RASSEGNA STAMPA "ALCOL E GUIDA" Note
a cura di Alessandro Sbarbada |
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SALUTE
di REPUBBLICA |
DAL segreto
del vino rosso un’altra arma contro l’influenza (*). I prodotti a
base di resveratrolo, l’antiossidante che spiega i benefici del "bicchiere"
consumato durante i pasti, possono rappresentare "un aiuto importante
per "armare" il nostro organismo contro i virus influenzali,
soprattutto quello di tipo A" sostiene Carlo Grassi, professore
emerito di Malattie respiratorie all’università di Pavia. Secondo
Grassi il resveratrolo rafforza le risposte immunitarie contro virus
influenzali ed erpetici (Herpes simplex e Citomegalovirus) e Hiv.
E’ comunque un "coadiuvante ai farmaci antivirali". Inoltre,
dice Grassi, la scoperta di alti livelli di resveratrolo nelle radici
dell’erba medicinale Polygonum cuspidatum, ha permesso e la produzione
di composti a base del principio attivo". |
ADNKRONOS |
Roma,
27 ott. (Ign) - ‘’Sono Superman, non può succedermi niente!’’…
non è una battuta dell’ultimo film della saga del supereroe
venuto da Kripton, ma il grido lanciato da un giovane 23enne prima di
‘’volare’’ dal quarto piano di un edificio. E’
successo alle 4.00 del mattino di martedì, secondo quanto riporta
l’Austria Presse Agentur citata dal quotidiano on line derStandard.at.
Il ragazzo, che prima di tentare il salto aveva bevuto con un amico diversi
litri di vino rosso, ha riportato ferite alla testa ed alla schiena ed
è stato ricoverato all’ospedale di Graz, 200 chilometri a
sud di Vienna. Condizioni non gravi, dunque, ma solo grazie ad un pizzico
di fortuna. Il giovane è infatti atterrato sul tetto di una sezione
più bassa del palazzo dal quale si è lanciato. La vera identità
dell’aspirante Superman ovviamente non è stata rivelata!.
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IL
MESSAGGERO (Viterbo) |
Violenza
sessuale, maltrattamenti in famiglia, corruzione di minorenne e lesioni.
Sono questi i capi di imputazione con i quali gli agenti della Squadra
Mobile della Questura di Viterbo, diretti da Salvatore Gava, ieri mattina
hanno fatto scattare le manette ai polsi di un immigrato rumeno di 30
anni, clandestino, domiciliato con la moglie e la figlia di 3 anni a
San Martino al Cimino. Accuse pesantissime alle quali, non è
escluso, potrebbero aggiungersene altre. |
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MANFREDONIA
Omicidio aggravato dalla crudeltà e dall’aver agito sotto l’effetto
di sostanze alcoliche e stupefacenti: è questa l’accusa che viene
contestata a Giovanni Potenza dal pm Vincenzo Maria Bafundi nell’avviso
di conclusione delle indagini che nelle prossime ore verrà notificato
in carcere al presunto assassino di Giusy, la quindicenne ammazzata
a colpi di pietra su una scogliera il pomeriggio del 12 novembre di
un anno fa. «Agì da solo» L’avviso di conclusione
delle indagini che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio dice
che la Procura ritiene, in base alle indagini compiute, che Giovanni
Potenza - il pescatore di 27 anni procugino della vittima fermato il
23 dicembre - abbia agito da solo. Altrimenti gli avrebbe dovuto contestare
di aver agito in concorso con persone allo stato ignote e ancora da
identificare. Circostanza da rimarcare visto che qualche organo d’informazione
ha detto che il pm ritiene ancora credibile l’ipotesi iniziale del branco.
Che all’omicidio della quindicenne possano aver partecipato più
persone è ovviamente possibile (ne è convinta ad esempio
la famiglia della vittima), ma le inchieste si devono attenere ai dati
processuali che - secondo l’ottica accusatoria - non indicano la presenza
di complici per quanto emerso in un anno di indagini. Confessione e
dubbi Ci sono dubbi sulla confessione di Giovanni Potenza, ma evidentemente
non tali da aver indotto pm e investigatori a pensare che altre persone
l’abbiano aiutato a uccidere Giusy. Il pescatore ha raccontato che il
giorno del delitto lui e la procugina fecero l’amore in auto, litigarono
perchè lei voleva che lui lasciasse moglie e figli. Al che la
ragazza scese dall’auto e cadde dalla scogliera ferendosi alla testa:
lui la riportò sul tratturo, Giusy si riprese, ribadì
l’intenzione di svelare la loro relazione che andava avanti da due mesi,
e fu a questo punto che il pescatore la colpì due volte con pietre
di grosse dimensioni. E il punteruolo? Versione che coincide solo in
parte con gli esiti dell’autopsia. I colpi al volto sarebbero più
di due; se Giusy fosse caduta dalla scogliera da un’altezza di quattro
o cinque metri, avrebbe dovuto riportare ferite e/o fratture non riscontrate
sul cadavere; sull’addome aveva due ferite non letali inferte con un
punteruolo e Potenza (che pure dice di ricordare poco di quei momenti)
esclude d’averla ferita. Stupro sì, stupro no C’è poi
la violenza sessuale inizialmente ipotizzata dalla Procura ma che ora
non viene contestata all’indiziato. Il medico legale che eseguì
l’autopsia inizialmente aveva parlato di «lesioni emorragiche
nella zona genitale difficilmente compatibili con un rapporto sessuale
consenziente». Potenza quando confessò il delitto raccontò
d’aver fatto l’amore con Giusy che però si lamentava per la posizione
scomoda all’interno dell’auto. Il medico legale che aveva eseguito l’autopsia,
alla luce della spiegazione fornita dal presunto assassino, ha considerato
compatibili le lesioni riscontrate sugli organi genitali della ragazza
con un rapporto scomodo all’interno dell’auto, ma consenziente. Ma la
famiglia dice... L’avvocato di parte civile Innocenza Starace, che ha
condotto indagini difensive, prospetta un’altra ricostruzione che collima
poco o nulla con quella di polizia e Procura. Innanzitutto l’indiziato
mentirebbe quando parla della relazione clandestina con la procugina,
perchè il suo racconto è smentito dai tabulati telefonici
che dimostrano come non ci sia stata alcuna telefonata dell’uomo alla
ragazza per fissare gli appuntamenti. A dire della parte civile, Giusy
sarebbe stata stuprata da Giovanni Potenza (il suo liquido seminale
è stato trovato sul cadavere) in una spiaggia di Siponto, quindi
condotta per chissà quali motivi nella scogliera dove è
avvenuto l’omicidio al quale hanno partecipato altre persone. Ricostruzione
quella della parte civile che si basa su una consulenza geologica: l’avv.
Starace ha fatto analizzare da un esperto le tracce di sabbia trovate
sul corpo di Giusy. La sabbia non è la stessa del luogo del delitto
ma si troverebbe soltanto su una spiaggia di Siponto. |
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Tutti
ne parlano, tutti lo amano, tutti ne leggono e se ne occupano, ma sono
sempre meno quelli che lo bevono: il vino italiano vive una profonda crisi
esistenziale, sdoppiato tra la sua immagine esteriore, cool e modaiola,
contesa da trasmissioni televisive e riviste patinate, e la triste realtà,
che vede in Italia un calo inarrestabile dei consumi, scesi a 48 litri
pro capite all’anno (solo negli ultimi quattro anni il consumo di
vino si è contratto dell’11%).
Il “paradosso italiano” esplode al Salone del Vino di Torino (27-30 ottobre), che in questi giorni vede riuniti i massimi esponenti dell’enologia del nostro Paese: produttori, enotecari, giornalisti, buyers e opinion leader. Il vino italiano è lacerato da una profonda scissione interiore, e ha bisogno di andare in analisi. Il dottor Alessandro Meluzzi, noto psicologo, afferma a WineNews: “Quello che succede al vino si può paragonare a quello che succede al sesso: più se ne parla, meno lo si fa, in questo caso meno lo si beve. Il consumo di vino ha subito una profonda evoluzione nel tempo: nelle usanze contadine era un alimento considerato al pari del pane, e se ne beveva in grandi quantità, pur se di cattiva qualità e di sapore incerto. Gli italiani ne consumavano molto quando erano poveri, con il crescere della ricchezza è diminuito sia il consumo di pane che quello di vino. Oggi siamo “ricchi” e si beve poco vino, ma di qualità. Bere vino è considerato un evento: estetico, sociale, culturale. Certo la gente è sempre più perplessa da questo vino ormai diventato un costoso status symbol: basti pensare che per la classe dirigente è un segno di distinzione produrre bottiglie con la propria etichetta. Se il vino fosse una persona direi che questa “altezzosità” non giova alla sua immagine: il mio suggerimento è che prenda esempio dalle monarchie nordeuropee, aristocratiche ma con understatement. Il vino deve tornare ad essere più accessibile, più abbordabile, senza naturalmente perdere la sua eleganza. Proporsi senza eccessi, né di alterigia, né - lasciatemelo dire - di prezzo”. Ma com’è possibile che in Italia più si parla di vino, meno se ne beva? Solo nel 1975 il consumo di vino si attestava su circa 100 litri pro capite. Da allora è calato a 48 litri, e secondo le ultime proiezioni questo dato è destinato a diminuire ulteriormente. Nello stesso tempo il vino è diventato un fenomeno di costume, che vede il moltiplicarsi di trasmissioni televisive e riviste specializzate, il proliferare di scuole e corsi di degustazione, il dilagare di wine bar ed enoteche, per non parlare delle mille fiere ed eventi che affollano il territorio nazionale. In più il vino è un prodotto profondamente radicato nella nostra storia e nelle nostre tradizioni, è un elemento-base della tanto raccomandata dieta mediterranea (al pari della pasta, dei pomodori, dell’olio extravergine d’oliva), l’enologia italiana si colloca ai primi posti del mondo per livello qualitativo, e soprattutto lo strettissimo legame tra vino e salute è stato confermato da centinaia di ricerche scientifiche, che hanno dimostrato che il vino possiede un’azione protettiva nei confronti delle malattie cardiovascolari, aumenta il colesterolo buono nel sangue (Hdl), vanta un’azione preventiva sui tumori, e persino una potente azione anti-aging (*). Eppure gli italiani non ne bevono nemmeno un bicchiere al giorno ciascuno. E non può non saltare agli occhi l’enorme divario con un altro simbolo dell’alimentazione made in Italy, la pasta: nel 1954 i consumi di pasta toccavano i 28 kg pro capite annui. La stessa cifra di oggi, tanto che l’Italia si colloca al primo posto assoluto nei consumi mondiali. Più di sessant’anni dopo il mito italiano della pasta resiste e si è diffuso nel mondo come “vessillo della cucina italiana nel mondo”. Eppure alla pasta non è dedicato lo stesso spazio mediatico riservato al vino. Il “gastronauta” Davide Paolini, uno dei maggiori esperti delle tendenze del wine & food, afferma: “Negli ultimi anni si è instaurato questo meccanismo perverso per cui il vino è sempre più al centro dell’attenzione mediatica ma se ne consuma sempre meno: fa chic parlare di vino ed esibire la propria cultura sull’argomento, ma la realtà è che tutti bevono acqua, al massimo un assaggio di vino a buon mercato la sera a casa, mentre le bottiglie importanti sono relegate ad occasioni sempre più rare, come le cene di lavoro o con gli amici al ristorante”. (*) Nota: riguardo a vino e salute sappiamo che la questione è decisamente meno chiara di come viene presentata… Riguardo al resto dell’articolo, viene da pensare che i produttori di vino non sanno più che pesci pigliare, sono disperati. Vale ancora la pena di investire così tanto lavoro e denaro su un prodotto con risultati commerciali così disastrosi, e con controindicazioni tanto nefaste per la salute? (decine di migliaia di morti vinocorrelate ogni anno in Italia, per non parlare della eno-sofferenza umana che devasta milioni di famiglie nel nostro paese). |
CORRIERE
DELLA SERA |
Il
faraone Tutankhamon beveva vino rosso. Lo rivela un team di scienziati
spagnoli che ha studiato i residui rimasti su alcune brocche seppellite
assieme a lui nella tomba. Finora non era stato stabilito che il vino
fosse rosso, particolare ricavato adesso dalla scoperta di un acido che
si può ricondurre, appunto, soltanto al vino rosso. Al «re
bambino», che morì nel 1352 avanti Cristo, quella bevanda
d’uva doveva piacere molto se si è deciso di non fargliene
mancare nemmeno nell’aldilà, «luogo» dove ai faraoni
era concesso portare i beni più preziosi di cui avevano potuto
disporre nella vita terrena. Fra quei beni, nel caso di Tutankhamon, c’era
anche un discreto numero di brocche di vino. Di più: ciascuna era
marcata con dettagli sulla provenienza e l’invecchiamento del contenuto.
Così è stato possibile sapere che, per esempio, in alcuni
dei contenitori c’era vino di cinque anni. Dopo secoli passati nella
tomba, ora le brocche del faraone sono state spostate al museo egizio
e al British museum di Londra.
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Una
ricerca condotta dal team del professor Roger Williams dell’Institute
of Hepatology dello University College di Londra ha studiato le procedure
terapeutiche adottate dagli ospedali britannici in presenza di pazienti
affetti da patologie a carattere epatico.
Lo studio – pubblicato sulle pagine del British Medical Journal – ha preso in esame ventotto presidi ospedalieri del Regno Unito dotati di centri per le cure epatiche. Secondo Williams, in Regno Unito meno del 10% dei 300.000 casi stimati di infezioni di epatite C sono stati sinora effettivamente diagnosticati: questo preoccupante dato contribuirà a incrementare il rischio-malattie epatiche in Regno Unito fino a raggiungere il suo apice nel 2020. Un terzo dei centri presi in esame non hanno designato un consultant hepatologist responsabile e, in ben undici dei ventotto centri, le patologie epatiche vengono seguite da medici generici in collaborazione con gastroenterologi. Cinque centri non presentano specialisti per le malattie del fegato nell’infanzia e in quattro centri gli unici specialisti presenti si occupano soltanto di patologie epatiche causate da consumo di alcol. “Dalle nostre ricerche è emerso che soltanto sette ospedali sono attualmente in grado di garantire una terapia d’urgenza nell’arco di due settimane” ha spiegato Williams sulle pagine del British Medical Journal. |
SALUTE
di Repubblica |
BOSTON-
Allacciarsi le stringhe o svitare il tappo di una bottiglia: gesti abituali
per la maggior parte delle persone, una tortura quotidiana per chi convive
con l’artrite reumatoide che in Italia fa registrare 5 mila nuovi casi
l’anno. Per risparmiare sofferenze e invalidità a 7 milioni di
europei, basterebbe una diagnosi entro 4 mesi dalla comparsa dei sintomi
e non dopo 7 come sovente accade. È l’appello che gli esperti lanciano
durante un incontro, a Boston, organizzato da Abbott, impegnata nello
studio dei farmaci biologici che oggi consentono ai pazienti di condurre
una vita quasi normale. "Spesso confusa con osteoporosi e artrosi,
l’artrite reumatoide è una malattia autoimmune che colpisce le
articolazioni provocando infiammazione, dolore, gonfiore e rigidità
al mattino" spiega Oscar Segurado, direttore medico di Abbott Immunology.
"Interessa soprattutto le donne ed esordisce tra i 30 e i 50 anni".
Tipicamente colpisce in modo simmetrico: due polsi, due mani che iniziano
a far male fino a deformarsi e a impedire i movimenti. Entro 10 anni dalla
diagnosi la metà dei pazienti non riesce più a lavorare.
La cura con antinfiammatori e cortisone è efficace sui sintomi,
non sulla progressione del male. Per questo i riflettori sono puntati
sui farmaci biologici che bloccano le citochine, le proteine responsabili
del male in particolare sulla molecola adalimumab."È un anticorpo
monoclonale completamente umano. Per questo il rischio di reazioni allergiche
ed effetti collaterali è basso", dice il vice presidente Peter
Isakson. Già disponibile in Italia da un anno, si somministra con
un’iniezione sottopelle con siringa da insulina una volta ogni 2 settimane
ed è prescritto nei centri di reumatologia. Dal 2006 potrà
essere usato anche per combattere l’artrite psoriasica che colpisce circa
il 3 per cento di chi soffre di psoriasi per la quale il 29 ottobre è
stata fissata la giornata mondiale. Assieme ai farmaci contro l’artrite
reumatoide, nella cura c’è la riabilitazione per tonificare i muscoli
senza logorare le articolazioni, la raccomandazione di evitare sovrappeso,
alcol e fumo e di usare scarpe e plantari speciali. |
SALUTE
di Repubblica |
Una
delle prime reazioni del nostro organismo al calar delle temperature,
è l’aumento dell’appetito. È come se, messi da parte i sensi
di colpa dell’estate che ci vuole tutti più magri, potessimo finalmente
liberare la nostra fame e mangiare di gusto con la giustificazione che
abbiamo bisogno di nutrirci per scaldarci. In effetti, però, il
maggior appetito è dovuto più a motivazioni psicologiche
che a effettivi stimoli fisiologici. Infatti, anche se è vero che
l’organismo brucia più calorie rispetto all’estate, la differenza
è solo di 400 chilocalorie. Dunque, per evitare malattie dismetaboliche,
è sconsigliabile adottare un’alimentazione ricca di grassi e zuccheri.
Meglio adottare un menu a base dei prodotti della terra che giungono a maturazione proprio nei mesi freddi come patate, cavolo, rape, castagne. "I cibi che riscaldano maggiormente", spiega la professoressa Daniela D’Alessandro, ordinario di Igiene Ambientale, presso l’Università "La Sapienza" di Roma, "sono i cibi ad elevato contenuto energetico come ad esempio i grassi, nonché i cibi rapidamente assimilabili come gli zuccheri. Se si desidera avere una sensazione di riscaldamento immediata, conviene assumere bevande calde ed energetiche come, per esempio, cioccolato caldo, brodo e minestre. Sbagliato, invece, ricorrere agli alcolici che aumentano la temperatura corporea, ma con un effetto che si esaurisce rapidamente a causa della forte vasodilatazione da questi indotta". |
IL
GAZZETTINO (Udine) |
Alle
2.45 di ieri la Polstrada di Tolmezzo gli ha ritirato la patente di guida
e gli ha sequestrato il camion. Kurt Kahlpacher, 35 anni, di Koflach,
è infatti risultato positivo alla prova dell’etilometro. Un’ora
e mezza dopo il camionista austriaco è stato arrestato dai carabinieri
del Radiomobile di Tolmezzo in via Osoppo a Gemona. Lo hanno sorpreso
nel giardino di una casa, dove stava rubando due spatole edili del valore
di 40 euro. Kahlpacher ha reagito violentemente. Era fuori di sè,
quando si è scagliato contro i militari che cercavano di capire
come mai si trovasse all’interno di un cortile privato e perchè
fosse a piedi. L’uomo ha colpito il caposquadra procurandogli una contusione
alla spalla ed è stato arrestato, oltre che per furto aggravato,
anche per lesioni aggravate, violenza e resistenza. È stato accompagnato
nel carcere di Tolmezzo. Il suo camion è stato affidato dalla polizia
stradale a una carrozzeria della zona.
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IL
MATTINO (Salerno) |
Battipaglia. Ubriaco inveisce contro i clienti di una pizzeria nel centro di Battipaglia, si sdraia per strada impedendo il transito delle auto e, poi, tenta di aggredire i poliziotti che riescono a bloccarlo. Attimi di tensione nella tarda serata di ieri in via Paolo Baratta. Un polacco sanguinante ad un braccio ha infastidito i clienti della pizzeria "Francos pizza" , poi, si è steso sull’asfalto per ed ha bloccato il traffico. Ha impedito alle auto di percorrere via Baratta. Barcollante si è alzato e con fare minaccioso si è scagliato anche contro gli automobilisti. Nel frattempo, il titolare della pizzeria e alcuni clienti in preda al panico hanno allertato telefonicamente il 113. Sul posto è giunta una pattuglia del commissariato di polizia e gli agenti hanno dovuto faticare non poco per riportare la calma. Appena gli uomini in divisa si sono avvicinati allo straniero, non ancora identificato, si è gettato anche contro di loro apostrofandoli in malo modo e spintonandoli. Poi, è ripiombato di nuovo nella pizzeria. Poco dopo finalmente gli agenti sono riusciti a bloccarlo. Intanto, sono stati allertati i sanitari del 118 che hanno provveduto ad accompagnare il polacco furibondo al pronto soccorso per medicargli la ferita al braccio. In tilt il traffico per più di mezzora a causa della scorribanda del polacco inferocito che si era scagliato contro gli automobilisti e alcuni passanti che percorrevano tranquillamente via Baratta. I poliziotti, agli ordini del vicequestore aggiunto Maurizio Fiorillo, sono ancora a lavoro per identificare lo straniero che per il momento è stato denunciato a piede libero. |
LA
GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO |
«In
galera tutti gli spacciatori? Ok, vuol dire che dovranno costruire carceri
pari almeno a un terzo della popolazione giovanile». Alessandro
ha 20 anni, un diploma di ragioniere preso in un istituto privato dopo
aver tentato senza successo la strada liceale, e la valigia pronta: «Parto
per Londra, non vedo l’ora di cambiare aria e di vivere in una città
libera e multietnica». Ieri pomeriggio con coraggio ha alzato la
mano e preso la parola: «La legge Fini è un mix di contraddizioni
oltre ad essere anacronistica. Il "fumo", le canne ormai alla
portata di tutti sono cosa diversa dal "buco". Le sostanze leggere
molto diffuse fra i giovani non possono essere paragonate alle droghe
pesanti». L’attacco al Governo: «In pratica, secondo il vicepresidente
del Consiglio dei ministri saremmo tutti criminali». La proposta
di legge che porta la firma di Fini è al centro del dibattito.
La platea che affolla la sala Giuseppina del Kursaal Santalucia è
in fermento. Le sedie sono occupate in prevalenza dagli operatori del
terzo settore e dai rappresentanti delle associazioni che si occupano
di tossicodipendenze. I giovani, protagonisti della giornata di riflessione
promossa dal Cama (centro assistenza ai malati di Aids) sede Lila (lega
italiana per la lotta all’Aids) di Bari, ci sono ma non in tanti. Angela
Calluso, presidente del Cama, riepiloga: «Chiediamo la legalizzazione
degli stupefacenti però differenziata; siamo contrari alla criminalizzazione
dei consumatori occasionali; vorremmo che lo Stato spendesse energie per
contrastare le narcomafie e che investisse nella prevenzione». Il
riferimento alle attività nelle scuole: «Le campagne di sensibilizzazione
devono diventare capillari». Alessandro, che sui banchi ha passato
qualche anno in più del dovuto, mormora: «Un incontro all’anno
è ininfluente. Quando mi sono reso conto degli effetti devastanti
delle pasticche, degli acidi, dell’ecstasy ho osservato un lungo periodo
di astinenza». La confessione: «Devo ammettere che ho ricominciato,
ma in maniera consapevole e quindi meno rischiosa per la salute».
Alessandro è un esperto. Il primo «tiro» a 14 anni,
con i compagni di classe. Eppure non è a favore della liberalizzazione
delle droghe leggere. Spiega: «Il fenomeno coinvolgerebbe la totalità
degli adolescenti, nessuno escluso. Un grammo di hashish costa 3-4 euro
e persino i bambini girano con gli spiccioli in tasca». Al microfono
Alberto Santamaria, coordinatore dei Sert della Asl Ba4, grida che «uno
studente su tre fa uso di sostanze stupefacenti». Che «i giovani
non frequentano i Sert». Che «il carcere non è la soluzione».
Ne è convinto pure Fabrizio Giannelli, che siede al tavolo dei
relatori nella veste di rappresentante degli studenti: «I "grandi"
dovrebbero piuttosto indagare le motivazioni alla base della diffusione
delle droghe, non perseguire la via della repressione. La storia insegna
che le politiche del proibizionismo non sono servite a centrare l’obiettivo».
Franco Corleone, ospite d’eccezione perché presidente del Forum
nazionale droghe (e ex sottosegretario nell’ultimo governo D’Alema), ragiona:
«La verità, i valori, l’etica non si possono imporre né
sanzionare. Secondo Fini tutte le droghe sono uguali e quindi tutti i
consumatori devono essere perseguiti con pene che vanno dai 6 ai 20 anni
di reclusione». Riporta la sua esperienza: «Cresce la percentuale
degli habitué del week end. Professionisti, impiegati, manager,
uomini e donne in carriera che dopo essersi strafatti di lavoro dal lunedì
al venerdì, il sabato e la domenica si fanno di cocaina. Carcere
per tutti»? Filippo Melchiorre, capogruppo di An al Comune di Bari
e ex assessore ai diritti civili e sociali con il centrodestra, ricorda
i percorsi di riduzione del danno, avviati dalla passata amministrazione
in collaborazione con il privato sociale, «ma affossati - dice -
dalla giunta Emiliano». Alessandro ascolta e ragiona a voce alta:
«La verità è che lo spinello rilassa, ti dà
una sensazione di benessere. Per non andare in overdose i giovani dovrebbero
essere più informati. Potendone discutere, senza paura, con gli
adulti». Antonella Fanizzi.
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LA
GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO |
«Se parliamo del consumo di droghe leggere, nella società italiana e occidentale è entrato nell’uso accettato e in qualche misura banalizzato, non caricato di particolari valori o legato a fenomeni di contestazione della società e neppure collegato a una categoria evanescente come quella del disagio giovanile. Insomma, spiegare oggi l’uso diffuso di droghe leggere quali hashish o marijuana sarebbe un po’ come se dovessi spiegare perché bevo ogni giorno un bicchiere di vino durante i pasti». È il primo commento di Franco Corleone, già sottosegretario dell’ultimo governo D’Alema e ora presidente nazionale del forum droghe, all’esito della ricerca ministeriale sull’uso della droga a Bari (di cui parliamo qui a fianco). Ieri Corleone era a Bari per partecipare al dibattito sul disegno di legge firmato dal vicepresidente del Consiglio dei ministri Gianfranco Fini, che intende imprimere un deciso giro di vite all’uso, anche di modiche quantità e per uso personale, di sostanze stupefacenti. Presidente Corleone, per molti può essere uno choc scoprire che un così alto numero di giovani ormai ammetta di avere rapporti con la droga, dal classico spinello alla pasticca presa in discoteca. Perché, invece, lei sostiene che si tratti di un "uso banalizzato"? «Perché fino a un decennio fa, queste sostanze non appartenevano alla nostra cultura e chi voleva cercarle lo faceva andando all’estero. In un mondo globalizzato come il nostro, questo non è più vero. Per molti giovani, ormai, il fumo di uno spinello è paragonabile a bere birra o vino. Piuttosto il problema è un altro. L’uso di tutte le sostanze, legali o illegali che siano, deve essere fatto con consapevolezza e informazione. Purtroppo, invece, se dall’altra parte non c’è costruzione di consapevolezza, ma solo proibizione, ci si trova di fronte al rischio serio di acquistare un prodotto sconosciuto che può avere effetti devastanti su un organo delicato come il cervello». In effetti, molti tra i ragazzi intervistati confessano di non conoscere affatto e comunque di non avere idea degli effetti legati all’assunzione di nuovissime sostanze chimiche di sintesi appena immesse sul mercato. «Purtroppo è con questo che ci dobbiamo misurare. Ci vorrebbe, più che una politica proibizionista, una politica di riduzione del danno. In alcuni paesi hanno sperimentato positivamente il controllo delle pasticche che vengono diffuse in discoteca o durante i rave. Questo in Italia è molto difficile perché anche la sola cessione, anche gratuita, di sostanze è considerata reato». Che ci sia un problema di percezione sbagliata degli effetti procurati dall’assunzione di sostanze euforizzanti è peraltro dimostrato dall’assoluta sottovalutazione con la quale i giovani baresi intervistati affrontano il problema dell’alcol. E’ così anche in altri contesti? «Non c’è dubbio che il problema alcol sia sottovalutato. In Italia vi è una stratificazione: il consumo cronico, quello degli alcolisti, per lo più di vino, i nuovi consumi e la moda dei superalcolici sui quali si continua a consentire una smodata pubblicità su tutti i canali mediatici. Si consuma molta più birra, secondo il modello anglosassone, e poi ci sono i mix tra cocaina, ecstasy e alcol. Secondo la percezione soggettiva di molti giovani, chi fa consumo di queste sostanze non si sente, o quasi mai si sente di essere tossicodipendente. Siamo a un uso di sostanze legato a stili di vita competitivi e a modalità che non portano immediatamente condizioni di dipendenza. Se ne fa uso nel fine settimana o in relazione a eventi o luoghi, per darsi carica o coraggio. Tutto questo imporrebbe una rivisitazione dei modelli intervento. Non esistono più comunità chiuse come quelle degli eroinomani di un tempo. Occorrono servizi di prevenzione sul territorio in grado di offrire assistenza, ma soprattutto di aiutare le persone a conoscersi e a conoscere le sostanze. Il problema è sempre lo stesso. Tutto questo, in un modello legislativo repressivo come il nostro non è possibile e induce solo alla clandestinità». Giuseppe Armenise. |
YAHOO
SALUTE |
Il
suicidio può essere considerato un serio problema di salute pubblica.
Per questo, deve essere pianificata una serie di interventi efficaci, tesi
a diminuirne la frequenza. Un articolo pubblicato sul Journal of the American
Medical Association spiega, analizzando diversi studi, quali sono le strategie
più efficaci nel contrastare questo problema. Nel 2002 in tutto il mondo sono stati registrati 877.000 casi di suicidio. Agli estremi della tabella di distribuzione delle percentuali si trovano i paesi dell’Europa orientale con il tasso più alto, e l’America Latina e i paesi musulmani con quello più basso. Tra le diverse cause identificate, gli eventi stressanti di vita, la disponibilità di armi, droghe e alcol, la predisposizione a causa di malattie mentali. Circa il 90 per cento dei suicidi aveva alla base un problema psichiatrico diagnosticato, più frequentemente depressione o disturbo bipolare. Gli interventi preventivi sono possibili sia nello stadio iniziale di ideazione che in quello di realizzazione. Per quanto riguarda lo stadio di ideazione del suicidio, l’intervento che è risultato più efficace è stata una migliore preparazione del personale medico psichiatrico, che consente la diagnosi precoce di un disturbo e quindi una tempestiva risoluzione. Ridurre la disponibilità di strumenti e sostanze mortali, invece, incide più di ogni altro intervento nel limitare la realizzazione materiale dell’intento suicida. Altre strategie come psicoterapia e somministrazione di psicofarmaci necessitano di maggiori prove e studi. Ogni intervento ha comunque un suo impatto che deve essere tenuto nella giusta considerazione per poter pianificare al meglio una strategia generale ma che si realizzi su livelli diversi e che sia la migliore possibile. Fonte: Mann JJ, Apter A et al. Suicide prevention strategies. JAMA 2005; 294:2064-2074. Caterina Visco. |
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