La Corte
di Cassazione, con la sentenza n. 11003 del 14 luglio 2003, ha impresso
un’ulteriore accelerazione alla progressiva “umanizzazione”
che la materia della liquidazione del danno biologico e morale sta registrando
da qualche anno a questa parte. La decisione riguarda il cosiddetto
danno “iure hereditario”, ossia quello spettante agli eredi
di una persona deceduta (nel caso di specie, a seguito di investimento
sulle strisce pedonali), in relazione alle limitazioni e al patimento
subiti da questa nel periodo intercorrente fra l’evento lesivo
e la morte. La Corte ha chiarito che il danno individuabile in tale
periodo terminale della vita (detto per questo anche “danno terminale”
non può essere liquidato facendo ricorso ai normali parametri
tabellari di liquidazione del danno biologico o morale (quelli, cioè,
che si usano quando la persona continua a vivere), in quanto la mera
adozione di tali criteri, asettici, matematici, non tiene conto del
peso straordinario del danno morale sicuramente maturato nel tempo dell’agonia
(nella fattispecie decisa, ventinove giorni). Per essere più
eloquente ed efficace, la Corte ha anzi parlato di “straziante
agonia” (con un accenno alle lesioni diffuse in tutto il corpo,
che affliggevano la persona poi morta).
Infatti, ha affermato la Corte, nel danno biologico e morale c. d. terminale
“i fattori della personalizzazione devono valere in un grado assai
elevato”, a differenza di quanto avviene, invece, laddove la salute
del danneggiato tende a migliorare o, quanto meno, a stabilizzarsi.
La gravità delle lesioni e l’intensità del dolore,
infatti, devono essere qui considerati in maniera specifica, sì
da connotare una vera e propria tipologia, quella dei soggetti predestinati
alla morte. In ciò si sostanzia la “personalizzazione”
del danno.
In effetti, vi è una sensibile differenza fra le vicende di chi
sopravvive a un incidente (se pure in termini di grave menomazione)
e chi invece, a causa di esso, muore. In primis, come ha detto la Corte,
il fatto “storico” della morte, intervenuta come ineluttabile
evoluzione delle lesioni subite, già è indice in re ipsa
della gravità delle lesioni. E a questa situazione particolare
non può non riconoscersi un valore aggiunto. Inoltre, alla dimensione
soggettiva del dolore patito nel tempo dell’agonia, a propria volta,
non si può non ricondurre una identità speciale. Sia per
la verosimile intensità “straziante” del dolore fisico
(per ripetere le parole usate dalla Corte), sia anche per il peso abissale
che al morituro può derivare dalla consapevolezza (o dalla paura
non manifestamente infondata) di essere ormai votato alla morte e non
avere più futuro.
Proprio questo ultimo punto, forse, consente di raccordare la pronuncia
della Suprema Corte a nuovi ed impregiudicati spazi di riconoscimento
del danno (in particolare, di nuove categorie concettuali di danno),
imperniate sul dolore, l’essenza psichica della sofferenza, la
dimensione esistenziale dell’uomo. Tutte le volte che questi aspetti
vengono coinvolti e l’aspettativa stessa di vita viene meno o si
affievolisce grandemente, infatti, c’è un danno ben qualificato.
La negazione del futuro (come la riduzione della possibilità
di godere del futuro), infatti, è un pregiudizio a sé,
definitivo, non rielaborabile, che sta al di fuori delle facoltà
umane. Viverci a ridosso e attendere che essa si compia, è un’anticamera
alla quale, forse, nessun risarcimento è equamente rapportabile.
Gip
presso il Tribunale di Forlì.