Omicidi stradali, l'ingiustizia italiana
di SILVIA BONAVENTURA
Guida in stato di ebbrezza. Incidente stradale che uccide due persone. Un reato che in Italia dovrebbe essere punito, secondo quanto stabilito dalla legge, con una pena dai 2 ai 7 anni, che viene moltiplicata fino a tre volte nel caso di omicidio plurimo. Il termine “dovrebbe” è utilizzato volontariamente, in quanto per la morte di Libero Marchi e Paola Moretti, investiti frontalmente da un suv guidato da un 22enne con tasso alcolemico di 0,87, la legge non è stata applicata. Il 2 luglio del 2011 il giovane alla guida del fuoristrada, sotto effetto dell’alcol, ha invaso la corsia opposta nella quale viaggiava la coppia, il marito accompagnava la moglie al lavoro, come ogni giorno da anni. Per i due non c’è stato scampo, un urto frontale letale. Libero e Paola non ci sono più. Il loro carnefice invece è ancora tra noi. In prigione, penserete. E invece…
Come è andata a finire? Ce lo spiega l’Asaps: in seguito alla constatazione dei fatti, “sorgeva un procedimento penale, che però si concludeva prima della richiesta di rinvio a giudizio con un accordo sulla pena concluso dal Pubblico Ministero e dal legale dell’imputato, per una pena finale di anni 2 di reclusione, sospesa, anche se subordinata allo svolgimento di mesi 2 di lavoro di pubblica utilità nella giornata di sabato dalle 8:30 alle 12:30”. Quindi “l’assassino” – assassino, perché chi guida ubriaco non merita attenuanti – è stato condannato a 2 anni di prigione,
sospesi e sostituiti dai servizi sociali una volta a settimana, il sabato mattina, per appena 4 ore. Questo il valore delle vite dei due coniugi. Anche se nessuna pena è commisurata al valore di una vita, e niente potrà riportare una persona morta ai suoi cari, sapere che chi ha spezzato quel progetto familiare “paghi” con il proprio tempo può dare sollievo a chi rimane, può dare un senso di “giustizia”. E invece troppo spesso non è così. Oltretutto, proseguono dall’Asaps, “di quell’accordo e della successiva sentenza che lo ha applicato non veniva riferito nulla ai familiari”. Oltre al danno la beffa.
Ma attenzione, non è stato un abuso, è tutto nei termini di legge: “Il codice prevede che un tale accordo si possa concludere prima del processo, e una decisione della Cassazione a Sezioni Unite (evidentemente applicata) esclude che di esso debbano essere preventivamente o successivamente informate le vittime, ed esclude che esse possano partecipare all’udienza che pone capo alla decisione che lo applica”. Quindi, per la legge italiana, i familiari delle vittime non devono essere informate dell’accordo che è riservato. A quanto pare si tutela il carnefice ma non le vittime.
“Eppure – commentano dall’Asaps – basterebbe un minimo di sensibilità negli uffici di Procura: per concludere un accordo occorre essere in due, e un accordo può essere concluso e rimandato nell’ambito del processo, così garantendo l’informazione e la partecipazione delle vittime. Un accordo riservato concluso fuori del processo è permesso: ma non tutto ciò che è permesso è giusto”. La parola ai nostri legislatori, in attesa che inseriscano l’omicidio stradale tra i reati.
da www.repubblica.it