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Guida in stato di ebbrezza e in stato di alterazione da stupefacenti: discrasie giurisprudenziali

Nella sentenza 2762/2013 la Suprema Corte affronta il distinguo tra gli articoli 186 e 187 del Codice della strada. Il caso ad oggetto è un episodio di guida in stato di alterazione psicofisica per uso di sostanze stupefacenti, previsto e punito dall’art. 187 cit., riscontrato, nel caso, avvalendosi di accertamenti biologici dimostrativi dell’avvenuta assunzione, e, insieme, delle deposizioni raccolte e del contesto in cui il fatto si è verificato.

Molti i profili che la quarta sezione penale della Cassazione sollecita ad affrontare; tra gli altri: problemi di tecnica legislativa; problemi di accertamento dello stato di intossicazione da sostanze stupefacenti; problemi di successione di leggi penali nel tempo in questa materia travagliata, in quanto adusa a continue novelle legislative. L’ipotesi normativa è posta (anche) dai Giudici in stretto collegamento con la fattispecie finitima della guida in stato di ebbrezza alcolica.

Più in dettaglio, la sentenza invoglia a tracciare il confine tra le due ipotesi di reato; non il confine tout court, non tutte le note distintive, ma in particolare, qui, quanto contraddistingue i profili di tangenza con i principi di legalità e di offensività, così come discendenti dai meccanismi di accertamento che la legge pone a carico della giustizia penale, nella loro (più o meno fedele) prassi applicativa.

La guida in stato di ebbrezza alcolica richiede (in modo specifico) che sia superato uno dei tassi alcolemici indicati nell’art. 186, co. 2, Cds, oppure che si dia prova sintomatica dell’ebbrezza. Lo dice la Cassazione nel provvedimento emarginato; rectius lo ripete dopo numerosi precedenti. Perché sussista il reato è sufficiente un solo accertamento: la prova sintomatica in alternativa al superamento dei tassi alcolemici previsti per legge. Per la giurisprudenza, un onere di motivazione rafforzata può consentire di compensare il disallineamento rispetto ai tassi prefissati dalle norme (giurisprudenza unanime: Cassazione penale, sez. IV, 4 maggio 2004, n. 39057; Cassazione penale, sez. VI, 27 gennaio 2000, n. 2644). Il vulnus alla riserva di legge è manifesto; il sistema penale si contraddice, rectius dice ma non fa quel che dice. La formulazione di limiti legali, per la connotazione del fatto in termini di rilevanza penale, è lettera morta.


Viceversa, una lettura rigorosa della norma porterebbe a considerare entrambi gli accertamenti su un piano di necessità: lo stato di ebbrezza, conseguito all’assunzione di bevande alcoliche, è il primo elemento di cui la legge impone l’accertamento, pur lasciando ampio spazio al giudice, chiamato a riempire di contenuto la formula elastica prescelta dal legislatore; al contempo, e diversamente, per qualificare la fattispecie in ragione del tasso alcolemico, la normativa adotta un metodo analitico: predefinisce a livello astratto la rilevanza delle ipotesi concrete, lasciando poco spazio alla discrezionalità dell’interprete.

La tecnica sintetica e quella analitica risultano in questo caso integrate; il binomio è noto al sistema penale; emblematici esempi in materia di sostanze stupefacenti: nell’aggravante dell’ingente quantità, di cui all’art. 80 co. 2 T.U.Stup., trovano spazio due criteri cumulativi; al primo, per così dire sintetico/valutativo, si affianca necessariamente quello per così dire analitico/ricognitivo: «l'aggravante della ingente quantità, di cui all'articolo 80 comma secondo D.P.R. 309/90, non è di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 2.000 volte il valore massimo in milligrammi (valore soglia) determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al D.M. 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata» (Cassazione penale, SS. UU., 24 maggio 2012, n. 36258; successivamente Cassazione penale, sez. III, 27 novembre 2012, n. 49452).

 

La divergenza è tra la necessità di un solo accertamento (stato di ebbrezza stimato dal giudice oppure stato di ebbrezza, riveniente dai tassi alcolemici previsti per legge, meramente riscontrato dal giudice) e un duplice accertamento (dalla logica dall’aut… aut…, seguita dalla giurisprudenza, alla logica dell’et… et…, da noi auspicata). La Cassazione traccia un percorso di massima duttilità.

La necessità di un solo accertamento (operante nel diritto vivente) dice molto: l’interprete che voglia contestare (e condannare per) il reato potrà provvedere, indifferentemente, a “convalidare” la prova sintomatica dell’ebbrezza, oppure a “ratificare” il superamento di uno dei tassi alcolemici previsti dalla normativa. “Convalidare” o “ratificare”: gli operatori del diritto penale, a cominciare dalla PG, sono chiamati a svolgere gli accertamenti che la norma richiede siano effettuati. Successivamente – nulla di nuovo – il comportamento concreto è da sussumere nello schema normativo astratto: provvede il magistrato. Sennonché, come è noto, l’interprete che non debba assegnare autonomamente contenuto al fatto, attenendosi piuttosto al dato normativo, è solo il braccio della mens legis; e questo fa la differenza.

Anche il significato politico-criminale è chiaro; risalta la alternativa  tra un tipo di accertamento a forte componente valutativa (il giudice valuta la sussistenza dello stato di ebbrezza alcolica) e un tipo di accertamento puramente ricognitivo (il giudice riscontra che il soggetto abbia oltrepassato i limiti legali). Per “statuizione” della prassi giurisprudenziale il primo sembra prendere il sopravvento.

Breve, se da un lato il legislatore seleziona in modo espresso, e tassativo, i livelli di alcool necessari per l’integrazione delle diverse fattispecie (più fattispecie, anziché ipotesi circostanziate), dall’altro rimette alla discrezionalità del giudice l’assegnazione di rilevanza al fatto.

Diversa è la disciplina della guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti. Il giudice deve qui desumere lo stato di alterazione psicofisica dell’imputato dagli accertamenti biologici dimostrativi dell’avvenuta precedente assunzione dello stupefacente, nonché, indefettibilmente, dall’apprezzamento delle deposizioni raccolte e dal contesto in cui il fatto si è verificato (non si richiede, dunque, lo svolgimento di specifiche analisi mediche): sul punto, tra i precedenti, Cassazione penale, sez. IV, 4 novembre 2009, n. 48004.

 

Ampio spazio, dunque, ad accertamenti di tipo discrezionale, sub specie accertamenti biologici dell’avvenuta assunzione e accertamenti aliunde. L’interprete governa l’applicazione della norma disponendo di comodi margini nella qualificazione dello stato di alterazione (elemento normativo non predeterminato ex lege).

Rebus sic stantibus, proviamo una rilettura in chiave di offensività. La prima ipotesi, guida in stato di ebbrezza, contempla due accertamenti – uno solo secondo la Cassazione – nei quali si verifica la carica offensiva del fatto. Nell’apprezzamento dello stato di ebbrezza si impiega un concetto sintetico che veicola una delega al giudice dell’accertamento del pericolo per la sicurezza pubblica; nella dettagliata individuazione dei limiti legali si predilige un modello analitico: l’offesa viene predeterminata dal legislatore secondo lo schema del c.d. pericolo astratto (e dunque comprime i poteri del giudice facendosi carico di definire le gradazioni dell’offesa). Il mero accertamento della corrispondenza tra il comportamento concreto e il modello normativo astratto, satisfattivo dell’operato del giudice, mette a nudo la carenza del fatto in termini di concreta offensività.

A fronte di questa interpretazione si è fatta strada, come si è visto, una distinta lettura della norma, incline a considerare sufficiente un apprezzamento dello stato di ebbrezza sulla base di indici sintomatici, in quanto pericoloso per la sicurezza stradale, secondo lo schema del c.d. pericolo concreto. In sintesi, si riconosce sufficiente uno solo dei due accertamenti; secondo questo orientamento la norma porrebbe sullo stesso piano la discrezionalità del giudice e l’impegno analitico del legislatore; breve, il giudice può anche fare a meno dei tassi alcolemici.

La guida in stato di alterazione psicofisica da stupefacenti non conosce un sistema combinato di criteri di accertamento; qui, come detto, si profilano per l’interprete due accertamenti, entrambi rimessi alla sua valutazione. Da entrambi, vivo il principio di necessaria offensività, discende la verifica del reato in termini di pericolo per la sicurezza pubblica.

 

Ben spostato il baricentro dell’offensività: il legislatore abdica (in parte) ai suoi doveri di predeterminazione legale dei comportamenti penalmente rilevanti e consegna al giudice due formule, come innanzi detto, in pratica operanti secondo lo schema del pericolo concreto; il concetto di “alterazione da uso di sostanze stupefacenti” va convalidato mediante accertamenti tecnico biologici e mediante altre circostanze di fatto.

 

La varietà delle tecniche di incriminazione (sintetica vs analitica; pericolo concreto o astratto) dischiude ampie possibilità di approfondimento; in sintesi, essa ha inevitabili riflessi sul piano della politica legislativa: modelli diversi convivono in stretta correlazione, disegnando – come spesso accade (anche) in diritto penale – il volto di Giano, insidia per l’interprete, e, prima ancora, per la società civile. Né può considerarsi commendevole la prassi giurisprudenziale, di cui si è dato conto, di risolvere la complessità in unità, forzando in modo irrecuperabile il dato normativo.

 

Del resto, una legislazione che adoperi assonanze linguistiche, piuttosto che coincidenze o differenze nette ed univoche, tutto può produrre tranne che chiarezza. Fuor di metafora… differenza tra “stato di alterazione che viene dopo l’assunzione degli stupefacenti” e “stato di ebbrezza che consegue all’uso di alcool”… l’operazione ermeneutica che si rende necessaria (post hoc, ergo propter hoc?) non è veicolo di certezza applicativa.

 

 

di Gianluca Denora
da diritto24.ilsole24ore.com

 

 

Giovedì, 07 Febbraio 2013
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