150 E DINTORNI SFATIAMO ALCUNI MITI SULLA VELOCITA’. ANALISI DELLA SITUAZIONE NEGLI STATES E IN GERMANIA, DOVE E’ SBAGLIATO PENSARE CHE NELLE AUTOSTRADE SI PUO’ CORRERE A PIACERE. C’E’ ADDIRITTURA CHI VORREBBE LA FORMULA 30-80-100. di Lorenzo Borselli* | |
La velocità è pericolosa e uccide. E anche quando ad innescare un incidente concorrono altre componenti relative al comportamento – una precedenza non concessa o un sorpasso in cui tale manovra sia vietata – la velocità rende più gravi le conseguenze dell’impatto, come ci confermano correnti di pensiero ormai consolidate e che fanno parte della letteratura medico legale e giurisprudenziale. In Germania sono ispirazione di un movimento che chiede a gran voce, da oltre vent’anni, l’abbassamento generale dei limiti di velocità; ma prima facciamo un salto in America, dove la velocità eccessiva è severamente punita e, soprattutto, perseguita secondo un modello operativo di tolleranza zero. Qui ogni fenomeno che si verifica sulla strada è oggetto di un continuo ed incessante monitoraggio da parte della NHTSA, acronimo di National Highway Traffic Safety Administration, un’agenzia federale che si occupa di raccolta ed analisi dei dati provenienti da tutte le strade dell’Unione. Negli Stati Uniti infatti la velocità è divenuta sinonimo di morte a partire dal 1952, quando qualcuno si prese la briga di far notare che in quei giorni il numero di morti da violenza stradale aveva raggiunto quelli provocati dalle guerre, con la differenza che a fare conto pari c’era voluto assai meno. Il bollettino nero della strada si era inaugurato in un nebbioso mattino di ottobre, nel 1899, quando sulle strade di New York un pedone venne falciato da un macinino traballante, mentre la conta dei caduti in conflitti per la patria era iniziata nel 1775, all’indomani dei primi moti di indipendenza. Nel 1952 i morti da sinistro stradale – nelle Americhe fatal accident – raggiunsero l’incredibile numero di un milione e 5.600, tanti quanti il piombo e i cannoni inglesi, i kamikaze giapponesi e gli Stukas tedeschi sui litorali europei, o gli agguati nelle jungle della Corea ne avevano falciati in 177 anni. Questa prima riflessione iniziò la mutazione delle coscienze americane, ma è solo in nome di una banale ragione economica che gli Stati Uniti, nel 1973, decidono di abbassare il limite di velocità sulle highways e sulle freeways. La crisi petrolifera premeva e allora si cercò di risparmiare propellente facendo alzare il piede pesante degli americani fino a 55 miglia orarie (88 km/h circa), ottenendo un risultato inatteso: su tutta la rete stradale, il numero di morti diminuì del 16%. Da allora niente è cambiato. Ad onore del vero effetti analoghi vennero rilevati anche in Italia, quando il ministro Enrico Ferri – nel 1989 – fissò il limite di velocità su tutte le autostrade a 110 km/h, suscitando le ire cieche e sdegnate, fomentate da opposizioni e molti media, fino alla demagogica richiesta, accolta, di aumentare di nuovo limiti e vittime. Oggi, proprio qui in Italia, in un momento in cui anche l’OMS parla di velocità come causa principale di morte sulla strada, siamo all’esatto contrario, con innalzamenti ingiustificati (e inutili) dei limiti da 130 a 150 orari. Nessuno nega che certi particolari tratti di autostrada possano prestarsi a velocità di crociere più elevate, ma è altrettanto vero che le probabilità di incorrere in un sinistro aumentano se la velocità di percorrenza sarà più elevata, fattore questo che ne renderà comunque più gravi le conseguenze. E qui dobbiamo fare un salto in Germania, che nell’immaginario collettivo degli automobilisti italiani è considerata modello di modernità e democrazia proprio per la sua tradizionale libertà di correre senza freni: niente di più falso. In realtà i tratti in cui si può correre senza freni, in Germania, sono pochissimi, utili solo a sfogare i bollenti spiriti di qualche amante della velocità. Sull’autostrada Francoforte - Berlino, arteria chiave della viabilità teutonica, si può dare libero sfogo ai propri istinti solo in 50 km su 550 dell’intera tratta, e per piccoli tratti per volta. Per il resto la segnaletica, severissima, induce a riportare la lancetta del tachimetro a più miti consigli: in autostrada si deve stare sempre tra gli 80 e i 130 orari, con lunghi tratti a 110 o 120 e, se si deve transitare sotto manufatti o nei pressi di svincoli particolarmente insidiosi, si deve rallentare fino a 100 km/h. L’applicazione rigida della norma ha consentito di ridurre in maniera determinate la mortalità, con radar su radar, molti dei quali piazzati in cantieri e nei tratti più pericolosi (black points), senza che la presenza della polizia sia necessaria e, soprattutto, percepita. Eppure, nel nostro già smentito Whalalla della velocità, c’è ancora spazio per chi reclama un ulteriore abbassamento dei limiti: si tratta di un movimento nato negli anni ’80, quando la Germania era alle prese con una vera e propria ecatombe stradale, che chiede una più restrittiva regimentazione delle velocità massime, pretendendo – sulla scorta di dati e studi scientifici – di fissare nuove limitazioni a 30 km orari sulle strade urbane, a 80 su quelle extraurbane ed a 100 sulle autostrade. In linea di principio la tesi sostenuta è quella che una diminuzione generalizzata dei limiti di velocità potrebbe contribuire a una guida più consapevole in tutte le strade. Una sorta di limite psicologico, un’intuizione che l’Asaps, col suo presidente Giordano Biserni, ha avuto sin dagli albori della proposta del dicastero delle Infrastrutture e Trasporti di portare a 150 orari il limite in alcuni tratti autostradali. Ci spieghiamo meglio: se ci sono delle arterie su cui è possibile – per legge – affondare il piede sull’acceleratore fino a toccare i 150 km/h, è assai probabile che nella testa del conducente il vero limite da non oltrepassare sia quello oltre il quale scatterebbe – nella remota ipotesi di un accertamento strumentale – il ritiro della patente di guida e una decurtazione sostanziosa di punti (10 in tutto) dalla propria riserva di trasgressione, vale a dire 200 orari (tolleranza compresa). Questa non è solo un’ipotesi, ma una ragionevole certezza empirica, che noi del mestiere possiamo utilizzare con tranquillità a difesa dei nostri principi. Abbiamo già constatato, direttamente dalla prima linea, come una parte di guidatori – ad oggi – ritenga normale viaggiare a 170 all’ora in autostrada, almeno dove sia materialmente possibile mantenerla. Il movimento che in Germania chiede la riduzione della velocità parte proprio da questa logica deduzione, dando forza alle proprie tesi con dati e studi scientifici, dai quali emergerebbe che un’adozione generalizzata di questi limiti, in Germania, consentirebbe un calo della mortalità stradale del 40% in autostrada, del 20% sulle strade extraurbane e del 30% sulle strade urbane; in questo contesto, però, ne trarrebbero maggior giovamento i pedoni, categoria che con l’istituzione di una limitazione massima di 30 km/h vedrebbero scendere il numero dei decessi del 70%. Secondo i promotori del rallentamento, infatti, un pedone investito da un autoveicolo che al momento dell’impatto si trovi a procedere a 30 km/h avrebbe il 5% di probabilità di morire, secondo un coefficiente destinato ad aumentare in maniera esponenziale con una maggiore velocità di percorrenza. Già a 50 all’ora, velocità massima comunemente consentita negli spazi urbani, il rischio morte salirebbe del 40%, mentre a 70 orari ci sono 80 possibilità su 100 di morire. La domanda che ci poniamo è: siamo pronti per una proposta di questo genere? Siamo davvero certi di voler alzare il piede dal gas? In gioco ci sono da una parte la sopravvivenza sulla strada, possibile grazie ad un comportamento evoluto e consapevole di chi la usa per spostarsi, dall’altra l’ebbrezza di velocità sempre più alte e confort sempre maggiori (oltre che una crescente sicurezza passiva dei veicoli), che la tecnologia moderna mette a disposizione. Nessuno sembra pensare che gli eventuali risparmi di tempo prodotti da velocità elevate, sono puntualmente vanificati dalle lunghe file, per cantieri certo, ma anche per incidenti. E il cerchio si chiude.
* Sovrintendente Polizia Stradale |