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Notizie brevi 22/10/2012

Cassazione: dare del "cafone" è legittimo solo col traffico bloccato
Il reato è nel contenuto della frase pronunciata e nel significato che viene attribuito Dunque, se si usa il termine 'cafone' in mezzo al traffico per mandare "a quel paese" un automobilista che blocca la strada, è legittimo e non va condannato

Foto Coraggio - archivio Asaps

ROMA - "Sei un cafone" è un’offesa, anzi no. La Cassazione, intervenendo di volta in volta sulle liti che degenerano, spiega quando apostrofare qualcuno con il termine "cafone" non è "politically correct". E così, mentre gli "ermellini" ammettono ampi margini di tolleranza quando il ‘cafonal’ viene evocato in mezzo al traffico, sono inflessibili sul termine e lo bollano come offesa indifendibile se viene utilizzato come sinonimo di ‘maleducato’. Dunque, se lo si usa in mezzo al traffico per mandare ‘a quel paese’ un automobilista che blocca la strada, "cafone" è legittimo e non va condannato. Ci sono, invece, casi in cui apostrofare qualcuno dandogli del "cafone" è offensivo al di là “delle intenzioni inespresse dell’offensore”. In questo caso scatta anche la condanna per il danno morale patito. A beneficiare del via libera al "cafone" un 30enne di Cagliari che era finito sotto processo per ingiuria per aver dato del ‘cafone’ ad un automobilista che, parcheggiando male, aveva bloccato il passaggio. Per la Cassazione, “l’ingiuria, se provocata da fatto ingiusto” merita tutte le attenuanti senza escludere l’assoluzione.

 

Tutt’altra sorte ha avuto una 38enne abruzzese che ha dato del ‘cafone’ ad un agente di polizia dopo che le aveva chiesto i documenti. La ragazza, ricostruisce la sentenza della Quinta sezione penale, era intervenuta in un giardino pubblico, chiamata dal padre cardiopatico che aveva avuto un malore mentre portava a passeggio il cane dopo avere assistito ad una caduta accidentale di una bambina. Sul posto era arrivato anche un agente di polizia che aveva chiesto alla ragazza di esibire i documenti. Cosa che non era avvenuta perché, come ha spiegato la difesa di C. G., la ragazza aveva cercato di soccorrere il padre. Da qui le frasi al poliziotto ‘cafone’, ‘maleducato’. Seguito da un "ti faccio vedere io". Tre espressioni dette in un momento di concitazione che sono costate a C.G. una condanna per ingiuria e minaccia con tanto di risarcimento del danno morale all’agente, quantificato in mille euro. Vana la difesa in Cassazione volta a segnalare che il termine ‘cafone’ non poteva essere considerato di portata offensiva dato anche il contesto. Piazza Cavour ha osservato che “in tema di ingiuria, il criterio a cui fare riferimento ai fini della ravvisabilità del reato è il contenuto della frase pronunciata e il significato che le parole hanno nel linguaggio comune, prescindendo dalle intenzioni inespresse dell’offensore, come pure dalle sensazioni puramente soggettive che la frase può avere provocato nell’offeso”.
 


da qn.quotidiano.net

 

 

Lunedì, 22 Ottobre 2012
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