Quando si è giovani è strano, poter pensare che
la nostra morte venga e ci prenda per mano…
E’ un brano della canzone "Dedicata ad un’amica" dei
Nomadi, di una trentina e passa anni fa.
I ragazzi corrono nel vento, che cercano di emulare, spensierati,
forti della loro giovane vita, immortali come Achille, che pure
immortale non era.
Corrono in auto, in moto.
Si aspettano l’ebbrezza, cercano le sensazioni forti e si sopravvalutano.
Pensano che gli incidenti capitino sempre agli altri, ai loro
stessi amici di cui a volte devono partecipare alle esequie.
Ma non registrano che sotto il foglio della vita aderisce perfettamente
quello della morte, i cui margini sono pronti a debordare in un
attimo di distrazione, diventando l’immagine principale.
I ragazzi non sanno cos’è la morte nel dettaglio, quale
bagaglio di squallida sofferenza può avere in sé,
quale dolore può imprimere nei genitori che innaturalmente
devono seppellire i propri figli.
La morte è cruda, concreta, dà confidenza a chiunque
ed accetta le sfide, perché è sicura di vincere
prima o poi.
I giovani che corrono, rischiano e si misurano con i loro limiti
(che spesso sconoscono) non capiscono cosa può essere per
i loro genitori un incidente grave, nel quale riporteranno menomazioni
o addirittura moriranno.
Bisognerebbe far vivere loro, pur da spettatori, l’esperienza
tragica di un incidente mortale di un loro coetaneo.
Lo schianto, il silenzio assordante degli attimi che seguono,
il corpo riverso sull’asfalto, le frenate delle auto che si fermano
per i soccorsi, il sangue, le urla e i primi pianti di chi, vedendo,
ha capito.
Poi la sirena di un’ambulanza, l’arrivo in pronto soccorso, il
livello rosso di attivazione dei sanitari, il rianimatore, i raggi
x per constatare gli effetti devastanti dell’urto sulle ossa,
sugli organi e l’ultimo respiro esalato mentre arrivano i parenti.
Ragazzi sapete cosa può voler dire per un padre ed una
madre apprendere dagli occhi di qualcuno che il proprio figlio
non c’è più?
Che è morto poco prima in una lettiga, tra estranei, prima
del suo tempo, senza neppure un bacio?
Avete mai ascoltato le urla o lo strazio composto ?
Gli abbracci disperati che si cercano per un reciproco sostegno?
Sapete com’è fatto un obitorio?
E’ surreale e c’è freddo.
Sapete immaginare il corpo nudo di un giovane devastato sul marmo?
Con fratture esposte, ferite sparse in un corpo martoriato ed
immobile?
Conoscete il colorito grigiastro della morte?
Gli occhi socchiusi?
E l’incedere di un medico legale incaricato da un magistrato di
ispezionare quel corpo?
O magari di effettuarne l’autopsia?
Un corpo immobile che prima era una vita ed ora è gonfio
di sangue, ghiacciato e deturpato.
Bisognerebbe vedere due genitori distrutti che aspettano che il
cadavere sia dissequestrato e restituito per i funerali.
Gli addetti alle pompe funebri, discreti ma efficienti che lavorano
e cercano il parente più lucido per programmare il funerale,
per scegliere le parole giuste per i manifesti mortuari.
Il ronzio di voci, di volti esterrefatti, solidali, di circostanza,
che si avvicinano, baciano, fanno le condoglianze.
Ma anche il flusso di ricordi che affolla la mente di chi è
in vita e se ne fa una colpa.
I genitori non dovrebbero mai seppellire i propri figli, è
innaturale, iniquo.
Ragazzi, pensate mai a quanto grande può essere un dolore
simile?
In una chiesa gremita di volti affranti, abiti scuri, con una
bara in mezzo, davanti all’altare, i fiori, l’omelia pietosa del
sacerdote che predica la speranza e la fede nella resurrezione,
in un momento dove è difficile andare oltre la crudezza
del dolore.
Riuscite ad immaginare i vostri genitori, i fratelli, i parenti,
stretti sui banchi di quella chiesa distrutti, inebetiti, avvolti
da un’atmosfera surreale?
E pensate al dopo, ai compagni, agli amici che si alternano con
gli occhi rossi a portare il feretro a spalla tra gli applausi
appena fuori dalla chiesa degli intervenuti.
Ripensate a quei vostri genitori, che non sanno perché
sono lì, ai funerali di chi, che devono ringraziare le
pietose mani che li toccano o solo li sfiorano, mentre loro sragionano,
piangono, ridono.
Immaginate quanto grande può essere un simile sfinimento
per chi nutriva progetti, fantasticava traguardi e si aspettava
sorrisi e strette di mano, ma di congratulazioni?
E’ difficile capire cosa c’è nell’animo di un genitore
se non si è messo al mondo un figlio.
E’ atroce pensare di poterlo accompagnare in cimitero, dentro
una bara, per chiuderlo per sempre in una tomba.
Non sappiamo se la crudezza di queste riflessioni, purtroppo meno
reali della realtà, valgano la prudenza di un ragazzo.
Possa frenare l’apertura del suo polso o la spinta del piede sull’acceleratore
in tante circostanze ove si pensa di non incontrarla mai la morte.
Né ad un incrocio e neppure dietro una curva con cui cimentarsi
per vedere chi quanto si è abili nella guida.
Ma dietro ogni gara ci sono altre persone. Quelle che tremano,
che palpitano, che pregano per noi.
Quelle che ci vogliono bene e alle quali neppure pensiamo talmente
è scontato che ce ne vogliano.
Ma non è così, se ci pensate.
Essere amati è un privilegio che non può prevedere
lo sprezzo dei sentimenti, il rifiuto della logica, lo scherno
della cautela.
La morte è a volte in agguato, a prescindere.
Ma quando si è giovani è più probabile che
la si vada a stuzzicare, perché essa di norma si rivolge
altrove, ad altri.
La sua rappresentazione ne celebra un patos teorico, ne esalta
il mistero, la rende nobile.
Ma affrontarla nei suoi esiti, davanti alle spoglie di un figlio,
è tutta un’altra cosa.
Essa è assurda tragedia, desolazione della carne, profonde
ferite dell’anima che un adulto non rimarginerà mai, morendo
anch’esso dentro, senza la consolazione dell’oblio.
Prudenza e basta vuol dire poco.
Ma rispetto per l’amore che suscitiamo in chi ci ama dovrebbe
essere un valore.
Rispetto per la loro gioia.
Prevenzione per il loro dolore per una indecente voglia di rischiare
fine a se stessa, ordita troppe volte con troppa sufficienza e
vanto.
Se solo ci ricordassimo di più di chi ci ama….