Venerdì 27 Dicembre 2024
area riservata
ASAPS.it su

Rassegna stampa alcol e guida del 5 giugno 2005

RASSEGNA STAMPA "ALCOL E GUIDA"

Note a cura di Alessandro Sbarbada
Servitore-insegnante in un Club degli Alcolisti in trattamento a Mantova.


L’UNIONE SARDA
Dori Ghezzi racconta la Sardegna di Fabrizio
Incontri. Parla la compagna del cantautore, scomparso nel 1999
«Lui era un vero anarchico, non sarebbe mai stato al potere».

È la stessa biondina degli anni Settanta. Solo la linea è appena meno scattante e il sorriso parsimonioso. Dori Ghezzi sembra perdersi dietro la grande scrivania nel suo studio di Milano, sede della Fondazione Fabrizio De André inaugurata nel 2001. La protegge una grande tela alla parete - realizzata dal pittore sardo Pino Mallai - che ritrae il cantautore genovese con l’immancabile chitarra, in alcune pose giovanili e prima della scomparsa, nel ’99. La cantante che ha fatto epoca e scandalo in coppia professionale e nella vita con Wess, musicista americano, ha un legame forte con la Sardegna: «Tanti carissimi amici, la casa e la tenuta all’Agnata», dove tutto è rimasto come allora. Il doloroso rapimento del 1979 del quale fu vittima con De André non ha lasciato apparenti tracce di rancore. Un episodio incancellabile che non le ha impedito di continuare a dichiararsi innamorata dell’isola, «conosciuta grazie a Fabrizio, e amata perché la Sardegna per me è Fabrizio». Una volta voleva lasciarla definitivamente. «Mai avuta l’idea di farlo. Il ritorno all’Agnata senza di lui è stato traumatico ma l’intenzione di lasciarla non c’è stata». Negli anni Settanta un grande successo musicale poi è sparita dalla scena. Perché? «Una scelta autonoma contro il parere di molte persone. Anche di Fabrizio, che si era proposto di comporre per me». I valori che ha più condiviso con lui. «ll più importante è il rispetto, nessuno si è mai imposto sull’altro. Diceva "Dori non si sognerebbe mai di parlarmi della montagna mentre sa che io sto pensando al mare"». Con il sequestro del ’79 c’erano tutti i motivi per odiare la Sardegna invece ne avete decantato la grandezza. Davvero nessun rancore? «Assolutamente no.  Sono atti generati da problemi, abbiamo capito perché alcune persone hanno agito in quel modo. I nostri carcerieri erano a loro volta dei carcerati, costretti ad accettare certe condizioni per sopravvivere». "Il bandito è quello che non ho, è una camicia bianca, è un conto in banca". Ma i banditi erano solo piccolo borghesi. «Alcuni di loro sì, quelli che hanno pensato il sequestro, non quelli che come noi l’hanno subìto».  Se De André non ha assolto ha quasi giustificato il banditismo. Però i banditi non sono né poveri né bisognosi. «Molti di loro sono stati vittime di un sistema, e la società non ha fatto nulla per recuperarli». La delusione più grande per Fabrizio è stata il tradimento da parte di persone che gli erano vicine. Un carceriere conosceva la vostra casa. «Forse non siamo mai stati neppure presentati. Non era tempiese ma viveva a Tempio e aveva legami con persone che conoscevano anche noi, ma non è mai stato ospite in casa nostra. Se c’è stato in nostra assenza è un’altra cosa». È vero che i banditi sono stati rispettosi nei vostri confronti? «I nostri carcerieri si sono anche vergognati». È vero che avete dovuto restituire al padre di De André i 650 milioni del riscatto? «È una falsità. Fabrizio diceva "Voglio lavorare per restituire", ma il padre non avrebbe mai accettato». Lei ha dichiarato che la Sardegna è la sua terra. Quanto è vero senza Fabrizio? «Per me la Sardegna è Fabrizio. Ci ero stata poche volte per lavoro, poi l’ho scoperta e amata con lui. Tuttora mi lega a lui». De André cantava l’emarginazione, la solitudine, le ingiustizie, la sofferenza. Come porta avanti questa eredità morale? «Non mi è difficile perché è una sensibilità comune, anche se posso solo immaginare come Fabrizio abbia vissuto certe miserie umane». Quale confine tra pubblico e privato per un cantautore anarchico, con l’ansia di cambiare il mondo? «Il privato c’era meno di quanto si possa immaginare. Non era schivo come dicevano, era molto aperto e disponibile con tutti. Quello che ha cantato non è stato raccontare ma ciò che ha sentito». Il rapporto tra De André e gli anarchici sardi. «Non frequentava le persone in base ad un’appartenenza. Magari erano persone con i suoi stessi ideali, stesso modo di esprimersi e allora poteva nascere un’amicizia». In quale Sardegna credeva? «Credeva in quella che gli ha fatto realizzare un sogno: comprare un pezzo di terra, non per la villetta, ma diversi ettari per farci un allevamento e dedicarsi all’agricoltura». Gli offrirono la candidatura al consiglio regionale della Sardegna. Perché rifiutò? «Molti glielo chiedevano, spesso anche pour parler, ma lui era un vero anarchico e come tale non avrebbe mai potuto essere uomo di potere». Lei ha autorizzato il rifacimento di Non al denaro, non all’amore né al cielo, l’opera di De André tratta da Spoon River: non le sembra una profanazione? «Allora bisognerebbe alienare tutti quelli che strimpellano in spiaggia le sue canzoni, o chiunque incida un disco con un suo brano. Tutti possono cantare come vogliono: sarebbe Fabrizio il primo a dire "ciò che finisce con me inizia con me"». Lui poteva permettersi di aggiungere qualcosa a Lee Masters; Morgan non rischia di togliere qualcosa a De André? «Non ha tolto né corretto nulla. È stato così rigoroso che anzi, gli ho proposto di inserire un suo brano su un personaggio di Spoon River che Fabrizio non ha colto, ma non l’ha fatto. Morgan ha riportato in classifica anche il disco originale. Cosa c’è che non va?» Gli estimatori pensano a una speculazione commerciale: "Per ricordarlo basta la sua poesia in musica. Di Faber ce n’è uno solo". Cosa risponde? «Che lui avesse una marcia in più, una voce splendida nessuno può dimenticarlo, ma questo non significa che altri non possano esprimersi sulle sue canzoni». Fernanda Pivano lo definisce il Bob Dylan italiano, il primo musicista che suona la poesia. Come pensa di proteggere questa immagine? «Non ha bisogno di essere protetta. Nessuno deve far nulla perché Fabrizio è talmente amato e rispettato che ha fatto tutto da solo». Diceva "mi sento un poeta ma la canzone non sarà mai riconosciuta come tale". Soffriva di una condizione di subalternità? «Sarebbe ancora di quel parere ma in generale, perché lui non sapeva, non ha mai pensato di essere un poeta. Aveva anche molti dubbi, paura di raccontare cose banali. Per tutta la vita è stato studente, non si è mai sentito maestro né ha pensato di dover insegnare qualcosa a qualcuno». Esisteva un patto scellerato tra il poeta e l’alcool? «Penso di sì, ma il patto si è rotto e ha vinto l’esistenza. Cosa che non è successa col fumo» (*). C’era simpatia tra lui e Celentano? «Solo un incontro. Dopo un concerto di Celentano in tv, Fabrizio si commosse nell’ascoltare le sue vecchie canzoni e gli mandò un telegramma. Recentemente, organizzando l’archivio per la Fondazione ho trovato sue interviste dove parlava sempre bene di Celentano». Cantanti e gruppi sardi rielaborano le canzoni di suo marito, i Comuni gli dedicano vie e piazze. Si cerca un riscatto per un’offesa che lui non ha mai condannato? «I sardi non devono riscattarsi di niente, Fabrizio non ha mai creato sensi di colpa e ha fatto di tutto per non crearne. Se il nostro caso è servito a migliorare la situazione, ben venga». Non le leggi ma la coscienza ha arginato il fenomeno? «Credo fosse una questione di cultura. Poi le mamme avranno capito che far cambiare mentalità ai figli avrebbe migliorato le cose e forse è così». Per Fabrizio l’elemento nostalgia è simile alla depressione: la Fondazione è un po’ sinonimo di nostalgia, no? «La Fondazione non è un fatto di nostalgia ma un mezzo per valorizzare il suo pensiero, soprattutto quello rivolto alle minoranze». Anna Piccioni
 
(*) Nota: ho scelto di mettere questo interessantissimo articolo in testa alla rassegna di oggi per vari motivi.
Fabrizio De Andrè è stato ed è un artista straordinario, che ha lasciato una traccia importante con la sua vita e le sue opere immortali.
L’ho incontrato personalmente un anno prima che morisse, e ho avuto la prova di quanto fosse davvero una persona aperta, cortese e disponibile all’incontro.
Molti conoscono i problemi di alcol che De Andrè ha avuto per una lunga parte della sua vita, ma pochi sanno della sua scelta di smettere di bere sul letto di morte del padre, e della conseguente completa astinenza dell’alcol negli ultimi nove anni di vita.
“Il patto si è rotto e ha vinto l’esistenza” è una frase bellissima, che a mio parere rappresenta molto bene quello che succede quando una persona con sofferenze alcolcorrelati decide di smettere, e ci riesce.
Ma c’è un altro motivo che mi ha spinto a sottolineare questo articolo: in 16 anni passati al fianco di famiglie devastate dal bere, che hanno cercato (e quasi sempre trovato) la strada per recuperare sobrietà e serenità, ho visto tanti, troppi amici, che, come De Andrè, sono stati poi distrutti, uccisi dal fumo.
Certo prima o poi si deve morire, ma fa male vedere persone che, avendo abbandonato vino, birra e alcolici, stanno recuperando l’amore per la vita, le relazioni con i loro cari, e poi vengono ammazzati dalla sigaretta.

IL SECOLO XIX
Il vino fa buon sangue, appuntamento a Carpeneto.
Carpeneto Il vino fa buon sangue. E se ci sono anche i prodotti tipici è davvero un bel vivere. La tavola rotonda "Vino & Salute" con il progetto medico salutistico "Il vino fa buon sangue-studio comparato su 100 volontari Avis" caratterizza la terza edizione di "Vino in rosa", in programma oggi pomeriggio a Carpeneto, organizzato dal Centro Sperimentale Vitivinicolo della Regione Piemonte Tenuta Cannona. Nel quadro della rassegna si svolge l’iniziativa scientifica che rilancia la sfida della qualità come strumento di benessere e valorizzazione del territorio.
Il pomeriggio in rosa dedicato al vino avrà inizio alle 16 con la presentazione del progetto medico-salutistico "Il vino fa buon sangue", che apre la Tavola Rotonda "Vino & Salute, il rosso che fa bene". Moderatore Paolo Massobrio, interverranno l’enologa e produttrice Patrizia Marenco sul tema "I polifenoli nel vino rosso", il prof. Giovanni Grati cardiologo internista con la relazione "Il vino nella prevenzione della malattie cardio-vascolari" , il dottor Pier Giacomo Betta con il lavoro "Vino salute e prevenzione oncologica", il dottor Massimo Labate, specialista in Scienza dell’Alimentazione con la relazione "In Vino Veritas: viaggio nutrizionale tra falsi miti e realtà". Il dibattito scientifico qualifica la terza edizione, ma è l’ospitalità che scalda il cuore di questo appuntamento immerso nelle cantine e nello sconfinato parco della Tenuta Cannona, luogo ideale per una speciale merenda all’aperto all’insegna della tradizione. Alle 17 Banco d’assaggio dei vini delle 27 produttrici, e Merenda Sinoira con prodotti tipici e risotto alle fragole. Per tutto il pomeriggio si potrà visitare la Mostra Fotografica "Vino e....dintorni".
Un contorno di arte, musica, poesia per sperimentare la conoscenza diretta del teritorio di provenienza del vino o terror. Nel senso più ampio il termine francese indica quell’insieme di paesaggi, usi e costumi, che un’etichetta da sola non basta a trasmettere, ma che le donne, anche meglio del vino sanno raccontare.
Per tutto il pomeriggio degustazioni con le 27 produttrici capitanate dalla presidente del Consorzio di Tutela del vino Dolcetto d’Ovada Graziella Priarone dell’azienda La Guardia di Morsasco. Nell’elenco prevalgono le produttrici di Dolcetto della zona di Ovada, Tra conferme e novità Chiara Soldati de La Scolca e altre 9 produttrici della zona del Gavi, Laura Zavattaro e Silvia Beccaria le produttrici del Barbera nel Monferarto Casalese, ai nomi Marenco-Castellucci è affidato l’Assaggio del Brachetto d’Acqui, Franca Dezzani, Bruna Ferro, Susanna Galandrino le rappresentanti dell’Asti, da Aglié in provincia di Torino Lia Falconieri.
Daniela Terragni.
CORRIERE SALUTE
STEATOSI EPATICA
Fai dimagrire il fegato
SERVIZIO DI FRANCO MARCHETTI.
Ne soffre circa un quarto della popolazione adulta dei Paesi occidentali. Per fortuna nella maggior parte dei casi la steatosi epatica concede tutto il tempo per correggere i fattori che ne hanno favorito la comparsa senza compromettere il funzionamento del fegato, ma non va sottovalutata. In un discreto numero di casi, infatti, può andare incontro a evoluzione, con la comparsa di un danno progressivamente maggiore del fegato, fino ad arrivare, nei più sfortunati, alla cirrosi. Il primo segno è in genere rappresentato dal fatto di avere un fegato "brillante" all’ecografia: a farlo brillare è l’eccessivo accumulo di grasso nelle sue cellule, quello che viene appunto definito come "steatosi". Limiti
In condizioni normali il fegato contiene grasso per non più del 5% del totale: si parla di steatosi quando si supera questo limite, anche se in realtà per essere visibile all’ecografia la quota deve superare il 30%. Una condizione che viene in genere scoperta per caso, magari perché facendo gli esami del sangue si trovano valori di "transaminasi" o di "gamma GT", gli esami tipici del fegato, alterati, per cui il medico consiglia un’ecografia. Più spesso però gli esami sono normali e l’accumulo di grasso viene svelato perché, facendo un’ecografia per tutt’altro motivo, si scopre di avere un fegato "brillante". Una condizione che un tempo veniva ricondotta all’eccessivo consumo di alcol, che in realtà si è visto essere in causa solo in una parte dei casi.
Più spesso l’accumulo di grasso non è assolutamente legato all’alcol: si parla in questi casi di "steatosi non-alcolica". «È la malattia delle persone sane, di chi mangia bene e fa una bella vita» puntualizza il professor Gaetano Ideo, direttore del Dipartimento di Epatologia dell’Ospedale San Giuseppe di Milano. Ma non solo: è anche una condizione molto frequente in chi è colpito da una delle malattie tipiche del mondo occidentale. «Nell’80-90% dei casi le cause sono dismetaboliche: - prosegue l’esperto - sono pazienti in soprappeso, che fanno poco movimento, che sono affetti da diabete o da dislipidemia (colesterolo e/o trigliceridi alti)». C’è poi una parte di soggetti in cui esiste una predisposizione genetica. «Ci sono giovani di 20 anni con steatosi che non sono in sovrappeso e che hanno il colesterolo normale, - aggiunge Ideo - ma quando si va a indagare si scopre che hanno una familiarità per malattie cardiovascolari o per diabete».
Gli stretti rapporti con obesità, diabete e dislipidemia aiutano a capire perché la steatosi sia tanto diffusa e, non a caso, sia stata fra i protagonisti del recente congresso dell’EASL, Associazione europea studio del fegato.
«Complessivamente una steatosi è dimostrabile nel 20-25% della popolazione - prosegue l’esperto -. Se poi si va nelle categorie a rischio, per esempio nei diabetici o in coloro che hanno il colesterolo elevato, si trovano percentuali del 70-80%». Fra gli adulti in soprappeso la percentuale può arrivare al 90%, mentre un’altra condizione in cui la steatosi è presente nella metà circa dei casi è l’epatite C. E anche i bambini non sono risparmiati: riguarda un quinto di quelli con qualche chilo di troppo».
La Nash
Oltre alla sempre maggiore diffusione del problema, ciò che preoccupa gli esperti è la possibilità che una parte di queste steatosi possa assumere un andamento progressivo ed evolvere in una forma di epatite, la Nash (Non-alcoholic steatohepatitis), una malattia di cui si è cominciato a parlarne solo negli anni ’80.
«La steatosi non-alcolica è un termine generico che si riferisce a qualsiasi accumulo di grasso nel fegato che sia indipendente dall’alcol. La Nash invece indica che l’accumulo di grasso ha indotto un’epatite, una reazione infiammatoria - precisa Antonio Craxì, Ordinario di Gastroenterologia all’Università degli Studi di Palermo -. Si stima che circa un quarto dei soggetti con steatosi vadano incontro alla Nash». In questo caso, oltre all’accumulo di grasso si ha la comparsa nel fegato di fibrosi conseguente ai processi infiammatori. A loro volta una minoranza di coloro che sviluppano una Nash, si calcola intorno al 15%, possono presentare un’ulteriore evoluzione in cirrosi.
Ma chi fra coloro che hanno una semplice statosi è più a rischio di incorrere nella Nash? «La genetica gioca un ruolo importante che spiega perché, se consideriamo persone assolutamente identiche con un analogo accumulo di grasso, alcune sviluppano il danno progressivo e altre no - prosegue l’esperto -.
Va detto poi che noi parliamo di steatosi non alcolica, ma in realtà la maggior parte dei soggetti un po’ beve, e il consumo di alcol si somma agli altri motivi che da soli potrebbero non essere in grado di determinare l’evoluzione. Se, cioè, chi ha il fegato grasso, a causa dell’obesità, del diabete piuttosto che dei trigliceridi elevati, beve anche alcolici, ha più probabilità di sviluppare un danno progressivo, perché i due fattori si sommano».
Resistenza all’insulina
Ovviamente è possibile che un’evoluzione si inneschi anche nel caso in cui prosegua nel tempo l’esposizione ai fattori che hanno provocato l’accumulo di grasso nel fegato. Gli studi mostrano come sia obeso fra il 60 e il 100% di chi soffre di Nash e come questa condizione sia presente in un’alta percentuale di diabetici di tipo II e di persone con colesterolo alto (i valori percentuali variano molto secondo gli studi, ma sono comunque quasi sempre sopra al 20%).
Il meccanismo che probabilmente gioca un ruolo centrale nel provocare la steatosi, ma anche nel favorirne l’evoluzione verso la Nash, è rappresentato dalla resistenza all’insulina, l’ormone che permette l’utilizzo dello zucchero da parte delle cellule. Se c’è una insulinoresistenza si ha, in genere, anche un aumento dell’insulina presente nel sangue, due condizioni che favoriscono l’arrivo di grassi al fegato. Essendo diminuita la possibilità di utilizzare lo zucchero come carburante delle cellule, infatti, l’organismo cerca alternative e una di queste è rappresentata proprio dalla liberazione da parte del grasso viscerale di acidi grassi che vengono portati al fegato, dove si accumulano. Inoltre, nelle stesse cellule del fegato si verifica un aumento della produzione di acidi grassi proprio a partire dagli zuccheri.
Sindrome metabolica
Vale la pena ricordare che l’insulinoresistenza rappresenta il meccanismo alla base anche della cosiddetta "sindrome metabolica", una condizione che comporta un importante aumento del rischio cardiovascolare e che è caratterizzata da un aumento della glicemia, da un’alterazione dei grassi, dall’aumento della pressione arteriosa e da obesità addominale. I problemi del fegato sembrano, dunque, intrecciarsi con quelli del cuore, entrambi favoriti dalle alterazioni metaboliche. La scoperta di una steatosi potrebbe perciò rappresentare anche la spia di un maggior rischio cardiovascolare.
Come rimediare
Che cosa fare, dunque, se si scopre un fegato grasso? «In primo luogo, è necessario capire qual è la causa della steatosi - sottolinea Craxì -. Quando la si trova, non bisogna adagiarsi sul consiglio un po’ generico di non mangiare troppi grassi. Bisogna procedere a uno studio adeguato del fegato per vedere quali sono le cause». Sarà opportuno effettuare, oltre agli esami di funzionalità del fegato, la ricerca dei virus dell’epatite, in particolare quello della C, e delle diverse malattie la cui presenza favorisce la steatosi, oltre a considerare eventuali farmaci in grado di provocarla.
Sarebbe utile, inoltre, escludere l’eventuale presenza di steatosi in tutti coloro che hanno condizioni di rischio, quali diabete, obesità, alterazione dei livelli di colesterolo e trigliceridi. «Anche perché queste sono tutte condizioni che non danno disturbi - aggiunge l’esperto - e si rischia di accorgersi dalla steatosi che vi si accompagna solo quando il danno strutturale del fegato è già comparso». Anche quando c’è già una steatoepatite, infatti, la sofferenza del fegato non determina particolari manifestazioni. Rispetto alla steatosi semplice, il fegato può risultare un po’ più grosso, i livelli delle transaminasi possono essere un po’ più elevati e possono essere un po’ aumentati anche i valori di altri esami del fegato, come le gamma GT e la fosfatasi alcalina. L’unico esame che permette di distinguere con sicurezza la steatosi semplice dalla NASH è la biopsia del fegato, che però il più delle volte non è necessaria in presenza di una statosi.
CORRIERE SALUTE
EpatiteC
Terapie per i resistenti.
Si allargano le indicazioni al trattamento dell’epatite C. Da un lato, viene proposto di trattare i portatori dell’infezione che presentano normali livelli di transaminasi, mettendo così in discussione la strategia attendista fin qui seguita, che prevedeva di limitarsi a tenerli soltanto sotto controllo.
Dall’altro lato si sta valutando la risposta ai nuovi interferoni pegilati nei pazienti in cui la terapia con le precedenti formulazioni di interferone non aveva funzionato.
«Circa un terzo dei portatori di infezione da virus dell’epatite C mantiene le transaminasi a livelli normali - spiega Alfredo Alberti, professore associato di Terapia medica all’Università di Padova -. Ma mentre nel passato si pensava che per questi soggetti non vi fossero problemi, oggi, in realtà, si riconosce che il fatto di essere portatori dell’HCV, (sigla per il virus dell’epatite C) anche con transaminasi normali, rappresenti di per sé un fattore di rischio per una patologia epatica a medio e lungo termine. E questo sia perché il virus può comunque danneggiare il fegato anche senza dare segni sulle transaminasi, sia perché il fatto di avere il virus nel fegato può interferire con altre cause di danno epatico, quali, per esempio, l’alcol, il dismetabolismo, oppure la steatosi. Anche in presenza di transaminasi normali vi è dunque la possibilità di un’evoluzione della malattia. Da qui la scelta di provare a eliminare il virus anche nei cosiddetti portatori sani». Tentativo che oggi può essere confortato dai risultati di diverse sperimentazioni.
«Uno studio ha dimostrato che la terapia con peginterferone alfa 2a e ribavirina elimina il virus nel 52 per cento dei pazienti - aggiunge l’esperto patavino-, anche se con ovvie differenze, in funzione del genotipo del virus. In presenza del genotipo 1 (il più difficile da trattare), la risposta è stata del 40 per cento, ma ha raggiunto il 70-80 per cento nei pazienti con genotipo 2 o 3, che sono di solito più sensibili ai trattamenti antivirali».
A sostenere la validità di questa strategia sono anche i risultati di un’altra ricerca, presentata in occasione del congresso EASL (si veda l’articolo principale). Lo studio non solo conferma l’utilità di trattare questi pazienti, ma suggerisce di farlo presto. Nei soggetti con meno di 40 anni è stato possibile eliminare il virus di genotipo 1 nel 54 per cento dei casi, contro il 34 per cento di successi ottenuti negli ultraquarantenni.
Un comportamento simile si è osservato anche per i genotipi 2 e 3, eliminati completamente nel 79 per cento dei soggetti di età inferiore ai 40 anni e nel 69 per cento di chi aveva superato questa età. La maggiore efficacia e tollerabilità dei nuovi interferoni pegilati offre l’opportunità di ripetere il trattamento anche a chi non ha risposto a precedenti tentativi. Un intervento che può permettere di eliminare il virus in circa un quinto dei pazienti, percentuale che potrebbe diventare più alta in popolazioni selezionate di malati. Ne è convinta la professoressa Gloria Taliani, Ordinario di Malattie Infettive dell’Università di Roma, che ha coordinato uno studio italiano in cui 141 pazienti reduci da precedenti fallimenti terapeutici sono stati trattati con peginterferone alfa-2b e ribavirina per 48 settimane. «Il 20 per cento dei pazienti ha presentato una risposta virologica sostenuta alla fine della terapia e nei sei mesi successivi - spiega l’esperta -. Dallo studio è emerso come nei pazienti in cui la risposta alla terapia era avvenuta più tardi (dopo oltre 24 settimane) c’era una maggior probabilità di ricaduta dopo la sospensione del farmaco. Ciò suggerisce che questi pazienti dovrebbero continuare la terapia più a lungo». Selezionando bene i pazienti e trattandoli in maniera adeguata si può pensare di ottenere un successo in oltre un terzo di coloro che non avevano risposto alle terapie precedenti.
IL GAZZETTINO (Venezia)
Ieri mattina quattro chioggiotti a bordo di una Bravo hanno scatenato un’autentica baraonda rischiando di investire ignari passanti
Ubriachi alla guida, panico in centro
Inseguiti da una Volante sono stati infine bloccati in Corso e portati, a fatica, in Commissariato.
Chioggia
Un inseguimento degno dei migliori film americani quello che si è consumato ieri mattina a Chioggia. A scatenare la baraonda sono stati 4 chioggiotti alticci che, a bordo di una fiat Bravo, intorno alle nove ne stavano combinando di tutti i colori lungo il ponte di Isola dell’Unione. L’auto procedeva a forte velocità zigzagando tra gli altri veicoli e sfiorando biciclette e pedoni. Una comitiva di turisti appena scesa dal pullman, ha rischiato di essere travolta dall’auto e solo per una fatalità nessuno ne è uscito ferito. Una volante della Polizia di Chioggia casualmente si trovava proprio sul ponte e, dopo aver visto quanto stava succedendo, è scattata all’inseguimento. A sirene spiegate i poliziotti sono riusciti a raggiungerla nei pressi del Mercato Ittico e hanno intimato l’alt al guidatore. Tutto inutile. L’auto ha continuato la sua folle corsa verso il centro di Chioggia, a quell’ora già abbastanza affolatto. Qui solo per alcune fortuite coincidenze la Fiat Bravo non ha investito alcun pedone. Il suono della sirena della Polizia aveva infatti messo in allerta i passanti che erano rimasti tutti sopra il marciapiede. Solo una bambina di 4 anni, che camminava con i genitori lungo il ciglio della strada, ha rischiato di essere investita ma l’auto l’ha, fortunatamente, solo sfiorata. Nel frattempo, il personale della volante che si era gettata all’inseguimento dei 4 fuggitivi, aveva allertato la centrale di quanto stava succedendo. E così una seconda volante, davanti al commissariato si è messa di traverso lungo Corso del Popolo, sbarrando la strada alla Fiat Bravo e obbligando il guidatore a fermarsi. L’inseguimento è finito qui ed è invece cominciato il faccia a faccia tra la Polizia e i 4 fuggitivi che non volevano saperne né di uscire dalla macchina, né di consegnare agli agenti i propri documenti. Oltre al rifiuto sono partiti una serie di insulti e minacce che hanno indotto i poliziotti a trasferire i 4 all’interno degli uffici del commissariato. Impresa non facile che è costata diverse contusioni ad alcuni dei poliziotti intervenuti oltre che diversi danni al mobilio del commissariato preso a calci e pugni con estrema violenza. Per ora tutti e 4, con diversi precedenti penali alle spalle, stando a quanto riferiscono gli inquirenti, sono in stato di fermo nell’attesa che il loro arresto venga o no convalidato nella giornata di lunedì. Due di loro erano visibilmente ubriachi e forse anche sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Probabilmente avevano passato tutta la notte fuori e non avevano rincasato finendo con il diffondere il panico di mattino presto lungo il centro di Chioggia come non capitava da diversi anni. Marco Biolcati.
CORRIERE DELLA SERA
Al Gottardo 11 morti.
Il 24 ottobre del 2001 il camion guidato dal turco Sefi Aslan Ufacik comincia a sbandare e procedere a zig zag all’interno del tunnel del Gottardo. Dopo aver colpito le pareti della galleria, il mezzo si scontra con un altro autocarro che avanza nella corsia opposta. L’incidente provoca lo scoppio di un incendio che si propaga e investe 250 metri del tunnel. Il bilancio finale sarà di undici morti. Nel corpo dell’autista turco verranno trovate tracce di alcol: il sospetto è che fosse ubriaco.

IL MESSAGGERO (Pesaro)
AMORE MOLESTO
Ex moglie scatenata in un bar aggredisce anche due carabinieri
.

Spettacolo fuori programma, venerdì sera nella zona di piazzale D’Annunzio sul lungomare, ma con una protagonista conosciuta: almeno per le forze dell’ordine, che hanno già avuto a che fare con lei più di una volta e ne sono usciti quasi sempre piuttosto malconci. Anche stavolta lei, una marocchina di 36 anni (residente a Pesaro da anni e cittadina italiana), è riuscita a mandare un brigadiere al Pronto soccorso. Ma alla fine è stata imbottita di tranquillanti ed è stata rinchiusa nel carcere di Villa Fastiggi. L’accusa: resistenza e violenza a pubblico ufficiale.
All’origine del suo ennesimo “show”, ancora una volta, l’amore. O meglio, la passione malsana che continua a nutrire per l’ex marito, un barista pesarese: maltrattato, picchiato, costretto a denunciarla in più di un’occasione. L’altra sera, intorno alle 20, l’ex moglie si è presentata al bar dove lavora lui. Era già ubriaca, ma ha chiesto da bere altra birra. A questo punto, quando i baristi si sono rifiutati di servirla, ha perso il controllo: grida, sedie che volavano e clienti che scappavano. Dal bar hanno chiamato subito il 112 e, in pochi istanti, è arrivata una pattuglia dei carabinieri. Ma la donna (di corporatura molto robusta) era ormai una furia incotrollabile e anche i due militari che hanno cercato di bloccarla hanno dovuto penare parecchio: a uno ha graffiato la faccia, all’altro ha morso un dito della mano destra (il brigadiere si è poi fatto medicare al Pronto soccorso, ne avrà per quattro giorni). Tutto lo spettacolo, naturalmente, si è svolto davanti a un fitto pubblico di curiosi. La marocchina è finita in cella: per i medici del Pronto soccorso, che le hanno somministrato dei calmanti, non c’erano gli elementi per pensare a un ricovero coatto, in fondo era solo un caso di ubriachezza un po’ troppo molesta (*).
Che la donna abbia problemi, però, non è un mistero: un anno fa, tra l’altro, i carabinieri l’avevano salvata nel suo appartamento in via Settembrini, era svenuta e il fumo aveva già invaso tutta la casa. Poi, quando si era ripresa, aveva sgridato i soccorritori che per entrare le avevano rotto la finestra.
 
(*) Nota: non si parla di alcol molesto, ma di amore molesto. E poi “è solo un caso di ubriachezza”….
IL MESSAGGERO (Ancona)
Jesi, ubriaco aggredisce i carabinieri
JESI Momenti di tensione ieri nei locali del nuovo bar Cotidye, in pieno centro storico. Verso le 14 i titolari del locale hanno allertato i carabinieri per un uomo, un tunisino 40 enne con precedenti, che in evidente stato di ubriachezza molestava i clienti. Davanti ai militari, l’immigrato prima si è rifiutato di esibire i documenti, poi ha tentato la fuga attraverso il porticato della piazza. Immediatamente raggiunto, l’uomo ha reagito aggredendo i militari che comunque sono riusciti ad immobilizzarlo e a portarlo in caserma. Il tunisino è stato poi trasferito nel carcere di Montacuto. Domani a Fabriano sarà giudicato per direttissima per resistenza, violenza a pubblico ufficiale e lesioni personali.
C.A.d.E..
IL GIORNALE DI BRESCIA
S. Polo, magrebino ubriaco fugge e sventra l’auto dei carabinieri
Pur di fuggire da una discoteca di San Polo dove con due connazionali aveva seminato caos, un marocchino alticcio alla guida della sua auto ha sventrato l’Alfetta dei carabinieri. Illesi i due militari che hanno faticato non poco ad immobilizzare il nordafricano, poi arrestato.
L’ADIGE
Le due tragedie a Frosinone e Padova
Ammacca l’auto di papà, si uccide È il secondo caso in una settimana.
FROSINONE - Centinaia di persone hanno partecipato ieri pomeriggio ai funerali di Giordano Flavi, il ventiduenne che si è suicidato venerdì all´alba a Serrone, in provincia di Frosinone, gettandosi dalla mansarda di casa, dopo aver avuto un incidente stradale con l´automobile del fratello. Il giovane, l´altra sera, approfittando del giorno di festa, aveva deciso di trascorrere qualche ora insieme con alcuni amici, ed aveva preso la macchina del fratello. Durante il ritorno a casa, però, Flavi ha avuto un piccolo incidente stradale. Niente di grave, ma tanto è bastato evidentemente per turbare il ragazzo, il quale, rientrato a casa a La Forma, una piccola frazione di Serrone, all´alba ha deciso di farla finita, gettandosi dalla finestra della mansarda. Inutili tutti i soccorsi. Gli abitanti del piccolo paese vicino a Fiuggi, sconvolti per l´ assurda tragedia, hanno partecipato in massa al rito funebre nella chiesa del sacro Cuore a La Forma. È stata con molta probabilità la vergogna per aver ammaccato l´auto del fratello ad aver spinto Giordano Flavi a togliersi la vita. Il giovane, di 22 anni, aveva trascorso una serata come tante, in compagnia degli amici. Una birra al pub e poi il ritorno a casa sull´auto che il fratello maggiore gli aveva prestato. Nei pressi di Vado Scuro, Flavi ha perso il controllo dell´auto ed è uscito fuori strada, ammaccando lievemente l´automobile (*). Un piccolo incidente che però ha scosso il giovane al punto da spingerlo al suicidio. A fine maggio aveva scelto la morte per lo stesso futile motivo un giovane di 25 anni, di Carmignano di Brenta, in provincia di Padova. Il giovane operaio aveva preso di nascosto la Fiat Coupè Rossa del padre per accompagnare a casa un´amica ma al ritorno aveva avuto un banale incidente che aveva causato danni modesti, per poche centinaia di euro, all´automobile. Ma per il giovane il danno, e soprattutto la vergogna, erano insormontabili e così, arrivato a casa, si era sparato un colpo di Flobert a pallini.
 
(*) Nota: non si sa quale ruolo possa avere avuto la birra bevuta, certo è che in episodi di questo tipo l’alcol c’è (quasi) sempre.
IL GIORNALE DI VICENZA
«Abbiamo sconfitto l’alcol in memoria di nostro figlio»
Una coppia dedica la vittoria a Loris, morto a 21 anni di overdose
In 10, lunghi anni di recupero con un gruppo
«Iniziò a farsi di eroina a 17 anni rendendoci la vita un inferno.
Per questo bevevamo»
Quando ne uscì eravamo già alcolizzati.
Tornò a bucarsi per i sensi di colpa»
Di Diego Neri.
Una vittoria da dedicare alla memoria del figlio morto dieci anni fa. «Per colpa nostra», sottolineano. Ma ora la conclusione di un cammino lunghissimo per uscire dal tunnel dell’alcol la vogliono regalare a Loris, scomparso nel novembre 1994 per overdose.
La vicenda della famiglia P. potrebbe sembrare una tregenda, e in parte lo è. Ma solo in parte, perché a distanza di anni i genitori del giovane trovato privo di vita in bagno con una siringa sul braccio sono riusciti a rifarsi una vita serena. Vogliono raccontare la loro storia - senza essere del tutto identificabili perché non glielo consente il regolamento del loro gruppo di alcolisti anonimi - come monito alle altre famiglie in difficoltà. «È una storia di speranza», spiegano.
Giuseppe oggi ha 59 anni, Mariarosa 56. Iniziano a raccontare la loro vicenda a partire dal 1990, quando lui è un impiegato della Marzotto, lei una operaia di una azienda orafa. Vivono nella valle dell’Agno un’esistenza serena in compagnia dell’unico figlio Loris, che all’epoca aveva 17 anni. Quando citano il suo nome gli occhi del papà si inumidiscono, la mamma invece non riesce sempre a trattenere le lacrime.
«Loris frequentava l’istituto professionale. Una scelta forse sbagliata, perché avrebbe potuto aspirare a un diploma di cinque anni. Ma la nostra era una famiglia non certo ricca e lui lo sapeva: per questo voleva iniziare a lavorare il più presto possibile. Fu nel ’90 che iniziò a frequentare un gruppetto di giovinastri. Le solite cose, tipiche di tanti: tornava a orari impossibili, non studiava più, i professori ci dicevano che spesso a scuola non si faceva vedere. Il suo carattere dolce d’un tratto scomparve per fare posto ad un ragazzo scontroso e maleducato. Pensammo che fosse la crisi dell’adolescenza».
I genitori si allarmarono quando lo trovarono con uno spinello nascosto dentro un pacchetto di sigarette. Urla e pianti in casa, poi tutto si calmò. «Loris fu bocciato e per noi fu un’ingiustizia, perché negli ultimi mesi si era rimesso a studiare. Per lui fu un brutto colpo». L’estate del ’90, mentre l’Italia aveva gli occhi spalancati di Totò Schillaci, Loris iniziò il suo rapido declino. «Una notte ci arrivò una telefonata anonima. Una voce di ragazzo ci disse che Loris era in un campo sui colli e stava male. Arrivammo poco dopo. Non era cosciente e lo portammo in ospedale. Fu quel giorno che scoprimmo che cos’era l’eroina».
Da settembre iniziò un lungo calvario. Bugie, fughe da casa, soldi che sparivano dai cassetti dei genitori e da quelli della nonna. La scuola ormai era un ricordo. Loris si cercò un lavoro, ma fu inutile. «Con due-tre “pere” al giorno non puoi lavorare», sentenzia il padre.
Loris entrò in comunità l’estate del 1991, con un amico. Fuggì più volte dal centro, dal quale si allontanò definitivamente un anno dopo. Sembrava si fosse ripreso, ma dopo due mesi da muratore riprese con la solita vita.
«Fu allora che io e Mariarosa iniziammo a bere. Prima di nascosto, l’uno dall’altra, poi addirittura assieme. Avevamo perso tutti gli amici, passavamo molto tempo da soli, io e lei. Ci guardavamo in faccia e scoppiavamo a piangere. Fu un periodo orribile, fatto di telefonate di notte, di urla, soldi che non bastavano, gentaglia in casa, ricerche fra i campi, furti. In casa era un inferno. Botte, piatti spaccati. E, per noi due, tanto alcol. Era l’unica consolazione».
Nel gennaio 1993 Loris decide, stavolta autonomamente, di tornare in comunità. A convincerlo è sua cugina, l’unica che riesce a parlargli. Ma i genitori non riescono a gioirne, a capire l’importanza di quella scelta. Sono ormai entrati in un altro tunnel, per certi versi simile a quello dell’eroina. «Bevevamo, in due, almeno tre litri di alcol al giorno. Ma non di birra, di whisky e liquori. Non so come facevamo ad andare a lavorare».
Mentre il figlio prosegue, stavolta positivamente, il suo cammino di disintossicazione, Giuseppe e Mariarosa non riescono a rinunciare al bicchiere. «Ci pareva di star bene, anche se alcune avvisaglie le avevamo. Ricontattammo qualche amico, che ci rimproverò vedendo in che stato eravamo. Lo allontanammo subito: essere in due a bere ci dava forza».
Il dramma si materializza nel settembre 1994. Loris esce dalla comunità. «Un periodo di prova, era stato lui a volere tornare in famiglia, alla vita normale. Ricordo quando lo andammo a prendere. Era raggiante, ci abbracciò, si scusò con noi per quello che ci aveva fatto passare e promise di non ricascarci più. Eravamo felici, andammo a mangiare fuori. Lui mi rimproverò - rammenta Giuseppe - perché avevo bevuto troppo».
La serenità, in famiglia, dura poco. Loris riesce, per le prime settimane, a star lontano dai vecchi amici. Ma si accorge che i suoi genitori sono cambiati, che bevono molto e che sono irascibili. Per combattere il dolore il rifugio lo conosce bene: l’eroina. Il 3 novembre 1994 i genitori tornano a casa e lo trovano steso a terra, tradito da una dose eccessiva. Loris muore di overdose a 21 anni.
La tragedia è uno scossone per i genitori. «La decisione l’abbiamo presa a Natale, io e lei soli, in casa. Mariarosa preparò il posto a tavola anche per Loris e quel gesto fece scattare una molla».
Da gennaio Giuseppe e la moglie si iscrivono ai corsi per smettere di bere. «È stata dura, ma gli educatori sono bravi, i passaggi sono graduali». Dieci anni dopo, nelle scorse settimane, hanno chiuso la terapia. Ora sono disintossicati e sereni. «Dobbiamo vigilare ad ogni momento per non ricadere nel tunnel ma per noi questo traguardo è una grandissima vittoria. E la dedichiamo a Loris. È l’unico regalo che potevamo fargli, e speriamo che lo apprezzi dal cielo». Una speranza. E un monito.
IL MESSAGGERO
Vinòforum, in piazza tra assaggi e sfilate.
L’unico pericolo è quello di ubriacarsi. Perché sin dall’entrata, quando riceverete in omaggio un bicchiere da degustazione per assaggiare via via le 140 etichette di vino esposte nel villaggio, sarà un susseguirsi di degustazioni, cene a tema, minicorsi rinfrescati dal ponentino e musica dal vivo. Protagonista di Vinòforum (fino al 18 giugno a piazza Cavour, ore 18,30-24; ingresso 10 euro, info 06.9727366) sua maestà il Vino italiano. Fino a mercoledì 8 sarà in scena quello dei vigneti del nord Italia, dall’11 al 18 giugno toccherà a quello maturato al sole del Sud. Ogni giorno un appuntamento diverso: oggi degustazione di formaggi di capra e Amarone, sabato prossimo sfilano i modelli dell’alta moda dell’Accademia di Costume e Moda di Roma; martedì 14 cioccolato e Vinsanto. Gran finale il 18 con la consegna del premio Vinòforum.
M.G.Fil.
L’ADIGE
«Trento è morta». «No, si sta bene»
I giovani divisi fra voglia di «happy hour» e buona qualità della vita complessiva
Di JACOPO VALENTI.
Molti hanno fatto ore di coda per avere il biglietto; altri lo hanno pagato un occhio per saltare la fila e già dal primo pomeriggio la mobilitazione per arrivare a Mesiano è stata generale o quasi. Tantissimi infatti i giovani studenti trentini e non che hanno partecipato all´usuale festa di fine anno nel parco della Facoltà di Ingegneria, che è ormai una vera e propria istituzione del divertimento a Trento. E proprio questo tema, il divertimento degli universitari e dei giovani trentini, è al centro dell´attenzione, anche per colpa dei fatti avvenuti al bar Fiorentina lo scorso martedì sera. Noi abbiamo sentito alcuni giovani che entravano alla festa e li abbiamo intervistati.
Trento è limitata? « Sì» dice senza mezzi termini Lisa, studentessa al terzo anno presso la facoltà di Lettere di Trento.« Il divertimento è limitato e la colpa è soprattutto dei residenti che dovrebbero adeguarsi e comprendere il comportamento dei giovani.»
Anche Cristiano, ventitreenne laureando in Sociologia parla di convivenza e rispetto reciproco, puntando l´attenzione sulla mancanza di spazi adeguati alle nuove generazioni soprattutto in centro storico: «Ci devono essere delle valvole di sfogo che permettano la pacifica convivenza tra residenti e giovani.» Anche per Viviana, 20 anni di Trento, ci vorrebbero posti un po´ diversi dai bar, magari in aree verdi che permettano l´aggregazione anche attraverso attività come la giocoleria o l´organizzazione di eventi musicali o teatrali. Secondo Paola e Sara, studentesse venete iscritte a Sociologia a Trento non c´è niente di interessante e le uniche realtà, come ad esempio gli happy hour, vengono spesso e volentieri ostacolate ingiustamente. Propongono più spazio all´organizzazione di serate universitarie a tema, magari uscendo dallo stereotipo del «divertimento alcolico».
Anche Giovanni, studente di Economia, sottolinea la carenza di alternative valide ai comuni happy hour, che restano comunque un buon divertimento ed un punto di ritrovo per gli universitari: «Se ci sono le alternative, nessuno si lamenta. Bisogna alzare la cultura media del divertimento anche organizzando eventi musicali o serate in cui si discute di attualità.»
Ce n´è anche per quelli che hanno urinato al Fiorentina: « I giovani dovrebbero avere più rispetto, non solo per gli altri, ma anche per le cose» dice Gabriele, che sottolinea però la mancanza di strutture igieniche adeguate nell´area del centro storico. E ancora Carlo, studente ventiduenne di informatica:« Per colpa di poche persone, si tende sempre a tacciare i giovani di essere dei maleducati, ma in realtà quelli che si divertono in maniera rispettosa sono la maggioranza.»
Sono molti quelli entusiasti della formula happy hour; ad esempio Alessia, Donatella e Veronica che ricordano positivamente l´iniziativa dell´estate scorsa a Palazzo delle Albere e sottolineano come sia difficile trovare degli spazi che non vengano chiusi in pochi mesi, vedi Dorian Gray, il bar in viale Trieste messo sotto sequestro dalle forze dell´ordine.
Poche le voci fuori coro; «La città è a misura d´uomo e piacevole da vivere, è la gente che ha idee di divertimento forse troppo estreme» dice David 25 anni di Trento. Anche per Silvia, studentessa di Economia di 22 anni, Trento è una città piena di spazi e ci si diverte un sacco.
L´ultima parola spetta ora al sindaco Alberto Pacher, che lunedì in consiglio comunale discuterà una proposta tanto interessante quanto innovativa: la possibilità di creare un punto di aggregazione urbano a Trento sud, che possa essere gestito con una formula accattivante, soprattutto per i giovani.
Chi vivrà… vedrà.
L’ADIGE
Il bello e il brutto, insieme
C´è chi si ubriaca di birra con metodo e costanza e chi si gode una giornata di amicizia e sole
Di ASTRID MAZZOLA.
Lo senti fin dal Lungo Fersina, dove una selva di macchine ha riempito tutti i parcheggi: un battito forte, feroce, simile a quello di un grande cuore, che squassa tutta la collina.
Risalendola a piedi lungo la strada delle Pontare il battito si scioglie in una cacofonia di suoni ritmati dalla voce del basso elettrico, profonda come la terra stessa, vortice di energia che trascina verso l´acme del rumore. E appesi ai fili del rumore, a gruppi e gruppetti, i ragazzi sciamano su per la collina, verso il biancore della facoltà di Ingegneria di Mesiano.
L´afa cittadina li insegue e ad ogni curva li costringe a fermarsi per riposare, colorate comunità di ragazze e ragazzi carichi di zaini, coperte, asciugamani e bibite. Là in cima, la sorveglianza fa entrare soltanto chi è munito di biglietto o pass. Come al solito i biglietti sono a numero chiuso e come al solito molti non sono riusciti a trovarne uno. Per loro le possibili vie verso Mesiano sono due: il bagarinaggio dei compagni o l´opzione più avventurosa dello “scavalcamento”: c´è chi si dedica, in comitiva, ad un vero e proprio free-climbing della collina e sbuca nei luoghi più impensati. Qualcuno ce la fa e qualcuno no, bloccato dalla sorveglianza. Ma c´è da giurarci che ci riproverà, perché Mesiano è un evento troppo importante: è la grande festa studentesca di Trento, ormai entrata a far parte della tradizione.
Ci si va per molti scopi. Molti vanno per divertirsi, e varcano il grande cancello di Ingegneria pronti a salutare rumorosamente e festosamente qualsiasi amico e conoscente incontrino; c´è chi ci va per “rimorchiare” e chi per prendere il sole assieme alla propria compagnia.
Un´azzurra comunità di jeans: scoloriti, chiari, più scuri, a mezza gamba, larghi, elasticizzati, a fisarmonica, sotto le scarpe, stracciati; con grandi tasche, con catene che pendono, a vita bassa.
Popolo della pancia scoperta e delle maglie larghe, del torso nudo e dei tatuaggi
Lunedì, 06 Giugno 2005
stampa
Condividi


Area Riservata


Attenzione!
Stai per cancellarti dalla newsletter. Vuoi proseguire?

Iscriviti alla Newsletter
SOCIAL NETWORK