38.
Si tratta di un regime che fa perno su una duplice presunzione: relativa, quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari; assoluta, quanto alla scelta della misura, reputando il legislatore adeguata – ove la presunzione relativa non risulti vinta – unicamente la custodia cautelare in carcere.
3.1.– Come ricorda il giudice a quo, questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, ha già dichiarato costituzionalmente illegittima la norma del codice di cui quella censurata replica le cadenze, nella parte in cui configura una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura carceraria nei confronti degli indiziati di taluni delitti a sfondo sessuale (induzione o sfruttamento della prostituzione minorile, violenza sessuale e atti sessuali con minorenne).
Ad analoghe declaratorie di illegittimità costituzionale la Corte è altresì pervenuta, successivamente all’ordinanza di rimessione, nei riguardi della medesima norma, nella parte in cui rende operante la predetta presunzione assoluta anche nei procedimenti per i delitti di omicidio volontario (sentenza n. 164 del 2011) e di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (sentenza n. 231 del 2011).
3.2.– Nelle decisioni ora citate, questa Corte ha rilevato come, alla luce dei principi costituzionali di riferimento – segnatamente, il principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.) – la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del «minore sacrificio necessario»: la compressione della libertà personale va contenuta, cioè, entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della «pluralità graduata», predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale; dall’altra, a prefigurare criteri per scelte «individualizzanti» del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete. Canoni ai quali non contraddice, la disciplina generale del codice di procedura penale, basata sulla tipizzazione di un «ventaglio» di misure di gravità crescente (artt. 281-285) e sulla correlata enunciazione del principio di «adeguatezza» (art. 275, comma 1), al lume del quale il giudice è tenuto a scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a soddisfare le esigenze cautelari ravvisabili nel caso concreto e, conseguentemente, a far ricorso alla misura “massima” (la custodia cautelare in carcere) solo quando ogni altra misura risulti inadeguata (art. 275, comma 3, primo periodo).
3.3.– Discostandosi in modo marcato da tale regime, il novellato art. 275, comma 3, cod. proc. pen. – e, sulla sua falsariga, la norma oggi sottoposta a scrutinio – sottraggono, per converso, al giudice ogni potere di scelta, vincolandolo a disporre la misura maggiormente rigorosa, senza alcuna possibile alternativa, allorché la gravità indiziaria attenga a determinate fattispecie di reato. Questa soluzione normativa si traduce in una valutazione legale di idoneità della sola custodia carceraria a fronteggiare le esigenze cautelari (presunte, a loro volta, iuris tantum).
A tale proposito, questa Corte ha, peraltro, ribadito che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (sentenze n. 231 e n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010).
L’evenienza ora indicata era puntualmente riscontrabile in rapporto alla presunzione assoluta in questione, nella parte in cui risultava riferita, tra gli altri, tanto ai delitti a sfondo sessuale dianzi indicati (sentenza n. 265 del 2010), quanto all’omicidio volontario (sentenza n. 164 del 2011), quanto, ancora, all’associazione finalizzata al narcotraffico (sentenza n. 231 del 2011). A tali figure delittuose non poteva, infatti, estendersi la ratio giustificativa del regime derogatorio già ravvisata dalla Corte in rapporto ai delitti di mafia (i soli considerati dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. anteriormente alla novella legislativa del 2009) (ordinanza n. 450 del 1995): ossia che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche – legate alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice – deriva, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità).
Connotazioni analoghe non erano infatti riscontrabili in rapporto alle figure criminose sopra elencate. Pur nella loro indubbia gravità e riprovevolezza – destinata a pesare opportunamente nella determinazione della pena inflitta all’autore, quando ne sia riconosciuta in via definitiva la colpevolezza – i suddetti delitti abbracciano, infatti, ipotesi concrete marcatamente eterogenee tra loro e suscettibili soprattutto di proporre, in un numero non marginale di casi, esigenze cautelari adeguatamente fronteggiabili con misure diverse e meno afflittive di quella carceraria.
Questa Corte ha ritenuto, quindi, che l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. violasse, in parte qua, sia l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti considerati a quelli concernenti i delitti di mafia, nonché per l’irrazionale assoggettamento a un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai relativi paradigmi punitivi; sia l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia, infine, l’art. 27, secondo comma, Cost., per essere attribuiti alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena.
4.– Alle medesime conclusioni deve pervenirsi anche in rapporto alle figure di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, cui il regime cautelare speciale è esteso dal censurato art. 12, comma 4-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998.
Si tratta, in specie, delle ipotesi previste dal comma 3 del medesimo articolo (oggetto, a sua volta, di profonda modifica ad opera della legge n. 94 del 2009), nelle quali il fatto di favoreggiamento – identificato in quello di chi, in violazione del testo unico sull’immigrazione, «promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente» – viene configurato come fattispecie distinta e più severamente punita di quella di cui al comma 1, per il concorso di elementi che accrescono, nella valutazione legislativa, il disvalore dell’illecito. Tali elementi attengono, alternativamente, al numero degli stranieri agevolati (lettera a) o dei concorrenti nel reato (lettera d, prima parte); alle modalità del fatto (che espongano a pericolo la vita o l’incolumità del trasportato o lo sottopongano a trattamento inumano o degradante: lettere b e c); ai mezzi utilizzati (servizi internazionali di trasporto o documentazione alterata, contraffatta o comunque illegalmente ottenuta: lettera d, seconda parte); alla disponibilità, infine, di armi o materie esplodenti da parte degli autori del fatto (lettera e).
Anche in ragione dell’alternatività delle ipotesi ora indicate, la figura delittuosa viene, peraltro, a ricomprendere fattispecie concrete marcatamente differenziate tra loro, sotto il profilo che qui rileva.
Il delitto in discorso costituisce, infatti, un reato a consumazione anticipata, che si perfeziona con il solo compimento di «atti diretti a procurare» l’ingresso illegale di stranieri «nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente». Il verbo «procurare» conferisce, altresì, alla fattispecie un’ampia latitudine applicativa, abbracciando qualunque apporto efficiente e causalmente orientato a produrre il risultato finale, ivi comprese – secondo una corrente lettura giurisprudenziale – talune attività immediatamente successive all’arrivo in Italia degli stranieri, che agevolino l’esito dell’operazione.
Dal paradigma legale tipico esula, in ogni caso, il necessario collegamento dell’agente con una struttura associativa permanente. Il reato può bene costituire frutto di iniziativa meramente individuale: la presenza di un numero di concorrenti pari o superiore a tre è, infatti – come accennato – solo una delle ipotesi alternativamente considerata dalla citata norma. D’altra parte, quando pure risulti ascrivibile a una pluralità di persone, il fatto può comunque mantenere un carattere puramente episodico od occasionale e basarsi su una organizzazione rudimentale di mezzi: evenienza, questa, che – stando a quanto si riferisce nell’ordinanza di rimessione – si sarebbe, del resto, verificata nel caso oggetto del giudizio a quo. Ciò, indipendentemente dal rilievo che, secondo quanto già chiarito da questa Corte in rapporto al delitto di associazione finalizzata al narcotraffico, neppure la natura associativa del reato basterebbe, di per sé sola, a legittimare la presunzione in parola, ove non accompagnata da una particolare “qualità” del vincolo fra gli associati, come nell’ipotesi dell’associazione mafiosa (sentenza n. 231 del 2011).
In sostanza, dunque, le fattispecie criminose cui la presunzione in esame è riferita possono assumere le più disparate connotazioni: dal fatto ascrivibile ad un sodalizio internazionale, rigidamente strutturato e dotato di ingenti mezzi, che specula abitualmente sulle condizioni di bisogno dei migranti, senza farsi scrupolo di esporli a pericolo di vita; all’illecito commesso una tantum da singoli individui o gruppi di individui, che agiscono per le più varie motivazioni, anche semplicemente solidaristiche in rapporto ai loro particolari legami con i migranti agevolati, essendo il fine di profitto previsto dalla legge come mera circostanza aggravante (comma 3-bis, lettera b, dell’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998).
L’eterogeneità delle fattispecie concrete riferibili al paradigma punitivo astratto non consente, dunque, di enucleare una regola generale, ricollegabile ragionevolmente a tutte le «connotazioni criminologiche» del fenomeno, secondo la quale la custodia cautelare in carcere sarebbe l’unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari.
La presunzione assoluta censurata non può neppure rinvenire la sua base di legittimazione costituzionale nella gravità astratta del reato di favoreggiamento dell’immigrazione, né nell’esigenza di eliminare o ridurre le situazioni di allarme sociale correlate all’incremento del fenomeno della migrazione clandestina. Va, infatti, ribadito quanto già affermato al riguardo da questa Corte: e, cioè, che la gravità astratta del reato, considerata in rapporto alla misura della pena o alla natura dell’interesse protetto, è significativa ai fini della determinazione della sanzione, ma inidonea a fungere da elemento preclusivo alla verifica del grado delle esigenze cautelari e all’individuazione della misura concretamente idonea a farvi fronte; mentre il rimedio all’allarme sociale causato dal reato non può essere annoverato tra le finalità della custodia cautelare, costituendo una funzione istituzionale della pena, perché presuppone la certezza circa il responsabile del delitto che ha provocato l’allarme (sentenze n. 231 e n. 164 del 2011, n. 265 del 2010).
5.– Ciò che vulnera i valori costituzionali non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del «minore sacrificio necessario». Di contro, la previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria – atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario – non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso (sentenze n. 231 e n. 164 del 2011, n. 265 del 2010).
Il comma 4-bis dall’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998 va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma 3, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 26, lettera f), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma 3 del medesimo articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 2011.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 16 dicembre 2011.
Il Direttore della Cancelleria
da Altalex