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Corte di Cassazione 13/02/2013

Alcoltest: prima rifiuta, poi acconsente. Ma non evita la condanna

(Cass. Pen. sez. IV, 6 febbraio 2013, n. 5909)

Deve essere condannato l'automobilista che si rifiuti di sottoporsi al test alcolemico, essendo irrilevante il fatto che lo stesso si renda disponibile ad effettuarlo in un momento successivo.

Lo ha stabilito la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 6 febbraio 2013, n. 5909.

Il caso vedeva un automobilista, uscire da un parcheggio di un centro commerciale ed urtare un altro veicolo; controllato dagli agenti intervenuti, alla richiesta di sottoporsi al test alcolemico, lo stesso si rifiutava a causa di un attacco di panico. Solo dopo un’ora dall’accaduto si dichiarava disponibile a sottoporsi all'alcooltest che, a quel punto, gli agenti non effettuavano.

La Suprema Corte ha ritenuto sussistente il reato di rifiuto di sottoporsi al test alcolimetrico, a nulla rilevando la disponibilità alla fine manifestata dall'imputato. Il reato infatti, istantaneo, si perfeziona con il rifiuto dell'interessato; dunque, nel momento in cui il conducente ha espresso la sua indisponibilità a sottoporsi all'accertamento, lo stesso era perfezionato, essendo irrrilevante che l'imputato sia tornato sul posto ed abbia infine dichiarato una disponibilità a sottoporsi all'alcoltest, "dal momento che non esiste una sorta di ravvedimento operoso da parte di chi abbia già, con il comportamento di rifiuto, consumato il reato".

Secondo gli ermellini è "del tutto giustificato che gli agenti abbiano ritenuto superfluo l'accertamento atteso che, dato il tempo trascorso ed essendosi l'imputato ripetutamente allontanato, avrebbe potuto facilmente essere ritenuto poco attendibile, ben essendo possibile che lo stesso fosse stato "inquinato" dal comportamento dello stesso imputato successivo al controllo iniziale".

Neppure merita considerazione la tesi dell'attacco di panico; i giudici territoriali hanno evidenziato come l'imputato non avesse accennato agli agenti operanti tale sua patologia, evocata solo dalla difesa sulla base di un attestato dello psichiatra che lo aveva in cura che documentava una "fobia per le malattie".



(Nota di Simone Marani)

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE
Sentenza 8 gennaio - 6 febbraio 2013, n. 5909
(Presidente Romis – Relatore Bianchi)


Ritenuto in fatto

 

1. La corte di appello di Torino, con sentenza del 2 marzo 2012, ha confermato la condanna di G.G.L. alla pena di quattro mesi di arresto e Euro 1600 di ammenda e alla sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per un anno, per il reato di cui all'articolo 186, comma sette, del codice della strada. In data (omissis) , nei pressi di un centro commerciale di (…), il G. , uscendo dal parcheggio, urtava un'altra autovettura; controllato dagli agenti intervenuti, alla richiesta di sottoporsi al test alcolimetrico, il medesimo opponeva rifiuto; solo a distanza di circa un'ora dal fatto dichiarava di essere disponibile ad effettuare il predetto test che gli agenti però non effettuavano. I giudici ritenevano la responsabilità penale dell'imputato ed in particolare la corte di appello osservava che non era credibile la tesi del medesimo secondo cui egli era stato preso da un attacco di panico e per questa ragione aveva, almeno in un primo momento, rifiutato il test; gli agenti operanti gli avevano spiegato con precisione la natura e le caratteristiche del test, e non era pertanto credibile la giustificazione data secondo cui egli lo aveva confuso con un accertamento medico rispetto al quale nutriva una vera e propria fobia. Riteneva altresì la sentenza che era irrilevante che il G. avesse manifestato, dopo un certo periodo di tempo e dopo essersi consultato telefonicamente, la disponibilità a sottoporsi al test; infatti dopo il ripetuto allontanamento dell'imputato dal luogo del fatto, si doveva ritenere che il test non poteva più rivestire alcuna utilità probatoria trattandosi di un accertamento la cui attendibilità dipende dalle circostanze e modalità con cui lo stesso è effettuato, tra cui sicuramente la tempestività. La corte riteneva parimenti irrilevante ai fini del decidere la escussione del farmacista circa la assunzione di farmaci a base alcolica all'epoca del fatto nonché quella del medico che aveva in cura l'imputato. Da ultimo la corte respingeva le richieste riferite al trattamento sanzionatorio condividendo le negative valutazioni sulla complessiva condotta dell'imputato sia al momento del fatto sia in sede processuale.

2. Ha presentato ricorso per cassazione il difensore dell'imputato. Deduce violazione dell'articolo 606 lettera e) cod.proc.pen, per mancanza e/o illogicità di motivazione; la motivazione con la quale la corte d'appello ha ritenuto sussistente il reato nonostante la disponibilità dell'imputato a sottoporsi al test, successivamente manifestata, sarebbe illogica. Anche a distanza di un'ora il test avrebbe potuto documentare lo stato di ebbrezza e di conseguenza la disponibilità del medesimo a sottoporsi ad alcoltest a distanza di qualche decina di minuti dall'originaria richiesta, impedisce di ritenere integrato il reato. Deduce altresì difetto di motivazione per quanto riguarda la valutazione delle condizioni psichiche dell'imputato; il certificato medico dello Dott. P.L. , prodotto in giudizio, attestava che il G. era soggetto, in situazioni di stress, ad attacchi di panico, con reazioni di allarme, angoscia, fuga, con aggressività nei confronti di chi ostacolava il desiderio di allontanarsi dal luogo reputato pericoloso, esattamente il comportamento posto in essere dall'imputato; a seguito dell'urto da parte sua di un'altra autovettura, egli si era trovato in una situazione di forte stress a cui aveva reagito nel modo anzidetto; la sentenza era illogica anche perché non aveva tenuto conto della testimonianza del vigilante V.M. e dell'agente di polizia municipale intervenuto, Po.Se.Gi. , i quali avevano dichiarato che l'imputato appariva alterato e confuso; in ogni caso la motivazione fornita dalla Corte di appello non era fondata su corrette considerazioni giuridiche atteso che gli agenti si erano giustificati dicendo di non avere tempo da perdere con l'imputato. Con un terzo motivo lamenta la mancata assunzione di una prova decisiva consistente nella escussione del dott. P. ovvero nell’espletamento di una perizia psichiatrica in capo all'imputato. Con un quarto motivo deduce difetto di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio consistente nella applicazione all'imputato di pene ingiustificatamente elevate se si considera le pene all'epoca previste per il reato contestato.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso è inammissibile in quanto fondato su motivi manifestamente infondati.

Osserva in primo luogo il Collegio che correttamente è stato ritenuto sussistente il reato di rifiuto di sottoporsi al test alcolimetrico, a nulla rilevando la disponibilità alla fine manifestata dall'imputato. Il reato infatti, sicuramente istantaneo, si perfeziona con il rifiuto dell'interessato e dunque nel momento in cui il G. ha espresso la sua indisponibilità a sottoporsi all'accertamento, lo stesso era perfezionato. Non rileva che l'imputato sia tornato sul posto ed abbia infine dichiarato una disponibilità a sottoporsi all'alcoltest, dal momento che non esiste una sorta di ravvedimento operoso da parte di chi abbia già, con il comportamento di rifiuto, consumato il reato; e dal momento che comunque è del tutto giustificato che gli agenti abbiano ritenuto superfluo l'accertamento atteso che, dato il tempo trascorso ed essendosi l'imputato ripetutamente allontanato, avrebbe potuto facilmente essere ritenuto poco attendibile, ben essendo possibile che lo stesso fosse stato "inquinato" dal comportamento dello stesso imputato successivo al controllo iniziale. Neppure merita considerazione la tesi dell'attacco di panico; sono state indicate dai giudici di primo e secondo grado le ragioni per le quali tale ipotesi è stata ritenuta non credibile; in particolare la sentenza di primo grado, come noto integrativa di quella di appello, ha messo in luce come l'imputato non abbia affatto accennato agli agenti operanti tale sua patologia, evocata poi dalla difesa sulla base di un attestato dello psichiatra che lo aveva in cura che documentava una "fobia per le malattie"; ma non era credibile che l'imputato, cui gli agenti avevano spiegato in che cosa consisteva il test dell'etilometro, potesse aver avuto paura di tale test, tanto più che qualche giorno dopo si era recato autonomamente in ospedale per sottoporsi al dosaggio del CDT, nel tentativo di smentire l'ipotesi accusatoria; è però risultato, attraverso la testimonianza del medico del laboratorio, che tale test indica l'abuso alcolico cronico, ma non poteva dimostrare nulla su un uso episodico. Correttamente dunque è stata ritenuta la responsabilità del'imputato e sono state respinte le richieste istruttorie avanzate in appello, in piena aderenza al pacifico principio secondo cui nel giudizio d'appello la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale è istituto di carattere eccezionale, rispetto all'abbandono del principio dell’oralità che vige nel secondo grado di giudizio, dove vale la presunzione che l'indagine istruttoria abbia ormai raggiunto la sua completezza nel dibattimento svoltosi innanzi al primo giudice. In una tale prospettiva, l'art. 603 c.p.p., comma 1, non riconosce carattere di obbligatorietà all'esercizio del potere del giudice d'appello di disporre la rinnovazione del dibattimento, mentre è richiesto, come correttamente evidenzia il ricorrente, che il giudice renda conto, con adeguata motivazione sottoposta al controllo da parte di questa Corte, del percorso dal medesimo seguito nel ritenere raggiunta la prova della responsabilità. Onere al quale, per quanto si è detto, la corte di appello non si è sottratta. Anche sul trattamento sanzionatorio la sentenza è correttamente motivata avendo i giudici giustificato la misura della pena con il complessivo comportamento posto in essere dall'imputato che in un primo momento, dopo aver urtato un'altra auto, aveva cercato di darsi alla fuga e aveva tenuto un comportamento processuale di ostinato mendacio.

3. Conclusivamente il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e da ciò deriva l'onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore delle cassa delle ammende che, in considerazione dei motivi dedotti, stimasi equo fissare, anche dopo la sentenza della Corte Cost. n.186 del 2000, in Euro 1.000,00 (mille/00).

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di 1.000,00 Euro in favore della cassa delle ammende.

 

 

da Altalex

 

 

 



Mercoledì, 13 Febbraio 2013
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