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Corte di Cassazione 03/01/2014

Stalking configurabile anche se atti molesti tra vittima e reo sono reciproci

(Cass. Pen. , sez. III, 14 novembre 2013 n. 45648)

La fattispecie di atti persecutori può configurarsi anche nel caso di reciprocità di atti molesti tra la vittima ed il reo. E' quanto emerge dalla sentenza della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione del 14 novembre 2013, n. 45648.

Il caso vedeva un uomo essere condannato, in primo e secondo grado, per il reato di atti persecutori, ex art. 612-bis c.p., sia sulla base delle condotte reiteratamente poste in essere , sia in merito al comprovato stato di ansia procurato dall'aggressore alla vittima a causa delle minacce e dei pedinamenti nei confronti di quest'ultima. La Corte territoriale riteneva sussistente il reato anche nel caso di reciprocità delle condotte moleste, intimidatorie, aggressive o petulanti: da ciò il ricorso per Cassazione con il quale l'uomo lamenta, tra gli altri, l'inosservanza della legge penale con riferimento alla reciprocità delle condotte, inidonea ad integrare il reato.

Recente giurisprudenza di legittimità afferma che la reciprocità dei comportamenti molesti non escluda la configurabilità del delitto di atti persecutori, incombendo, in tale ipotesi, sul giudice, un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza del danno, ovvero dello stato d'ansia o di paura della presunta persona offesa, del suo effettivo timore per l'incolumità propria o di persone ad essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita (Cass. pen., Sez. V, 5 febbraio 2010, n. 17698).

Il reato di atti persecutori prevede eventi alternativi, la realizzazione dei quali è idonea ad integrarlo: si richiede la sussistenza di un comportamento reiteratamente minaccioso o comunque molesto dell'agente dal quale derivi, per il destinatario della minaccia o della molestia, quale ulteriore evento dannoso, un perdurante stato di ansia o di paura, oppure un fondato timore dello stesso per l'incolumità propria o di soggetti vicino, oppure, ancora, il mutamento necessitato delle proprie abitudini di vita.

Di estrema importanza appare la necessità a che il giudice effettui una accurata indagine diretta ad accertare in quali termini le condotte persecutorie vengano poste in essere ed all'interno di quale contesto ciò avvenga: se le condotte maturano in un ambito di litigiosità tra due soggetti, tale da evocare una posizione di sostanziale parità, non può parlarsi di condotta persecutoria nei termini richiesti dalla fattispecie astratta, la quale fa riferimento ad una posizione sbilanciata della vittima rispetto all'autore dei comportamenti vessatori o intimidatori.

Secondo gli ermellini "il termine reciprocità non vale, dunque, ad escludere in radice la possibilità della rilevanza penale delle condotte persecutorie ex art. 612-bis c.p., occorrendo che venga valutato con maggiore attenzione ed oculatezza, quale conseguenza del comportamento di ciascuno, lo stato d'ansia o di paura della presunta persona offesa, o il suo effettivo timore per l'incolumità propria o di persone a lei vicine o la necessità del mutamento delle abitudini di vita".

Occorre verificare, continuano i giudici, se, nell'ipotesi di reciprocità delle minacce, vi sia una posizione di ingiustificata predominanza di uno dei due soggetti, tale da consentire di qualificare le iniziative minacciose e moleste come atti aventi natura persecutoria, e le conseguenti reazioni della vittima come esplicazione di un meccanismo di difesa diretto a sopraffare la paura. Nella fattispecie, la Suprema Corte esclude che si trattasse di una situazione di effettiva reciprocità, sebbene sussistessero determinati episodi nei quali la vittima avrebbe affrontato l'imputato con fare aggressivo, tale, però, da non incidere sulla sua situazione di stress rimasta inalterata.

(Altalex, 28 novembre 2013. Nota di Simone Marani)

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III PENALE

Sentenza 23 maggio - 14 novembre 2013, n. 45648

(Presidente Lombardi – Relatore Grillo)

 

Ritenuto in fatto

1.1 Con sentenza del 25 maggio 2012 la Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza emessa il 3 novembre 2011 dal Giudice dell'udienza Preliminare del Tribunale di Velletri nei confronti di U.G., imputato dei delitti di atti persecutori (art. 612 bis cod. pen.) e violenza sessuale (art. 609 bis cod. pen.), con la quale lo stesso era stato condannato, con la continuazione tra i due reati, alla pena complessiva di anni quattro di reclusione oltre alle pene accessorie di legge ed al risarcimento del danno nei confronti della parte civile costituita, concedeva le circostanze attenuanti generiche e, per l'effetto, rideterminava la pena complessiva in anni due e mesi due di reclusione, contestualmente revocando l'interdizione temporanea dai pubblici uffici e confermando nel resto anche con riferimento alle disposte statuizioni civili.

1.2 A fondamento di detta decisione la Corte territoriale ribadiva la configurabilità del reato di atti persecutori sia sulla base delle condotte reiteratamente poste in essere dall'U. dopo l'11 giugno 2010 (data nella quale la persona offesa rimetteva la querela con riferimento alle condotte pregresse), sia in relazione al comprovato stato di ansia procurato dal detto imputato alla donna per via delle minacce e pedinamenti fatti nei suoi confronti. Ancora, con riferimento al reato di cui al capo A), la Corte riteneva sussistente il reato anche in presenza di condotte reciproche di tipo molesto o intimidatorio o aggressivo o petulante. Ed infine, escludeva l'effetto estintivo del reato de quo in relazione alla intervenuta rimessione della querela (peraltro dovuta al timore di ritorsioni da parte dell'U. , atteso il suo carattere collerico e violento), rilevando come in prosieguo l'atteggiamento persecutorio fosse continuato attraverso le condotte descritte dalla parte offesa nella successiva querela sporta in data 18 ottobre 2010 e relativa a due episodi avvenuti, rispettivamente, il 17 settembre e il 18 ottobre 2010. Quanto, poi, al reato di violenza sessuale, ne ribadiva la configurabilità sulla base della versione fornita dalla donna ai Carabinieri nella immediatezza del fatto, versione che la Corte riteneva credibile. Veniva, di contro, riconosciuta la circostanza attenuante del fatto di minore gravità e le circostanze attenuanti generiche originariamente negate dal G.U.P.

1.3 Per l'annullamento della detta sentenza propone ricorso l'imputato a mezzo del proprio difensore articolando nove motivi che qui si espongono succintamente. Con il primo viene denunciata la manifesta illogicità della motivazione in punto di qualificazione della condotta nello schema dell'art. 612 bis cod. pen.. Con il secondo motivo la difesa deduce inosservanza dell'art. 597 cod. pen. per avere la Corte rimesso in discussione l'intera condotta del reato di atti persecutori, richiamando episodi travolti dalla intervenuta rimessione della querela e per i quali si era formato il giudicato. Con il terzo motivo viene dedotta inosservanza dell'art. 152 comma 1 cod. proc. pen. e violazione del principio del favor rei rilevando che, a seguito della intervenuta rimessione della querela per gli episodi antecedenti all'11 giugno 2010 (data di rimessione della querela), la condotta antecedente non poteva più avere alcuna rilevanza anche in presenza di reati permanenti o abituali, se non per le condotte successive purché oggetto di separata ed autonoma querela. Con il quarto motivo la difesa lamenta inosservanza della norma penale (art. 612 bis cod. pen.) deducendo che, a seguito della intervenuta rimessione della querela, la condotta punibile doveva circoscriversi soltanto agli episodi successivi all'11 giugno 2010 ed oggetto della querela del 18 ottobre 2010. Con il quinto motivo la difesa lamenta analogo vizio in relazione alla non ripetitività degli atti di molestia inidonei a concretizzare l'ipotesi delittuosa contemplata nell'art. 612 bis cod. pen., essendo insufficienti due soli episodi come, invece, erroneamente ritenuto dalla Corte territoriale. Con il sesto motivo la difesa lamenta l'inosservanza degli artt. 50 e 612 bis cod. pen. con riferimento alla reciprocità delle condotte, inidonea, diversamente da quanto affermato dalla Corte territoriale, ad integrare il reato. Con il settimo motivo la difesa lamenta - con riferimento al reato di atti persecutori - mancanza di motivazione in ordine agli elementi costitutivi del reato, per avere la Corte omesso di argomentare in ordine alla conseguenze psico-fisiche ingenerate sulla donna dal comportamento dell'imputato. Con l'ottavo motivo la difesa deduce analogo vizio con riferimento alla ritenuta sussistenza del delitto di violenza sessuale, per avere la Corte distrettuale espresso un giudizio di attendibilità nei riguardi della vittima in termini superficiali. In ultimo, con il nono motivo, la difesa si duole di carenza della motivazione con riferimento al criterio di graduazione della pena per il delitto di violenza sessuale a fronte della riconosciuta circostanza attenuante del fatto di minore gravità, avendo la Corte preso a base una pena eccessiva.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è parzialmente fondato nei termini e limiti qui di seguito precisati.

2. Il primo motivo afferisce ad una pretesa contraddittorietà tra la decisione di primo grado e quella di appello in ordine alla descrizione della condotta e, in particolare, in ordine alla indicazione degli episodi integranti il reato contestato al capo A): a giudizio del ricorrente, infatti, mentre la condotta accertata dal Tribunale riguarderebbe tre distinti episodi, uno dei quali (quello relativo al periodo gennaio-febbraio 2010) estinto per sopravvenuta rimessione della querela e gli altri riferibili, rispettivamente, al 17 settembre e 18 ottobre 2010, quella accertata dalla Corte distrettuale riguarderebbe non solo i detti episodi ma anche altri non tenuti in considerazione dal Tribunale. La censura non è condivisibile e risulta, anzi, manifestamente infondata in quanto la Corte territoriale ha preso in considerazione ai fini della conferma del giudizio di colpevolezza unicamente i due episodi verificatisi il 17 settembre e 18 ottobre 2010 denunciati dalla donna con la querela del 18 ottobre 2010, dopo che la precedente querela (avente per oggetto non solo i fatti del gennaio-febbraio 2010, ma anche altri di minore rilevanza) era stata rimessa dalla persona offesa D.M. l'11 giugno 2010.

3. Il secondo motivo riguarda la presunta violazione dell'art. 597 comma 1 cod. pen. per avere la Corte territoriale rimesso in discussione un punto della decisione sulla quale si era, a giudizio del ricorrente, formato il giudicato, in quanto non sottoposta a gravame. Si tratta di un rilievo infondato perché la Corte territoriale ha preso a base della conferma del giudizio di colpevolezza unicamente i fatti non coperti da giudicato, senza alcuna rivisitazione di episodi antecedenti all'11 giugno 2010 (se non in termini di mero ricordo storico avulso da qualsiasi statuizione). La norma processuale indicata dal ricorrente non ha, quindi, subito alcuna errata interpretazione avendo il giudice distrettuale rispettato il principio del tantum devolutum quantum appellatum in piena coerenza con le regole interpretative affermate al riguardo dalla giurisprudenza di questa Corte. Nessun peggioramento della posizione processuale dell'imputato è ravvisabile nella motivazione della Corte, né la descrizione delle precedenti condotte (ivi compresi alcuni episodi non tenuti in conto dal G.U.P.) ha comportato una decisione sfavorevole per l'imputato.

4. Altrettanto inesatta la tesi di difensiva enunciata nel terzo motivo circa la pretesa violazione dell'art. 152 comma 1 cod. proc. pen., in quanto la sentenza si riferisce essenzialmente alle condotte successive all'11 giugno 2010 e, più esattamente, a quelle oggetto della seconda querela sporta dalla D. , dopo che la precedente rimessione non aveva sortito alcun effetto deterrente nei riguardi dell'imputato che aveva proseguito imperterrito nelle proprie condotte molestatrici ed intimidatorie. Sicché, fermo l'effetto estintivo della rimessione per le condotte pregresse, il giudizio della Corte è rimasto circoscritto soltanto a quelle condotte per le quali era stata proposta autonoma querela successiva alla precedente. Il riferimento del ricorrente ai reato permanente è del tutto improprio, posto che, versandosi in tema di reato abituale, la Corte ha tenuto distinte le varie condotte, occupandosi unicamente di quelle sottoposte al suo vaglio a seguito dell'appello proposto dall'imputato. I principi contenuti nelle massime evocate dal ricorrente sono stati, quindi, puntualmente ed esattamente applicati dal giudice distrettuale: invero, poiché la rimessione della querela costituisce una causa estintiva del reato (ex art. 152 cod. pen.) essa opera per i fatti precedenti, ma non per quelli successivi, con la conseguenza che nel caso di reato permanente o abituale (come nella specie) non è preclusa, pur in presenza di un effetto estintivo per le condotte pregresse, la proposizione di altra querela per le condotte susseguenti non comprese nella rimessione, suscettibili, pertanto, di formare oggetto di una nuova indagine e dunque non sottratte alla cognizione del giudice: il che è esattamente avvenuto nel caso in esame.

5. Per ragioni sostanzialmente analoghe va ritenuto infondato il quarto motivo.

6. Con riferimento al quinto motivo, la censura non può essere condivisa: il concetto di reiterazione della condotta contenuto nel comma 1 dell'art. 612 bis cod. pen. denota la ripetizione di una condotta una seconda volta, ovvero più' volte con insistenza. Se ne deduce, dunque, che anche due sole condotte in successione tra loro, anche se intervallate nel tempo bastano ad integrare sotto il profilo temporale la fattispecie per quanto riguarda l'aspetto materiale (in termini Sez. 5^ 21.1.2010, n. 6417, Oliviero, Rv. 245881). Secondo la difesa del ricorrente il precedente giurisprudenziale testé citato privilegia una interpretazione letterale del termine in contrasto con la ratio legislativa, apparendo preferibile un concetto di reiterazione che abbia quale presupposto ad una serialità di comportamenti. E la riprova di ciò il ricorrente la trae dalla relazione al Disegno di legge n. 1440/08 A.C. in cui è lo stesso legislatore a parlare - ai fini della configurazione della nuova figura delittuosa - di "molestie assillanti". Tale affermazione pecca di troppa assolutezza, posto che in tutti i progetti di legge riguardanti l'introduzione del reato di atti persecutori si parla soprattutto di reiterazione della condotta, senza riferimento né all'arco temporale in cui tale reiterazione deve svilupparsi, né ad un concetto numerico delle azioni illegali.

6.1 Peraltro se il legislatore avesse voluto riferirsi al termine "assillante" per evidenziare la ripetitività delle condotte, avrebbe ben potuto adoperare tale espressione che certamente contiene in sé un riferimento temporale più esteso, ma, soprattutto, attiene alle conseguenze cagionate alla vittima più che al dato della sequenza temporale.

6.2 La Corte territoriale, oltre a sottolineare come il significato della parola reiterazione comportasse una ripetizione della condotta anche se limitata a due sole volte, ha ben evidenziato le conseguenze cagionate sulla psiche della vittima sottoposta ad una situazione di stress e di ansietà persistente non disgiunta dalla paura per la propria incolumità e per l'incolumità del figlio (emblematica la citazione di un episodio riguardante la comparsa dell'U. nel campo di calcetto in cui giocava il figlio minore della persona offesa intimorita da tale sgradita visita).

6.3 Orbene la correlazione delle due condotte (costituenti, peraltro, prosecuzione ideale di una condotta perdurante nel tempo iniziata nel lontano 2009 subito dopo la decisione della D. di interrompere la relazione extraconiugale con l'imputato e non cessata neanche dopo la rimessione della querela) con le perverse conseguenze subite sul piano psichico dalla D. soprattutto dopo che costei aveva cercato per "ragioni familiari", come da lei stessa definite, di stemperare la sequenza continua di disturbi nei suoi confronti in vario modo arrecatile, costituisce la riprova della esatta configurabilità del reato di atti persecutori in cui l'elemento costitutivo sul piano materiale non è dato solo dall'elemento tempo, ma dall'evento in termini di pregiudizio alla persona da porre in stretta correlazione con il dato della ripetitività: in altri termini, una condotta che fosse circoscritta ad una serie di atti di disturbo, non seguita dall'evento-danno sulla persona non integrerebbe la fattispecie, così come non la integrerebbe una condotta tale da provocare un senso di paura o di stress non preceduto o caratterizzato da una ripetitività dell'azione. Quel che è da escludere è l'equivalenza del concetto di reiterazione con la serialità: né la definizione concettuale di reato abituale data dalla dottrina e dalla giurisprudenza di questa Corte alla espressione "atti persecutori" vale ad escludere che due sole condotte di identica natura siano bastevoli per la configurabilità del reato.

7. Anche il motivo riguardante la erronea applicazione della legge penale per avere la Corte confermato il giudizio di responsabilità (e la qualificazione della condotta) nonostante la reciprocità delle condotte disturbatrici o insolenti o petulanti o aggressive, non è fondato.

7.1 Sostiene la difesa che la ricerca da parte della donna, in più occasioni, di un contatto con l'U. , si pone in posizione antinomica con il concetto di atti persecutori che presuppone una vittima alla merce del suo stalker ed impossibilitata, quindi, a reagire: secondo l'interpretazione del ricorrente, la ricerca da parte della donna del contatto in via autonoma e persino dopo che da parte dell'U. veniva posta in essere una condotta minacciosa o aggressiva, dimostrerebbe, da un canto, la inoffensività della asserita condotta persecutoria descritta dalla D. sulla sua psiche e, dall'altro, una sua capacità reattiva in termini anche di indipendenza, incompatibile con il concetto di stress enunciato dalla norma incriminatrice.

7.2 Come affermato da una recente decisione di questa Corte, la reciprocità dei comportamenti molesti non esclude la configurabilità del delitto di atti persecutori, incombendo, in tale ipotesi, sul giudice un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell'evento di danno, ossia dello stato d'ansia o di paura della presunta persona offesa, del suo effettivo timore per l'incolumità propria o di persone ad essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita (Sez. 5^ 5.2.2010 n. 17698, Marchino, Rv. 247226).

7.3 Alla base di tale decisione milita la considerazione che il reato di cui si discute prevede eventi alternativi la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo: deve trattarsi di un comportamento reiteratamente minaccioso o, comunque, molesto dell'agente dal quale derivi per il destinatario della molestia o minaccia (reiterata), quale ulteriore evento dannoso, un perdurante stato d'ansia o di paura, oppure un fondato timore dello stesso per l'incolumità propria o di soggetti vicini, oppure, ancora, il mutamento necessitato delle proprie abitudini di vita.

7.4 Ciò comporta la necessità di una indagine approfondita volta ad accertare in quali termini tali condotte "persecutorie" vengano poste in essere ed in quale contesto esse originino e si sviluppino: di guisa che se tali condotte maturino in un ambito di litigiosità tra due soggetti che evoca una posizione di sostanziale parità, non può parlarsi di condotta persecutoria nei termini richiesti dalla fattispecie astratta la quale si riferisce invece ad una posizione sbilanciata della vittima rispetto all'autore dei comportamenti intimidatori o vessatori.

7.5 Il termine reciprocità non vale, dunque, ad escludere in radice la possibilità della rilevanza penale delle condotte come persecutorie ex art. 612 bis c.p., occorrendo che venga valutato con maggiore attenzione ed oculatezza, quale conseguenza del comportamento di ciascuno, lo stato d'ansia o di paura della presunta persona offesa, o il suo effettivo timore per l'incolumità propria o di persone a lei vicine o la necessità del mutamento delle abitudini di vita. Deve, in ultima analisi, verificarsi se, nel caso della reciprocità degli atti minacciosi, vi sia una posizione di ingiustificata predominanza di uno dei due contendenti, tale da consentire di qualificarne le iniziative minacciose e moleste come atti di natura persecutoria e le reazioni della vittima come esplicazione di un meccanismo di difesa volto a sopraffare la paura. Né può dirsi che la reazione della vittima comporti, comunque, l'assenza dell'evento richiesto dalla norma incriminatrice, non potendosi accettare l'idea di una vittima inerme alla merce del suo molestatore ed incapace di reagire. Anzi non è neanche da escludere che una situazione di stress o ansia possa generare reazioni incontrollate della vittima anche nei riguardi del proprio aggressore. Il reato in parola si configura come reato di evento in contrapposizione al reato di minaccia di cui all'art. 612 cod. pen. qualificato come reato di pericolo, pur costituendo la minaccia elemento costitutivo comune ad entrambe le fattispecie.

7.6 Ora nel caso in esame la Corte territoriale ha escluso che si versasse in una situazione di reciprocità, pur avendo dato atto di alcuni episodi in cui la donna avrebbe affrontato l'imputato con fare aggressivo, tale, però, da non incidere sulla sua situazione di stress rimasta inalterata ed, anzi, accentuatasi con il trascorrere del tempo e l'intensificarsi dei comportamenti intimidatori dell'U. . Non può, quindi, parlarsi nell'ambito della vicenda in esame, di reciprocità quanto meno nel senso inteso dal ricorrente, avendo la Corte escluso che le due parti agissero ad armi pari (emblematico l'accenno della Corte ai tentativi operati in modo anche energico dalla D. per far desistere il suo ex amante dall'idea di diffondere le fotografie che la ritraevano in pose sexy in vista di un tentativo di recupero della pace familiare e di un riavvicinamento al proprio coniuge - vds. pag. 6 della sentenza impugnata).

8. Anche il settimo motivo non può trovare accoglimento in quanto la Corte territoriale ha adeguatamente motivato in ordine al verificarsi dell'evento, ricordando come la D. , al colmo della disperazione, quando aveva ripresentato la querela in data 18 ottobre 2010, aveva fatto riferimento allo sconvolgimento della propria vita quotidiana e di quella dei suoi familiari, soprattutto del figlio minore ed ancora alla assunzione di psicofarmaci quali coadiuvanti del sonno perduto.

8.1 La tesi del ricorrente secondo la quale mancherebbe in atti la prova del danno psichico subito dalla D. e conseguentemente la decisione della Corte sarebbe sostanzialmente priva di motivazione sul punto, è errata. Come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte "Ai fini della integrazione del reato di atti persecutori (art. 612 bis cod. pen.) non si richiede l'accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori - e nella specie costituiti da minacce e insulti alla persona offesa, inviati con messaggi telefonici o via internet o, comunque, espressi nel corso di incontri imposti - abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 612 bis cod. pen. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 cod. pen.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica" (Sez. 5^ 10.1.2011 n. 16854, C, Rv. 250158).

8.2 Ciò premesso, in linea generale il giudice territoriale ha fatto riferimento alle dichiarazioni rilasciate dalla donna ai carabinieri in una situazione di evidente stress emotivo (determinato anche dall'inseguimento della donna ad opera dell'U. con la propria auto): vero è che non è stata accertata attraverso una consulenza o perizia medica la patologia ansiogena riferita dalla D. alla P.G.: ma non va dimenticato che la persona offesa è stata ritenuta, a ragione, dalla Corte distrettuale credibile e che le sue dichiarazioni sono state anche rafforzate - per quel che riguarda la ripetizione di alcune condotte minacciose o vessatorie - anche da testi vicini per ragioni di amicizia tanto alla persona offesa quanto all'imputato.

L'accordata credibilità mai posta in discussione dal giudice di appello e sostanzialmente non contestata dal ricorrente che ha solo prospettato una diversa qualificazione delle proprie condotte, ha consentito alla Corte territoriale di affermare che la D. è credibile tanto quando ha parlato di condotte ripetute nel tempo di tipo intimidatorio o altrimenti vessatorio, tanto quando ha descritto drammaticamente, ma senza enfatizzazioni di sorta - come ricorda il giudice di merito - il proprio stato di ansia e di paura: dati, questi, che ben possono essere ricavati dalle dichiarazioni della vittima oltre che dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente e persino dalla condotta dell'imputato quale comportamento astrattamente idoneo a causare l'evento anche in relazione al contesto spaziotemporale in cui la condotta è stata posta in essere (Sez. 5^ 28.2.2012 n. 14391, S., Rv. 252314).

9. Palesemente infondato anche l'ottavo motivo riferito alla manifesta illogicità della motivazione in punto di conferma della responsabilità anche per il reato di violenza sessuale, in quanto il giudice distrettuale ha adeguatamente spiegato perché la D. dovesse essere ritenuta credibile quando ha riferito ai Carabinieri avvicinatisi alla sua auto, l'episodio del bacio, con il labbro ancora sanguinante e con l'U. accostato al finestrino dell'auto in termini tali da richiamare l'attenzione dei Carabinieri. La Corte ha motivatamente escluso che il sangue al labbro potesse avere attinenza con condotte diversamente qualificabili, rilevando, invece, come il racconto della donna nella immediatezza del fatto avesse un preciso aggancio ad una violenza sessuale subita attraverso il contatto forzoso delle labbra dell'imputato con le labbra della vittima (vds. pag. 7 della sentenza impugnata).

9.1 È quindi da escludere che tale condotta possa ritenersi assorbita nel reato di atti persecutori avendo invece conservato una propria autonomia in relazione alle dichiarazioni della D. che ha escluso che in quella circostanza l'U. proseguisse con atti di disturbo nei suoi confronti, evidenziando, invece, come il gesto del bacio violento dovesse ritenersi una azione autonoma dell'imputato tendente soltanto ad importunarla sessualmente (il che è poi avvenuto come constatato dai Carabinieri). Peraltro l'oggettività giuridica dei due reati sub a) e b) è diversa, avendo per oggetto il reato di cui all'art. 612 bis cod. pen. il bene giuridico costituito dalla libertà morale e il delitto di cui all'art. 609 bis stesso codice il bene giuridico costituito dalla libertà individuale: il che osta ulteriormente all'assorbimento come richiesto dal P.G. di udienza.

10. Va, invece, ritenuto fondato l'ultimo motivo afferente al trattamento sanzionatorio che la Corte ha determinato - per quanto riguarda la pena base per il reato più grave di cui al capo A) - in misura consistente, seppure non coincidente con il massimo edittale, con motivazione inadeguata: invero il mero riferimento alla particolare intensità del dolo in termini di pervicacia (che sembra però riferirsi più agli atti vessatori che al gesto sessuale) non può considerarsi un parametro di valutazione sufficiente, tanto più in considerazione della limitata offensività della azione sul piano della libertà sessuale, che ha indotto la Corte a riconoscere la circostanza attenuante del fatto di minore gravità e della situazione di incensuratezza alla base della concessione delle circostanze attenuanti generiche.

11. Si impone, sul punto, l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Roma per la rivisitazione del trattamento sanzionatorio alla stregua delle considerazioni espresse da questa Corte. Per il resto il ricorso deve essere rigettato.

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata, limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia ad altra Sezione della Corte di Appello di Roma. Rigetta, nel resto, il ricorso.




da altalex.com

 

 

Venerdì, 03 Gennaio 2014
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