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Articoli 17/08/2004

Un mercoledì da Liboni

Un mercoledì da Liboni

di Francesco Albanese *

Fino all’ultimo si è dimenato, si è divincolato, ha tentato di liberarsi pur essendo ammanettato. Sdraiato sul lettino dell’ambulanza, sanguinante, con una pallottola nel cranio, ha caricato una gamba al petto ed ha sferrato un calcio in faccia ad uno dei carabinieri che tentavano di tenerlo fermo. Un gesto disperato, inutile, che non avrebbe potuto salvarlo, né dalla cattura, né dalla morte, ma che per certi aspetti riassume in sé l’intera vita di un uomo solo, in guerra contro il mondo.

Luciano Liboni, primo di sette figli di Luigi Liboni, muratore, un padre spesso assente, e di Giuliana Mondi, una donna fragile, cresce in una casa malandata e senza servizi igienici del paesino umbro di Montefalco. All’età di 15 anni finisce per la prima volta in riformatorio e a 17 in carcere minorile a Firenze per aver rubato un’auto e picchiato un vigile, a 19 anni la prima rapina. Una decina di anni dopo viene accusato di sequestro di persona a scopo di estorsione, e di detenzione di stupefacenti. Tra il 1997 e il 1998 compie una serie di rapine con la allora attuale compagna, Francesca Toppetti, e vengono entrambi arrestati. Dal 2002 inizia il crescendo di violenza: a Febbraio spara ad un benzinaio a Perugia; a Marzo, a Civitavecchia, spara ad una pattuglia della guardia di Finanza che gli intima l’alt ad un posto di controllo; il 22 Luglio 2004, a S. Agata Feltria, nelle Marche, uccide a sangue freddo l’appuntato dei carabinieri Alessandro Giorgioni, 36 anni, che gli aveva chiesto di mostrare i documenti.

Una vita totalmente deviante, costellata da episodi criminali. Un’anima persa, direbbe qualcuno, un lupo solitario, l’ha definito qualcun’altro. Sì, perché Liboni, eccetto che per qualche episodio sporadico, ha agito sempre da solo, caratteristica questa che gli ha appunto fatto guadagnare questo appellativo. Se Liboni fosse vissuto ai tempi di Cesare Lombroso, invece, sarebbe stato sicuramente definito criminale nato, per la teoria allora in voga, che adesso fa rabbrividire, secondo la quale criminali si nasce e non si diventa. Oggi sappiamo invece che, benché ognuno di noi nasca con un certo temperamento, con dei tratti caratteristici che ci contraddistinguono da ogni altra persona, è l’ambiente che ci circonda il responsabile principale della nostra formazione, un ambiente che può, più o meno, essere in grado di esaltare i nostri tratti di personalità, i nostri “pregi” e i nostri “difetti”. Come può essere stata l’infanzia di Liboni in una casa senza servizi igienici, con un clima familiare del genere, dove molto probabilmente regnava la miseria e dove le cure verso i figli passavano in secondo piano rispetto al più fondamentale problema della sopravvivenza? Uno dei fratelli, Massimo, ha “scelto” la malattia, morendo giovanissimo in un ospedale psichiatrico. Un altro fratello, Giancarlo, è attualmente infermiere all’ospedale di Foligno, essendo, almeno apparentemente, riuscito a superare il disagio di un’infanzia difficile ed inserendosi nella società. Luciano ha fin da subito rifiutato quanto lo circondava, scegliendo la strada della devianza, forse a causa della sua maggiore aggressività.

Subire, adattarsi, reagire: tre modi diversi di rispondere agli stessi stimoli ambientali di tre fratelli, cresciuti nella stessa famiglia disagiata. Ognuno dei tre modi di rispondere equivale ad una scelta di condotta, presa più o meno consapevolmente in base alla propria personale capacità di leggere gli eventi del mondo, scelta che va da un estremo dell’arrendersi all’altro del combattere, combattere una società ostile e spietata, “di bianco vestita” ma che nasconde al suo interno macchie indelebili. È infatti paradossalmente la stessa società che si serve dei vari Liboni per mantenere la propria coesione, perché ogni cosa acquista significato per contrasto, perché non ci sarebbe il buono se non esistesse il cattivo, perché l’essenza di ogni regola è maggiormente confermata da chi la contravviene che da chi la rispetta, ed ogni episodio di devianza rafforza il legame che esiste tra chi non devia, rafforza la coalizione, rafforza la regola che ciascuno di noi è costretto ad osservare per essere accettato in un contesto societario. La devianza è pericolosa, è un attacco alla regola, un attacco alla norma, minaccia la struttura portante su cui si districa la routine giornaliera di ognuno di noi, una struttura cui sono saldamente ancorate le nostre certezze e le fondamenta su cui possiamo progettare il nostro futuro. Se non ci fosse la devianza, non esisterebbe la norma. E gli ultimi episodi di cronaca che hanno riguardato Liboni, ed in particolare l’uccisione del carabiniere e la sua stessa morte, segnano nuovamente un confine tra chi si sente parte di questa società, e chi se ne sente escluso, una società madre e matrigna allo stesso tempo, una società dalla quale ci si può sentire amati o rifiutati. E così, i vari Liboni che lottano fino alla morte contro tutti, contro un’autorità che non è percepita come garanzia di democrazia ma come organo di potere castrante e limitante, vengono presi a modello, vengono visti come giustizieri da quanti si sentono figliastri di una società-matrigna, fino ad arrivare ad inneggiare alla morte di un essere umano ucciso a sangue freddo e fino a voler lasciare traccia visibile del proprio odio attraverso poche parole, scritte su un muro con spray nero, comparse in una foto sui giornali di questi giorni: “un mercoledì da Liboni”.

* Psicologo, operatore di Polizia Stradale



di Francesco Albanese

Martedì, 17 Agosto 2004
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