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Articoli 02/08/2004

Sul danno biologico e morale “iure hereditario”

Sul danno biologico e morale
“iure hereditario”

a cura di Michele Leoni*

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11003 del 14 luglio 2003, ha impresso un’ulteriore accelerazione alla progressiva “umanizzazione” che la materia della liquidazione del danno biologico e morale sta registrando da qualche anno a questa parte. La decisione riguarda il cosiddetto danno “iure hereditario”, ossia quello spettante agli eredi di una persona deceduta (nel caso di specie, a seguito di investimento sulle strisce pedonali), in relazione alle limitazioni e al patimento subiti da questa nel periodo intercorrente fra l’evento lesivo e la morte. La Corte ha chiarito che il danno individuabile in tale periodo terminale della vita (detto per questo anche “danno terminale” non può essere liquidato facendo ricorso ai normali parametri tabellari di liquidazione del danno biologico o morale (quelli, cioè, che si usano quando la persona continua a vivere), in quanto la mera adozione di tali criteri, asettici, matematici, non tiene conto del peso straordinario del danno morale sicuramente maturato nel tempo dell’agonia (nella fattispecie decisa, ventinove giorni). Per essere più eloquente ed efficace, la Corte ha anzi parlato di “straziante agonia” (con un accenno alle lesioni diffuse in tutto il corpo, che affliggevano la persona poi morta).
Infatti, ha affermato la Corte, nel danno biologico e morale c. d. terminale “i fattori della personalizzazione devono valere in un grado assai elevato”, a differenza di quanto avviene, invece, laddove la salute del danneggiato tende a migliorare o, quanto meno, a stabilizzarsi. La gravità delle lesioni e l’intensità del dolore, infatti, devono essere qui considerati in maniera specifica, sì da connotare una vera e propria tipologia, quella dei soggetti predestinati alla morte. In ciò si sostanzia la “personalizzazione” del danno.
In effetti, vi è una sensibile differenza fra le vicende di chi sopravvive a un incidente (se pure in termini di grave menomazione) e chi invece, a causa di esso, muore. In primis, come ha detto la Corte, il fatto “storico” della morte, intervenuta come ineluttabile evoluzione delle lesioni subite, già è indice in re ipsa della gravità delle lesioni. E a questa situazione particolare non può non riconoscersi un valore aggiunto. Inoltre, alla dimensione soggettiva del dolore patito nel tempo dell’agonia, a propria volta, non si può non ricondurre una identità speciale. Sia per la verosimile intensità “straziante” del dolore fisico (per ripetere le parole usate dalla Corte), sia anche per il peso abissale che al morituro può derivare dalla consapevolezza (o dalla paura non manifestamente infondata) di essere ormai votato alla morte e non avere più futuro.
Proprio questo ultimo punto, forse, consente di raccordare la pronuncia della Suprema Corte a nuovi ed impregiudicati spazi di riconoscimento del danno (in particolare, di nuove categorie concettuali di danno), imperniate sul dolore, l’essenza psichica della sofferenza, la dimensione esistenziale dell’uomo. Tutte le volte che questi aspetti vengono coinvolti e l’aspettativa stessa di vita viene meno o si affievolisce grandemente, infatti, c’è un danno ben qualificato. La negazione del futuro (come la riduzione della possibilità di godere del futuro), infatti, è un pregiudizio a sé, definitivo, non rielaborabile, che sta al di fuori delle facoltà umane. Viverci a ridosso e attendere che essa si compia, è un’anticamera alla quale, forse, nessun risarcimento è equamente rapportabile.

Gip presso il Tribunale di Forlì.


di Michele Leoni

da "Il Centauro" n.88
Lunedì, 02 Agosto 2004
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