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Articoli 07/01/2014

Omicidio stradale
Qualche legittima domanda sul cambiamento d’idea del ministro Cancellieri di fronte all’onda emozionale di un popolo troppo spesso inascoltato e l’intreccio con il prossimo “pacchetto” Giustizia

Di Lorenzo Borselli (*)
Foto archivio Asaps

(ASAPS) Forlì, 7 gennaio 2014 – Bisogna capire cosa vuole fare, il nostro Paese: vuole essere intransigente con chi viola la legge e garantire, al tempo stesso, una funzione riabilitativa del condannato, anche attraverso processi rapidissimi e certezza della pena, oppure vuole dedicarsi ad altre cose?
Come, ad esempio, ipnotizzarsi davanti alla tv  mentre un manipolo di cuochi aspiranti al titolo di chef dell’anno si fanno offendere dai depositari del verbo culinario?
Perché, vedete, noi che dell’omicidio stradale abbiamo fatto una priorità da sempre, anche quando non avevamo ancora deciso di chiamarlo così (prima di allearci con le associazioni nate in memoria di Lorenzo Guarnieri e Gabriele Borgogni), abbiamo ormai acquisito una certa capacità di discernere tra quella che potrebbe essere una proposta seria, matura e fattibile, e quella che – invece – ci sembra essere una comoda sella per cavalcare un’emozione sociale e riacquistare così un po’ credito, forse perduto dopo polemiche politiche e sociali dalle quali preferiremmo restare fuori.

 

Certo, saremmo soddisfatti del nostro lavoro se, finalmente, l’idea che chi al volante uccide ubriaco o drogato, o per colpa di una guida semplicemente sconsiderata o temeraria, debba rispondere di omicidio volontario, con la forma del dolo eventuale; lo abbiamo chiamato “omicidio stradale” perché intendevamo restituire dignità alle vittime della strada falciate da armi e moventi rivolti a caso da assassini purtroppo lontani dalla consapevolezza di esserlo.
Dopo sarà la volta dell’omicidio professionale, per perseguire con uguale dignità chi provoca, con azioni o omissioni, morti sul lavoro?
Non tutte le vittime della strada sono bambini, capaci quindi di sottrarci alla nostra sociopatia stradale e spingerci allo sdegno: ci sono vecchi, adulti, extracomunitari, clochard e chi più ne ha più ne metta. Ci sono ricchi e poveri, belli e brutti, uomini e donne.
Muoiono gli etero, i gay, i banditi, gli onesti.
I campioni dello sport, gli artisti, gli attori, i politici.
È sempre mancato, a nostro avviso, un cambio di mentalità in Italia di intensità tale da metterci al pari dei paesi del cosiddetto mondo occidentale, che consentisse a tutti di accettare il fatto che bere e mettersi alla guida, magari dopo una cena con gli amici e non solo dopo una notte fast & furious, fosse un comportamento criminale: un passo avanti, nella coscienza individuale e collettiva, che ci permettesse di capire che non c’è solo l’albanese ubriaco o drogato che imbocca l’autostrada contromano e ammazza quattro innocenti.

 

Tutti siamo potenziali assassini, sulla strada, se non capiamo che togliere una vita per un nostro capriccio, o per un’aspirazione adrenalinica, è atto contrario alla legge naturale e a quella sociale che ci siamo dati.
Cercavamo questo e in parte ci siamo arrivati, altrimenti non potremmo confrontare i bollettini della mortalità stradale del 1972 e quelli del 2012 e affermare che qualcosa siamo riusciti a cambiare, certamente non da soli, anche in fatto di mentalità: parliamo di 11.078 vittime contro 3.650. Mettiamo il casco, la cintura di sicurezza, abbiamo l’ABS e l’Airbag. Abbiamo anche paura della multa e dell’etilometro, così andiamo più piano e beviamo meno.
Però, i proclami non ci piacciono, soprattutto perché nella nostra più che ventennale esperienza ne abbiamo sentiti tanti: quando siamo nati, nel 1991, i morti sulla strada erano stati 7.498, mentre l’anno dopo 9.426 e in quel periodo parlavamo solo di stragi del sabato sera che, oggi, non sono più l’emergenza sociale di allora.
Siamo troppo esperti per cantare vittoria e per non capire che il pericolo sulla strada si evolve.
Ciò che ci sorprende, e che rende “freddina” la nostra reazione alle parole del ministro Annamaria Cancellieri, non è tanto il suo improvviso cambio d’idea sulla questione, ma anche il fatto che il cosiddetto pacchetto Giustizia che il Guardasigilli sta per portare alle Camere ci sembra un sonoro schiaffone a chi considera l’azione penale non solo obbligatoria, ma anche doverosa e, soprattutto, giusta. Per questo ci auguriamo che la proposta sull’Omicidio stradale viaggi con provvedimento separato.

 

Come può essere “giusta” una riforma che prevede l’abolizione del giudice unico per l’emissione della custodia cautelare, prevedendo che a occuparsene sia un collegio di tre togati, ideando una completa rivisitazione in chiave garantista dei criteri di determinazione della pericolosità di un indagato, tanto da non prendere in considerazione i suoi precedenti, e perfino delle esigenze cautelari, introducendo l’interrogatorio preventivo fino all’esclusione delle parti civili in caso di giudizio abbreviato anche per reati gravi?
Da una parte il pirata deve andare dentro ma dall’altra non potremo far altro che tenerlo fuori?
L’impianto previsto non può piacerci: a noi e a buona parte della società – l’emozione di questi giorni ne è una conferma – interessa un processo penale che funzioni, che garantisca le parti ma che nel contempo assicuri la certezza della pena e la sua funzione riabilitativa.
Un processo per guida in stato di ebbrezza alcolica può durare anni anche senza dibattimento, con costi economici inimmaginabili (fino a 20mila euro) per chi sia risultato positivo all’etilometro.
Eppure anche se le indagini possono dirsi concluse nel momento stesso in cui l’alcoltest stampa lo scontrino, solo dopo anni si arriva alla determinazione della pena e all’assurdo che una persona debba iniziare a scontarla quando ha già compreso l’errore, dopo esser già passata al vaglio dei Sert e delle commissioni mediche locali, dopo aver scontato periodi di sospensioni della patente molto lunghi.

 

È vero che in Italia il ricorso alla Custodia Cautelare appare insensato, ma solo perché non si vuole far celebrare il processo nei tempi per i quali la carcerazione preventiva era stata ideata. Il GIP spicca il mandato solo quando il Pubblico Ministero, sulla base delle indagini della Polizia Giudiziaria, ha già accertato pericoli affatto leggeri.
Si chiamano reiterazione del reato, pericolo di fuga e di inquinamento delle prove, ma non solo: a garanzia della misura coercitiva interviene l’articolo 275 del codice di procedura penale, nel quale si spiega come si debba far ricorso alla custodia cautelare in carcere solo quando altre misure meno afflittive risultino inadeguate, e quando la misura utilizzata deve essere proporzionata al fatto e alla sanzione previsti.

 

Se è vero poi che molti degli arrestati in custodia cautelare vengono assolti – alcuni sostengono il 50% - vorremmo capire per quanti siano intervenuti proscioglimenti per intervenute prescrizioni, dal momento che, come ci ha ricordato Report qualche settimana fa, 130mila processi all’anno, 400 al giorno, vanno a farsi friggere proprio grazie a tale istituto: una macchina costosissima che gira a vuoto, che provoca costi sociali, economici e umani incalcolabili e che perfino l’OCSE ci chiede di eliminare.
Noi vogliamo una Giustizia che funzioni, non una giustizia qualsiasi che possa essere barattata per “civile” solo perché non affronta il problema. Se così fosse, avremmo bisogno di una legge sul femminicidio?
La risposta è no.
Dunque, signor Ministro della Giustizia, faccia funzionare quei braccialetti di cui paghiamo il canone già da troppo tempo e, soprattutto, faccia pagare il conto ai delinquenti che in troppi volete da una parte rimettere fuori e dall’altra far finta di voler tenere dentro. (ASAPS)
 

(*) Responsabile Nazionale per la Comunicazione ASAPS.

 





Una attenta riflessione dopo i primi entusiasmi. (ASAPS)

 

 


 

Martedì, 07 Gennaio 2014
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