Mandare agenti "a quel paese" per la Cassazione non è reato
"Invece di fermare me andate a rompere i c.... a quelli che spacciano in stazione" non integra il reato di ingiuria. Anche se detto a un carabiniere. Due giorni fa la Corte di Cassazione ha stabilito che «cafone» non è un'offesa, ma solo se viene utilizzato in mezzo al traffico per mandare «a quel paese» un automobilista che blocca la strada, ieri invece ha stabilito non è reato la reazione «indubbiamente vivace di un automobilista» che dopo un primo scatto d'ira pronunciò quella la frase. Era l'aprile del 2005, il signor R. era in auto e telefonava, una volta fermato il militare gli chiese i documenti contestandogli l'infrazione. L'automobilista chiese se fosse possibile limitare i danni, che quella telefonata era importante per il suo lavoro e la risposta negativa lo fece alterare. Nel frattempo l'altro brigadiere aveva controllato l'auto e la dotazione di bordo, aveva notato che il tagliando dell'assicurazione era scaduto da una settimana e lo disse al collega. Che contestò anche questa violazione. Quando fu il momento di firmare il verbale il signor R. chiese che venisse verbalizzato: "Mi avete trattato come un delinquente non capisco questo accanimento". E a quel punto il primo carabiniere chiese di ispezionare per la seconda volta la dotazione di bordo. L'automobilista perse le staffe, disse che sarebbe andato al comando per protestare e una volta ricevuto dai superiori si lamentò anche con loro (in cinque ascoltarono le sue rimostranze). In quell'occasione disse che il carabiniere scelto che lo aveva multato "si era accanito contro di lui» e lo definì «un invasato con la divisa, uno scorretto, un arrogante maleducato". La denuncia per ingiuria la prese per la prima esternazione, quella per diffamazione per la seconda. In primo grado il giudice di Pace lo condannò per entrambi i reati a 800 euro di multa oltre che al pagamento dei danni (1000 euro) e delle spese. Difeso dall'avvocato Simone Franceschini appellò la sentenza e in secondo grado il giudice di Brescia lo assolse con formula piena sottolineando che il signor R., parlando con i superiori del carabiniere, "aveva lamentato di essere stato trattato in modo inadeguato" ma alle luce di quanto riferito dal collega in pattuglia "deve escludersi che, alla luce del contesto, le frasi (cioè «andate a rompere i c.... a quelli che spacciano in stazione") valgano ad integrare l'elemento oggettivo del reato di ingiuria». Frase che «appare espressiva di un disappunto correlato al rigore serbato nell'applicazione della legge. Ma per quanto formulata in termini volgari e inurbani, risulta priva di valenza lesiva dell'onore del pubblici ufficiali». La Procura generale impugnò, lo fece anche la parte civile e il signor R. (assistito in questo grado anche dall'avvocato Massimo Leva) si spostò a Roma. E la Corte ha dato ragione al signor R. Volgare la frase «non rompetemi i c..." ma per la Corte non "raggiunge i tratti dell'offesa. Si pone l'attenzione", prosegue, «sulla condotta contrassegnata dallo zelo del carabiniere interpretato come atteggiamento puntigliosamente vessatorio. L'indagine (legittima) sul contrassegno assicurativo dimostra tuttavia l'estensione dell'interesse repressivo del pubblico ufficiale. Un profilo di severità indubbia". Il signor R. chiese di avere parlare con i superiori "preannunciando che avrebbe espresso le sue rimostranze a riguardo della condotta considerata quantomeno impropria". E per la Corte è diritto di critica. Circa il superamento del principio di continenza: "la doglianza era greve ma finalizzata a ricreare il quadro dell'offesa patita per il comportamento solerte e zelante del carabiniere". Confermata la sentenza di secondo grado: "assolto perchè il fatto non costituisce reato".
di Fabiana Marcolini
da larena.it