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Svolta forzata, cade un motociclista. Condannato, anche senza contatto, l’automobilista in fuga

Foto di repertorio dalla rete

Una manovra azzardata dell’automobilista (che ‘forza’ la svolta, mettendo in ‘secondo piano’ l’obbligo di ‘dare precedenza’) mette nei guai un motociclista che cade, colto di sprovvista e, probabilmente, anche impaurito dalla situazione di potenziale pericolo. L'automobilista è condannato per omissione di soccorso: lo stop per prestare assistenza era necessario a prescindere dall’eventuale contatto tra i due mezzi, anche tenendo presenti le caratteristiche del ciclomotore (Cassazione, sentenza 5510/13). Per i giudici di Tribunale e Corte d’Appello, non c'è dubbio sull’addebito nei confronti dell’automobilista, che viene condannato per la violazione delle «norme di comportamento» in caso di incidente. Anche perché, viene chiarito dai giudici, pur volendo «ipotizzare la mancanza di un contatto tra i veicoli», come suggerito dall’automobilista, la versione proposta da quest’ultimo – secondo il quale «il motociclista aveva fatto tutto da solo» – dimostrava, comunque, che egli «era certamente reso conto di essere rimasto coinvolto in un incidente; per ciò solo, vi era comunque l’obbligo di fermarsi».

 

Nonostante ciò, però, l’automobilista rivendica ancora la propria buonafede, sostenendo che «non vi sarebbe stata collisione tra i veicoli», e che quindi egli «non sarebbe rimasto coinvolto nell’incidente». E, comunque, sempre ad avviso dell’uomo, «anche ad ammettere come avvenuto il prospettato contatto tra i veicoli, non ne sarebbe derivato un rumore sufficiente a mettere in allarme il conducente», né, peraltro, «sarebbe stato dimostrato l’allontanamento a forte velocità» da parte sua. Ma questa visione viene completamente rigettata dai giudici, i quali, innanzitutto, a mo’ di riferimento, ricordano che «l’elemento soggettivo del reato ricorre quando l’utente della strada, al  verificarsi di un incidente, idoneo a recar danno alle persone e riconducibile al proprio comportamento, ometta di fermarsi per prestare eventuale soccorso, non essendo necessario che il soggetto agente abbia in concreto constatato il danno provocato alla vittima», e aggiungono che sull’addebito della fuga «la consapevolezza che la persona coinvolta nell’incidente ha bisogno di soccorso può sussistere anche sotto il profilo del dolo eventuale».

 

E quest’ultimo profilo si attaglia bene alla vicenda in esame, perché, sottolineano i giudici, «il contatto con un ciclomotore (o, comunque, anche la sola caduta a terra del mezzo stesso) – veicolo che comporta, come è noto, instabilità e precarietà di equilibrio per il conducente – imponeva l’obbligo della fermata», e, comunque, l’automobilista, secondo la propria versione dei fatti, «avendo avvertito la necessità di ispezionare la strada alle sue spalle attraverso lo specchietto retrovisore, si era ben reso conto dell’incidente riconducibile alla sua condotta».

 

Quadro chiarissimo, allora: l’uomo «aveva percepito l’incidente; era consapevole che l’incidente stesso era riconducibile al suo comportamento e concretamente idoneo a produrre eventi lesivi». Ricorreva, quindi, «l’elemento psicologico quantomeno nella forma del dolo eventuale», in merito alla fuga dal luogo della caduta del ciclomotore, «attestato dal rifiuto, per effetto dell’allontanamento, di accertare la sussistenza degli elementi in presenza dei quali la condotta costituiva reato». Ecco perché la condanna dell’automobilista va confermata.

 


da dirittoegiustizia.it

Mercoledì, 17 Aprile 2013
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