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Resistenza a pubblico ufficiale: il rischio di oltrepassare lo spirito della legge

(Articolo 17.04.2013)

Sommario:
La fattispecie e l’applicazione giurisprudenziale
La speciale causa di non punibilità ex 393 bis
L’Auspicio condiviso


 

La fattispecie e l’applicazione giurisprudenziale

Il delitto (reato) di c.d. resistenza al Pubblico Ufficiale è collocato dal Codice Rocco sotto il Titolo II “Dei delitti contro la pubblica amministrazione” all’art. 337 c.p.

La norma codicistica prevede la punibilità di tal condotta: “Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”.

Il reato, essendo un reato c.d. comune, attrae potenzialmente la generalità dei consociati e li rende possibili e futuri soggetti attivi.

La condotta penalmente punibile dovrà esser accompagnata da un dolo di tipo specifico, consistente nella consapevolezza di:

• usare violenza o minaccia;
• opporsi ad un soggetto qualificato mentre compia attività o funzione a sua volta qualificata.

La condotta violenta o minatoria, stando ad un’interpretazione logica e letterale sembra dover necessariamente essere diretta e, concretamente lesiva, così non è, infatti:

• non è necessario che sia esercitata direttamente sulla persona qualificata, ma è sufficiente che essa si estrinsechi su cose o anche su privati, purché idonea ad impedire, a turbare e ad ostacolare l’esercizio della pubblica funzione;
• integrerebbe la condotta anche un atteggiamento autolesionistico[1];
• integrerebbe la condotta anche la mera fuga[2];
• la consumazione del reato non richiede una intimazione diretta e personale nei confronti del soggetto qualificato essendo sufficiente l’impiego di qualsiasi forma di coazione anche indiretta che si rilevi idonea a vincolare o coadiuvare la libertà di scelta o di azione del pubblico ufficiale stesso[3].

Resterebbero perciò esclusi dall’area del penalmente rilevante solo i comportamenti di resistenza passiva o di mera disobbedienza[4].

Tali ultimi modus agendi sarebbero comunque esclusi anche nel caso in cui il funzionario sia costretto ad usare la forza per vincerli.

Rientrerebbero ad esempio nel novero delle condotte di mera resistenza passiva, la condotta di colui che si distenda sul cofano di un’autovettura di servizio, e che inveendo contro le forze dell’ordine si rifiuti di sottoscriver un verbale[5] e la condotta di colui che si dia alla fuga[6].

La speciale causa di non punibilità ex 393 bis

Un breve cenno va fatto, doverosamente, alla fattispecie prevista all’art. 393 bis codice penale.[7]

L’art. 393 bis c.p. recita: “Non si applicano le disposizioni degli articoli 336, 337, 338, 339, 341 bis, 342 e 343 quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni”.

Tale disposizione introdotta dal c.d. pacchetto sicurezza è figlia dell’esimente in passato contenuta nell’art. 4 del D.Lgs. Lgt. 14 Settembre 1944, n. 288, allora nota come “Reazione legittima degli atti arbitrari dei pubblici ufficiali”[8].

Occorre perciò, delineare i confini della locuzione “Arbitrarietà”.

L’arbitrarietà, altro non è che un atteggiamento consistente in un qualsiasi comportamento posto in essere in esecuzione di pubbliche funzioni, di per sé legittime ma, connotato da difetto di congruenza tra le modalità impiegate e le finalità per le quali è attribuita la funzione stessa, a causa della violazione degli elementari doveri di correttezza e civiltà.

E’ proprio questo concetto a legittimare la reazione del privato cittadino (anche in termini di condotta rilevante ex art. 337 c.p.) e, a rendere non rimproverabile penalmente la condotta.

A chiarire ancor più il punto è intervenuta di recente la Suprema Corte, infatti: “L’esercizio arbitrario dell’attività da parte del pubblico ufficiale non richiede né che il pubblico ufficiale agisca con il proposito di commettere un arbitrio, né che questo possa essere preceduto da un atteggiamento anche provocatorio del privato, che di per sé solo non vale ad elidere l’adeguatezza causale della reazione rispetto alla condotta arbitraria (non legittima) del pubblico ufficiale pur con solo riferimento alle modalità di realizzazione di un atto del suo pubblico ufficio”[9].

Tale norma in realtà pare esser stata riposta in un cassetto da parte della giurisprudenza, non rinvenendosi significative applicazioni al riguardo.

L’auspicio condiviso

Dall’analisi applicativo-giurisprudenziale sinteticamente svolta si nota come spesso le supreme corti son solite travalicare i confini letterali del reato di resistenza a pubblico ufficiale, arrivando i non pochi casi a oltrepassare lo spirito della legge (e del legislatore).

L’esempio paradigmatico ci è offerto dall’interpretazione della giurisprudenza della condotta fuggitiva[10].

Colui che fugge nella quasi totalità dei casi non pone in essere la condotta incriminata dall’art. 337 c.p., infatti, la violenza e/o la minaccia evocate dalla norma penale giammai si configurano nell’ipotesi del fuggitivo, questo è un dato incontrovertibile.

Voler ancorare a tutti i costi la condotta violenta o minatoria alla condotta fuggitiva, significa voler oltrepassare lo spirito della legge.

Ecco come il reato esaminato grazie ad una discutibile condotta euristica della giurisprudenza viene modellato, snaturato e oltrepassato.

Infatti, ad oggi, l’art. 337 c.p. è l’odierno escamotage giurisprudenziale a tutela della forza pubblica, a tutela di qualsivoglia modalità di intervento del pubblico ufficiale e a generalizzato discrimen nei confronti del privato cittadino (uomo comune).

Il rischio è di una discriminazione sia a priori che a posteriori.

Uomo comune a priori posizionato in posizione subordinata rispetto al pubblico ufficiale ed a posteriori soggetto ad un timore reverenziale rispetto all’art. 337 c.p. (con evidente violazione di due principi cardine di uno Stato di diritto: certezza del diritto e uguaglianza).

Ripensare ad un interpretazione sistematica più rigorosa e meno creativa è il porto da cui salpare.

(Articolo di Matteo Mastracci)

***

 

[1] “Anche una condotta autolesionistica posta in essere dal soggetto agente può essere in ipotesi sussunta nell'alveo del reato sempre se finalizzata ad ostacolare o contrastare il compimento di un atto dell'ufficio ad opera del pubblico ufficiale” (Corte d’Appello di Napoli, VII Sez. Penale, 4 dicembre 2012, n. 5187).

[2] In realtà sul punto la giurisprudenza è oscillante; infatti da un lato la Cassazione Penale, sez. VI, 14 febbraio 2011, n. 5572 esclama “Chi per sottrarsi ad un controllo di polizia, sia fuggito a bordo del proprio mezzo di trasporto, affrontando una strada stretta ed affollata, compiendo manovre pericolose, zigzagando, costringa le forze dell’ordine a manovre azzardate e di fatto realizza una condotta idonea a porre in pericolo la pubblica incolumità creando una coartazione psicologica indiretta”; dall’altro la Corte d’Appello di Palermo, 18 febbraio 2009, n. 493 afferma: “La configurabilità del reato di cui all’art. 337 c.p. quando il soggetto nell’immediatezza dell’accertamento ed al fine di sottrarsi allo stesso decida di darsi alla fuga”.

[3] In questi termini da ultimo Tribunale di Firenze, I Sez. Penale, 21 marzo 2012, n. 676.

[4] Cfr. Cassazione Penale, VI Sez., 14 Febbraio 2011, n. 5572.

[5] In tale direzione Cassazione Penale, Sez. VI, 16178/2008, laddove: “Si tratta senza dubbio di un comportamento ostruzionistico ed oltraggioso, che però non è andato al di là della mera resistenza passiva e non presenta quei connotati di violenza e minaccia indispensabili per la sussistenza del reato di cui all’art. 337 c.p.”; tuttavia si veda in senso contrario Cassazione Penale 14659, la quale in un caso analogo stabilisce: “Un’opposizione anche solo verbale ha un contenuto oggettivamente idoneo a rappresentare una ragionevole portata intimidatoria”.

[6] Qui la decisione della Corte d’Appello di Palermo si pone in perfetta antitesi con la decisione della Cassazione, infatti: “La configurabilità del reato in esame deve escludersi nel caso in cui il soggetto ponga in essere una condotta meramente passiva, suscettibile di assumere forme e modalità diverse, a seconda delle circostanze, ma certamente integrata nell’ipotesi di mera fuga” (Corte d’Appello di Palermo 18 Febbraio 2009, n. 493).

[7] Dimenticata sin troppo dalla giurisprudenza attuale.

[8] A tale tema si ricollega inoltre l’ulteriore tematica relativa all’eccesso di legittimo intervento, si richiama sul punto Eccesso di Legittimo intervento: Il caso Ferulli , Matteo Mastracci in altalex.com.

[9] Così Cassazione Penale, Sez. VI, 31 gennaio 2012, n. 5913.

[10] Lo stesso si potrebbe dire per la condotta autolesionistica.

 

 

da Altalex

 

 


Giovedì, 18 Aprile 2013
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