Più
di una volta abbiamo parlato delle nuove droghe che, soprattutto
fra i giovani, sostituiscono quegli stupefacenti oramai considerati
superati o che trovano interesse soltanto in quelle categorie di
persone spesso agli ultimi posti della scala sociale.
Analogamente, anche il modo di bere si evolve e cerca di presentarsi
alla giovane utenza in maniera più dinamica e accattivante
possibile e non è un caso se in questi ultimi anni sono nate
nuove “mode” rivolte proprio ai ragazzi ed alle persone
giovani in genere.
Prima fra tutte “l’happy hour”, cioè l’ora
dell’aperitivo, un rito che pare avere conquistato larghe fette
di giovani e giovanissimi e che si consuma sempre in compagnia.
Nulla di particolarmente strano: si tratta di andare in uno di quei
whine-bar che spuntano come funghi in tutte le città italiane
e sedersi al tavolo con gli amici sorseggiando, per qualche ora,
l’aperitivo proposto dalla casa.
La cosa funziona e mentre negli ultimi vent’anni pare sensibilmente
diminuito il consumo generale di alcolici, quello degli aperitivi
è un mercato in costante crescita e che anche quest’anno
ha permesso di realizzare un incremento del 12 per cento.
Non
è un caso se tra il 1998 ed il 2001, dicono le statistiche
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il numero
di giovani di età compresa tra i 14 ed i 16 anni che bevono
alcolici è cresciuto del 13 per cento, mentre analizzando
l’intera popolazione la percentuale di coloro che consumano
abitualmente bevande a base di alcol è prossima al 75 per
cento. Lo conferma anche un’indagine compiuta dal ministero
della Salute nel 2002, che ha messo in evidenza come il “battesimo”
del primo bicchiere avviene in Italia attorno agli 11-12 anni, quando
la media europea non scende sotto i 14 anni.
Fra le altre cose, oltre il 12 per cento dei giovani italiani preferisce
bere lontano dai pasti ed ogni anno cresce il numero dei ragazzi
che consumano abitualmente alcolici (870 mila nel 2001, contro gli
848 mila del 2000 ed i 781 mila del 1998).
Non
solo.
L’Oms ha più volte ribadito come il consumo di alcolici
non dovrebbe cominciare prima dei 16 anni e questo per permettere
all’organismo di possedere un sistema enzimatico capace di
smaltire l’alcol che, altrimenti, anche se assunto in modestissime
quantità potrebbe nuocere eccessivamente ad alcune funzioni
vitali del corpo.
Per questo motivo, vige anche in Italia il divieto di vendita degli
alcolici ai minori di 16 anni all’interno dei locali pubblici,
anche se la legge può comodamente (e legittimamente) essere
aggirata acquistando un’intera bottiglia al supermercato o
nei negozi specializzati.
Secondo i ricercatori dell’Osservatorio permanente sui giovani
e l’alcol, si beve per socializzare e sentirsi più sicuri
di sé e superare quei piccoli difetti che sono tipici di
ogni ragazzo in età adolescenziale (timidezza, difficoltà
ad instaurare dialogo coi coetanei, presunti difetti fisici, ecc…).
A onor del vero, la situazione italiana non è fra le peggiori
in assoluto.
Anzi, da un certo punto di vista potrebbe anche soddisfare, soprattutto
per quanto riguarda la frequenza con cui si beve: in Danimarca,
ad esempio, il 36 per cento degli adolescenti dichiara di ubriacarsi
tre volte la settimana, contro il 7 per cento della media italiana.
Ed anche il cosiddetto “binge drinking”, cioè il
consumo in una sola volta di almeno quattro o cinque bicchieri contenenti
alcolici diversi fra loro per ottenere immediatamente lo sballo,
è un fenomeno poco diffuso dalle nostre parti: si parla di
una media nazionale del 13-15 per cento, contro il 40 per cento
che si registra in Gran Bretagna.
Eppure, l’andamento della curva commerciale che riguarda gli
alcolici “non tradizionali”, come lo sono appunto gli
aperitivi, è in costante incremento e nel corso del 2003
il fatturato ha superato in Italia i 130milioni di euro. In gran
parte consumati proprio nei locali giovanili.
La tendenza è stata infatti oggetto di studio da parte dei
grandi comunicatori di mercato e per attirare l’interesse dei
giovanissimi sono state “create” nuove bevande, coloratissime,
che hanno preso il nome di “alcolpops”.
Si tratta di prodotti alcolici camuffati da bibite analcoliche e
che richiamano mode e tendenze giovanili e per questo vengono proposte
proprio nei locali di divertimento.
La legge vieterebbe qualsiasi forma di pubblicità rivolta
ad un pubblico minorenne, ma i “cavilli giuridici” che
le grandi aziende produttrici sanno sfruttare, rendono sempre più
difficile la possibilità di controllo ed i messaggi pubblicitari
riescono a trovare spazio in ogni ambito sociale.
Per accorgersene basti pensare ai quasi 3 milioni di italiani che
soffrono periodicamente di disturbi legati al consumo di alcol (e
non all’abuso, si badi bene) oppure al milione di alcolisti
costantemente seguiti dalle strutture sanitarie.
Senza poi considerare che il 10 per cento dei ricoveri ospedalieri
trova ragione proprio nell’alcol (sono quasi 40 mila coloro
che muoiono per cause dirette o indirette legate all’alcol),
così come una larga parte dei circa 8.000 morti che si registrano
sulle strade italiane come conseguenza diretta degli incidenti stradali.
Il pericolo maggiore, sottolineano però i funzionari dell’Organizzazione
Mondiale per la Sanità, nasce dal fatto che non tutti si
accorgono di bere eccessivamente e spesso si ritiene di avere bevuto
in maniera moderata. Ecco perché si verificano numerosi sinistri
stradali, soprattutto nelle notti di fine settimana.
Altro dato saliente riguarda la possibilità di capire quale
sia il limite massimo di ciascuno.
Poiché non si può pretendere di fornire di un etilometro
ogni consumatore, allora occorre fare un raffronto sulla quantità
bevuta.
Tralasciando il vecchio e non efficace metodo di provare a camminare
su di una striscia diritta, molto meglio è sapere che due
o al massimo tre bicchieri di vino sono sufficienti per entrare
nella zona “Cesarini” del limite alcolemico, mentre se
agli stessi viene associato anche un solo bicchiere di superalcolico
(whischy, grappa, gin), il risultato positivo è scontato.
Non esiste tuttavia un preciso indicatore entro il quale si possa
ritenere di essere nel limite di legge, anche perché molto
dipende dal peso, dall’età e dalle condizioni di salute
del soggetto bevitore.
Molto più facile è sapere che il fegato può
smaltire in un’ora un solo bicchiere di alcol, così
chi ne ingerisce tre o quattro dovrebbe attendere almeno lo stesso
numero di ore prima di mettersi al volante di un auto o cominciare
una qualsiasi attività che richieda prudenza o attenzione.
E sarà forse per questo motivo che negli Stati Uniti, pur
potendo conseguire la patente di guida tra i 14 ed i 16 anni (a
seconda dello Stato federale), non è possibile acquistare
alcolici se non si sono compiuti 21 anni e coloro che vengono fermati
per guida in stato di ebbrezza possono finire in galera anche per
30 giorni!
Questo significa che un giovane neopatentato americano, almeno in
teoria, diventa prima conducente e soltanto 5-6 anni dopo può
rischiare di sbronzarsi, mentre in Europa ed in Italia succede l’esatto
contrario.
Come influenzare allora i giovani e convincerli che bere è
un forte rischio?
L’ex ministro della Salute, Girolamo Sirchia, ha lasciato al
suo successore il compito di programmare la campagna contro l’alcol.
Entro breve, infatti, l’Istituto superiore della sanità
metterà a punto un kit informativo da distribuire nelle scuole
superiori e che potrà essere richiesto gratuitamente dagli
insegnanti. Nel video si racconta di una storia di amore
nel quale l’alcol gioca la sua parte ed attraverso il lieto
fine si manderà un messaggio chiaro ai ragazzi: non bere
ti aiuta a vivere meglio, anche quando sei solo.
Nonostante questi buoni intenti, molti dubitano che le strategie
allo studio possano andare in porto e come al solito ci si limiti
a enunciare grandi proclami per andare poi ad affrontare una guerra
senza armi: sono tanti, infatti, gli interessi in gioco, fermo restando
che qualsiasi tipo di divieto sui giovani fatica ad attecchire.
Molto meglio, sostengono dalla rivista medica “The Lancet”,
limitare ad informare senza nulla vietare.
Molto meglio, diciamo noi, evitare di bere quando poi ci si deve
mettere alla guida.
Le cosiddette “stragi del sabato sera” non sortiscono
grandi effetti fra gli adolescenti, ma le famiglie che ne rimangono
le inconsapevoli e innocenti vittime, invece, trascinano il loro
dramma per l’intera vita.
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