Ogni
15 giorni contiamo sulle strade italiane lo stesso numero di morti
della battaglia di Nassirya. Rendeva molto bene l’idea la
metafora utilizzata alla fine dello scorso mese di marzo dal ministro
per i Rapporti con il Parlamento, Carlo Giovanardi. Nessuno, però,
immaginava che l’effetto della patente a punti, introdotta
l’anno scorso, sarebbe svaporato così velocemente
da portare la contabilità funebre a ben più di due
Nassirya al mese.
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Il
bilancio del week-end del 10-11 luglio ha allineato 43 bare
e quello successivo addirittura 65 contro le 48 dell’anno
precedente. Che la spada di Damocle della patente a punti fosse
ormai una spadina di latta, grazie all’eccessiva facilità
del recupero dei punti tagliati con le sanzioni, era già
chiaro a maggio: l’aumento delle multe per eccesso di velocità
registrato dalla polizia stradale, per esempio in Lombardia,
era del 62 per cento. "Fino allo scorso aprile la diminuzione
degli incidenti lasciava ben sperare", ricorda Domenico
Mazzilli, direttore del Servizio di polizia stradale del ministero
dell’Interno. Poi hanno ripreso quota le infrazioni più
frequenti: dall’uso dei telefonini senza vivavoce e auricolare
all’attraversamento col rosso, dal mancato rispetto degli
stop al furto delle precedenze, con il contorno purtroppo di
quelle più gravi, come la guida in stato di ebrezza o
sotto effetto di stupefacenti, l’eccesso di velocità
e il sorpasso da incoscienti.
"In tutti i Paesi con la patente a punti, Stati Uniti,
Francia e Germania, dopo un po’ c’è stata una
ripresa degli incidenti simile alla nostra, ma alla fine la
diminuzione totale si è stabilizzata sul 20 per cento.
Un traguardo dal quale noi italiani siamo invece lontani",
rivela il presidente dell’Automobil club italiano (Aci),
Franco Lucchesi. Il ministero degli Interni indica una diminuzione
degli incidenti su autostrade e strade statali oscillante tra
il 16,8 e il 18 per cento. L’Aci invece, inserendo anche
i dati delle strade provinciali e dei centri abitati, fornisce
un ben più magro calo dell’8 per cento. Le stragi
del sabato sera sono sempre la prima causa di mortalità
tra i giovani: 700 ragazzi morti ogni anno e oltre 23 mila feriti,
spesso menomati o ridotti a vita su sedia a rotelle.
Numeri e realtà raccapriccianti. E sempre più
spesso sono intere famiglie ad essere sterminate. L’ultima
in ordine di tempo è stata quella di Renzo, Caterina
e Alessandro Vagliengo, distrutta a mezzanotte del 24 luglio
vicino a Pinerolo nelle schianto tra la propria Fiat Uno e una
Peugeot 206.
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Che
le strade siano sempre più un campo di battaglia, dove
è morta anche la pietà, lo dimostrano l’inflazione
di pirati della strada e fatti come quello capitato domenica 25
luglio a un ragazzo di 23 anni sulla E 45, all’altezza dell’uscita
di San Sepolcro Sud: perso il controllo della propria Audi 80
e sbalzato fuori dall’abitacolo, è stato investito
da un Tir, che lo ha trascinato per ben sei chilometri.
L’Associazione parenti delle vittime della strada ha ormai
una sessantina di sedi provinciali, e fioriscono associazioni
dei parenti delle vittime di singole arterie: sulla mappa stradale
si disegna così una sorta di macabro tour che sarebbe istruttivo
pubblicizzare.
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Giordano Biserni, presidente dell’Associazione amici della
polizia stradale (Asaps) e direttore del mensile omonimo, accusa
senza mezzi termini: "Da anni si sa che la Polstrada è
sotto organico di almeno 1.500 uomini, eppure si continua a non
assumerne neanche uno". Biserni chiede inoltre a gran voce
che i recidivi nelle violazioni più gravi siano sanzionati
con il ritiro della patente e con il divieto di ripetere gli esami
da un periodo minimo di due anni, per il superamento di oltre
40 chilometri dei limiti di velocità, fino ai dieci anni
per chi omette i soccorsi. "Stiamo diventando infatti anche
campioni di pirateria, cioè di inciviltà gravissima",
rileva Biserni: "Un fenomeno da stroncare senza incertezze
e senza mezze misure".
Le cifre delle vittime della strada nell’intero pianeta sono
da guerra mondiale: un milione e 300 mila persone uccise ogni
anno. Nella Ue i morti sono 50 mila, più 150 mila invalidi
l’anno. In Italia i caduti ogni 12 mesi sono quasi 7 mila,
con oltre 330 mila feriti e un danno sociale da 34 miliardi annui:
circa l’intero fatturato Fiat.
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La
colpa però non è né del destino né
solo della rete stradale obsoleta (per raggiungere l’attuale
livello di quella tedesca dovremmo spendere almeno un quarto dell’intero
prodotto nazionale lordo). Infatti nel 60,8 per cento dei casi
la colpa è di chi sta al volante: un incubo sì,
ma dovuto alla nostra inciviltà che trova il suo teatro
più adatto a scatenarsi in una ventina tra autostrade,
raccordi e strade statali, e in tre città "incidentifici",
secondo i dati raccolti dall’Aci in collaborazione con l’Istat.
Le capitali del pericolo sono, nell’ordine: Roma, con una
media di incidenti superiore ai 20-21 mila l’anno, 362 morti
e 26 mila feriti nel solo 2002; Milano, con 15.229 incidenti e
77 vittime; Torino, con 5.470 incidenti e 69 morti sempre nel
2002. Non a caso la gran parte degli incidenti, pari al 72 per
cento nel 2001, avviene su strade urbane.
Nella top twenty delle arterie che guidano la classifica nazionale
degli incidenti, 13 si trovano al Nord e solo sette al Sud, distribuite
su otto tratte autostradali, due strade statali e dieci diramazioni,
raccordi e tangenziali.
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"Il fatto che i dati più recenti disponibili risalgano
al 2001 dimostra in tutta la loro gravità gli inconcepibili
ritardi con cui si affrontano questi problemi", fanno notare
i dirigenti di Legambiente che li elaborano per renderli comprensibili
e poterli così pubblicizzare. I 23 chilometri della tangenziale
est-ovest di Napoli collezionano 16 incidenti per chilometro,
col bilancio di sei morti e 670 feriti, mentre i 52 chilometri
della A3 Napoli-Salerno ne collezionano 5,1 al chilometro, con
15 morti e 444 feriti totali. Il Grande raccordo anulare di Roma
continua a fare la sua ecatombe: sui suoi 68 chilometri, 615 incidenti
per un totale di 15 morti e 913 feriti. Torino, la capitale dell’automobile,
può vantare 172 incidenti, con 13 morti e 265 feriti, sui
27 chilometri della sua tangenziale sud.
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L’apposita
agenzia europea (Eurorap) ha appurato che nelle autostrade del
continente peggio di noi fanno solo i portoghesi: noi abbiamo
12,8 morti l’anno ogni miliardo di chilometri percorsi, contro
i loro 14,1. Guidare un’auto a 180 o un Tir a 120 all’ora
è come piazzare una bomba tra la folla, atto quest’ultimo
perseguibile, anziché con una multa o qualche punto sulla
patente, con l’accusa di strage. Per non parlare della massa
di carburante nei singoli serbatoi dei bolidi, vere e proprie
potenziali bombe che troppo spesso si trasformano in reali esplosivi.
A mali estremi, estremi rimedi. Di fronte alle stragi quotidiane,
il ministro dei Trasporti Pietro Lunardi annuncia campagne pubblicitarie
choc: "Mostreremo", ha scandito, "i corpi carbonizzati,
le lamiere contorte, gli arti mutilati, i cadaveri frantumati".
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La
Moratti sotto processo
A fine maggio la Corte europea dei diritti dell’uomo,
con sede a Strasburgo, ha deciso: lo Stato italiano sarà
processato perché il ministro dell’Istruzione, Letizia
Moratti, è reo "di non avere disciplinato le modalità
di svolgimento dei relativi programmi e corsi obbligatori di educazione
stradale negli istituti di ogni ordine e grado".
Il mancato insegnamento dell’educazione civica contribuisce
a fare dei giovanissimi italiani i campioni europei di maleducazione,
ma l’educazione stradale che non c’è contribuisce
anche a mietere tra loro morti e feriti. Il ventunenne Paolo Rossi
il 7 giugno 2003 è deceduto con altri coetanei su una strada
in provincia di Milano. Colpa di chi guidava l’auto su cui
viaggiava anche Paolo, lanciata a 120 chilometri orari anziché
rispettare il limite dei 50, fino a schiantarsi con l’intero
suo carico di esseri umani.
Ma colpa è anche della scuola che sull’argomento non
insegna nulla nonostante che sin dal 1993 l’articolo 230
del Codice della strada intimi "entro un anno", l’inizio
dei corsi citati, ha denunciato a Strasburgo Gennaro Rossi, il
papà di Paolo. E la Corte, a differenza del nostro ministero
dell’Istruzione, non è rimasta con le mani in mano.
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