Prova testimoniale ammissibile anche se il nome del teste è errato
E' stata posta all'attenzione della Corte di Cassazione il tema del necessario grado di precisione con cui la parte debba indicare il teste di cui intende avvalersi, dando così modo ad essa di fornire una ricostruzione dell'art. 244 c.p.c. che, come si vedrà, letto in combinato con il principio di cui all'art. 156, comma 2, c.p.c. consente di ritenere che l'ammissibilità dell'istanza sia da valutarsi in modo privo di rigidità.
Nel caso di specie era avvenuto che l'attore avesse formulato la propria richiesta istruttoria di prova testimoniale indicando il testo con un nome errato (mentre il cognome era corretto). Nel testo del capitolo di prova, inoltre, era inserita l'affermazione secondo cui detto teste sarebbe stato figlio di un soggetto che, invece, si era poi rivelato essere il nonno.
In primo grado il giudice aveva ritenuto non ammissibile tale deduzione istruttoria perché il teste non era stato indicato in modo corretto, e il giudizio si era concluso con il rigetto della domanda dell'attore.
Il giudice di secondo grado, invece, ritenendo la testimonianza ammissibile e, nel merito, provata la tesi dell'attore, riformava la pronuncia di primo grado accogliendo la domanda principale.
Il convenuto – vittorioso in primo grado e soccombente nel giudizio di appello – proponeva quindi ricorso per cassazione deducendo la violazione dell'art. 244 c.p.c., il quale prevede che “La prova per testimoni deve essere dedotta mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata.”
In particolare, il ricorrente chiedeva alla Corte di esprimersi nel senso che l'errata indicazione del nome, accompagnata dal fatto che nel testo del capitolo di prova fosse pure errata l'indicazione del padre del teste, rendesse indeterminabile la figura del teste indicato e, dunque, inammissibile l'istanza istruttoria.
La Corte, come già anticipato, è stata però di diverso avviso.
Il ragionamento del Collegio ha preso le mosse dalla constatazione che, in materia di prova testimoniale e, in particolare, di indicazione dei testi, devono essere bilanciate le contrapposte esigenze processuali della parte che deduce la prova e di quella che vi si potrebbe opporre. Affermando poi che in tale bilanciamento occorre tenere in considerazione che mentre la parte che potrebbe opporsi alla richiesta istruttoria ha diritto di individuare preventivamente la persona chiamata a deporre per valutarne la capacità, la parte che formula la richiesta non sempre è in grado di conoscere il nominativo esatto e completo del teste (e nell'affermare ciò, la Corte soggiunge che questa difficoltà è maggiore “specie se la relativa indicazione non è stata preceduta da un contatto preliminare (tutt'altro che necessitato e non sempre raccomandabile dal punto di vista deontologico)”.
Nella pronuncia viene poi ricordato che in giurisprudenza è stata ritenuta ammissibile l'individuazione indiretta del testimone tramite la funzione espletata nell'ufficio o nell'ente di cui questi faccia parte, a condizione che tale modalità di designazione consenta di identificare con sicurezza la persona, e che, nelle controversie soggette al rito lavoristico, il tema è stato affrontato ritenendo finanche che qualora la parte abbia omesso omettendo l'enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, il giudice deve procedere all'esercizio del potere - dovere di cui all'art. 421 c.p.c., comma 1.
Così tracciato lo scenario entro cui si colloca il tema della corretta interpretazione dell'art. 244 c.p.c., la pronuncia afferma che le prescrizioni formali introdotte da tale disposizione devono comunque essere lette alla luce del principio di cui all'art. 156 c.p.c., il quale prevede che “Non puo' essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge. Puo' tuttavia essere pronunciata quando l'atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo. La nullità non puo' mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato.”
Tale disposizione, al fine di consentire la massima conservazione possibile degli atti processuali pur invalidi, pone come criterio centrale della materia quello del raggiungimento dello scopo dell'atto: per cui, se un atto è stato posto in essere in modo difforme dalle previsioni normative, ciononostante, se lo scopo specifico di tale atto è stato raggiunto, allora il giudice non può affermarne la nullità.
Di conseguenza, ha valutato se, nel caso di specie, lo scopo dell'atto processuale in questione fosse stato raggiunto o meno.
Sul punto, la Corte ha affermato che poiché lo scopo per il quale il legislatore ha prescritto le formalità di cui all'art. 244 c.p.c. per la proposizione dell'istanza istruttoria è quello di consentire alla controparte di dedurre l'incapacità a testimoniare del teste e di predisporre la controprova, nel caso di specie l'istanza doveva essere ritenuta ammissibile, in quanto, pur contenendo un errore nell'indicazione del nome, l'istanza era formulata in modo tale da rendere univocamente comprensibile quale fosse il soggetto indicato come teste.
Secondo la Corte, infatti, la controparte non aveva alcuna difficoltà nell'individuare il soggetto che sarebbe stato intimato come teste: tant'è, afferma la Corte, che la controparte non ha mai affermato che potesse sussistere un altro soggetto con il quale il teste (mal) indicato dall'attore avrebbe potuto essere confuso.
Quanto, poi, all'errata indicazione della parentela nel corpo del capitolo di prova, la Corte si è limitata ad osservare che in tal caso fosse palese la sussistenza di un errore materiale e, comunque, tale circostanza risultava irrilevante in quanto la possibilità di individuare il teste era sufficientemente garantita già dalle altre indicazioni contenute nell'istanza.
(Nota di Riccardo Bianchini)
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 19 settembre - 20 novembre 2013, n. 26058
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GOLDONI Umberto - Presidente -
Dott. MATERA Lina - Consigliere -
Dott. MANNA Felice - rel. Consigliere -
Dott. CORRENTI Vincenzo - Consigliere -
Dott. GIUSTI Alberto - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 30145-2007 proposto da:
M.M. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DOMENICO BARONE 31, presso lo studio dell'avvocato BOTTAI ENRICO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato RIPOLI VITO ANTONIO;
- ricorrente -
contro
V.G. C.F. (OMISSIS), G.G., G. A., VO.GI., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MERULANA 234, presso lo studio dell'avvocato BOLOGNA GIULIANO, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato PETRINO ALDO;
- controricorrenti -
e contro
Gr.Gi.;
- intimato -
avverso la sentenza n. 2108/2007 della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il 17/07/2007; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/09/2013 dal Consigliere Dott. FELICE MANNA;
udito l'Avvocato Bottai Enrico difensore del ricorrente che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni che ha concluso per l'accoglimento dei primi due motivi e l'assorbimento del terzo motivo del ricorso.
Svolgimento del processo
Gi. e V.G. e Gr.Gi., A. e G., proprietari di un fondo rustico sito in (OMISSIS), concesso in affitto al sig. B. fino al 1992, e di cui M.M. assumeva di essersi in parte impossessato usucapendone la proprietà, con citazione notificata il 9.4.2001 convenivano in giudizio quest'ultimo innanzi al Tribunale di Milano, affinchè, accertato il loro diritto di proprietà, il convenuto fosse condannato a restituire il fondo.
Il convenuto resisteva chiedendo, in via riconvenzionale, l'accertamento dell'acquisto della proprietà del bene per usucapione.
Il Tribunale rigettava la domanda principale ed accoglieva quella riconvenzionale.
Tale sentenza era ribaltata dalla Certe d'appello di Milano, che dichiarava il diritto di proprietà degli attori, condannando il convenuto a rilasciare in loro favore il fondo.
Preliminarmente la Corte territoriale riteneva, contrariamente a quanto opinato dal giudice di prime cure, che la deposizione del teste B. fosse ammissibile. Questi, infatti, era stato indicato sia nell'atto introduttivo del giudizio, sia nella memoria istruttoria del 6.4.2002, anche se con il nome di R. in luogo di U.. Tale diversa indicazione era frutto di un evidente errore materiale, evidenziato dal fatto che il teste era stato dedotto come figlio del B. che aveva coltivato il fondo degli attori fino all'anno 1992. E così il teste aveva poi dichiarato, con la sola precisazione che il padre, a differenza di quanto specificato nel capitolo di prova, si chiamava P. e non E., quest'ultimo essendo il nome del nonno, che pure si era occupato della coltivazione del medesimo terreno in epoca precedente.
Nel merito, giudicava maggiormente attendibili i testi di parte attrice, mentre non solo alcuni dei testi di parte convenuta risultavano aver avuto a vario titolo rapporti con il M., ma le loro deposizioni non erano state altrettanto puntuali nell'individuare la porzione di terreno oggetto di controversia.
Per la cassazione di tale sentenza M.M. propone ricorso, affidato a tre motivi, successivamente illustrati da memoria.
Resistono con controricorso Gi. e V.G. e Gr.Gi., A. e G..
Motivi della decisione
1. - Col primo motivo parte ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 244 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 (rectius, 4).
Tanto nell'atto di citazione, quanto nella memoria istruttoria gli attori avevano indicato a teste B.R., senza indicarne residenza, dati anagrafici o altri elementi d'identificazione. Con la sentenza impugnata, invece, la Corte d'appello di Milano ha ritenuto ammissibile la deposizione di B.U., dichiaratosi poi figlio di B.P., ritenendo sufficientemente indicato il teste nel capitolo di prova n. 1) della memoria istruttoria, lì dove in essa si parla di B.E. e del figlio di lui R..
Formula, pertanto, il seguente quesito di diritto ex art. 266-bis c.p.c. (applicabile ratione temporis alla fattispecie): "dica l'Ecc.ma Corte di cassazione se vi è violazione e/o falsa applicazione dell'art. 244 c.p.c. nella parte in cui prescrive l'indicazione specifica delle persone da interrogare, nell'ipotesi in cui viene ammessa, nonostante la tempestiva opposizione dell'altra parte, la testimonianza di un teste, citato e fatto comparire da una parte all'udienza di assunzione delle prove, avente lo stesso cognome ma un diverso prenome da quello indicato nella memoria istruttoria, senza altri elementi di sicura identificazione diretta (residenza e/o data di nascita) o indiretta (rapporti di parentela); nella specie, se il teste B.U.U. possa ritenersi identificato, a norma dell'art. 244 c.p.c., con l'indicazione del diverso nome R., anzichè di U.U. e con la qualifica di figlio di B.E., anzichè di B.P.".
2. - Col secondo motivo è dedotta, in relazione all'art. 360 c.p.p., n. 5, l'omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata sulla medesima questione di cui al primo motivo, lamentando che la Corte territoriale - a prescindere dall'apprezzamento di fatto circa l'esistenza di un errore materiale della parte attrice nel dedurre il predetto teste - non avrebbe fornito una compiuta e congrua motivazione della propria decisione al riguardo.
3. - Il terzo mezzo denuncia l'omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5, nella parte in cui sono state ritenute inattendibili le deposizioni testimoniali di parte convenuta, per avere i testi a vario titolo rapporto con M.M..
Parte ricorrente sostiene che nell'ordinamento non ha riscontro un giudizio d'inattendibilità testimoniale per l'esistenza di rapporti del teste con la parte che l'ha indotto, e che pertanto la sua credibilità non può essere aprioristicamente esclusa.
4. - I primi due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro complementarietà, sono infondati.
4.1. - In materia di prova testimoniale e, in particolare, di indicazione dei testi, devono essere bilanciate le contrapposte esigenze processuali della parte che deduce la prova e di quella che vi si oppone (o che vi si potrebbe opporre). La prima non sempre è in grado di conoscere il nominativo esatto e completo del teste, specie se la relativa indicazione non è stata preceduta da un contatto preliminare (tutt'altro che necessitato e non sempre raccomandabile dal punto di vista deontologico); la seconda ha diritto di individuare preventivamente la persona chiamata a deporre per valutarne la capacità e comunque per predisporre al meglio un eventuale controesame.
La necessità di considerare anche l'esigenza della parte che deduce il mezzo di prova fino a che ciò non pregiudichi il contrapposto interesse della parte avversa, trova eco nella giurisprudenza di questa Corte lì dove è stata ritenuta ammissibile l'individuazione indiretta del testimone tramite la funzione espletata nell'ufficio o nell'ente di cui questi faccia parte, a condizione che tale modalità di designazione consenta di identificare con sicurezza la persona, onde consentire all'altra parte, nel rispetto delle regole del contraddittorio, di individuare il teste di cui l'istante intende avvalersi (Cass. n. 9159/03). Mentre, nelle controversie soggette al rito lavoristico il problema si è presentato sotto un altro aspetto, essendosi più volte affermato che qualora la parte abbia, con l'atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniale, specificamente indicando di volersi avvalere del relativo mezzo in ordine alle circostanze di fatto ivi allegate, ma omettendo l'enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, tale omissione non determina decadenza dalla relativa istanza istruttoria, ma concreta una mera irregolarità, che abilita il giudice all'esercizio del potere - dovere di cui all'art. 421 c.p.c., comma 1 (cfr. per tutte, Cass. n. 17649/10).
4.2. - L'art. 244 c.p.c. stabilisce che la prova per testimoni deve essere dedotta mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna deve essere interrogata.
L'introduzione di tale mezzo istruttorio è soggetta ad una formalità unitaria, composta dall'indicazione di persone e di circostanze di fatto, le une e le altre destinate a chiarirsi e integrarsi fra loro. Tale formalità di deduzione, non essendo altrimenti predefinita dal legislatore, deve essere funzionale allo scopo dell'atto, secondo il principio della nullità a rilevanza variabile che si enuclea dall'art. 156 c.p.c., comma 2, in base alla quale la nullità può essere pronunciata quando l'atto manchi dei requisiti di forma-contenuto indispensabili ai raggiungimento dello scopo.
Lo scopo dell'atto, a sua volta, consiste (non già in una comportante interna ad esso, ma) nel compimento dell'atto processuale successivo. Nello specifico, pertanto, esso è dato dall'assunzione come teste della persona a ciò indicata, una volta superato il vaglio di capacità a deporre in relazione al quale l'altra parte può sollevare le proprie eccezioni. Ne deriva che è inidonea allo scopo solo l'indicazione del teste che, per insufficienza o per altra causa, non consenta all'altra parte tale esercizio del diritto di difesa.
Coordinando, dunque, le due regole anzi dette, quella dell'art. 244 c.p.c. e quella dell'art. 156 c.p.c., comma 2 si ottiene che il teste deve essere indicato in maniera sufficientemente determinata o comunque determinabile, e che un'imperfetta o incompleta designazione degli elementi identificativi (nome, cognome, residenza ecc.) è idonea ad arrecare un vulnus alla difesa e al contraddittorio solo se provochi in concreto la citazione e l'assunzione come teste di un soggetto realmente diverso da quello previamente indicato, così da spiazzare l'aspettativa della controparte.
4.2.1. - Nel caso in esame il teste è stato indicato come B. R., mentre la persona che ha ricevuto l'intimazione e si è presentata a deporre ha dichiarato di chiamarsi B.U..
La Corte territoriale ha ritenuto che non sia stato intimato ed escusso un soggetto diverso da quello indicato, e che il differente nome riportato negli scritti difensivi di parte attrice ( R. invece di U.) sia stato frutto di un mero errore materiale, in quanto dal capitolato di prova era chiaro che la parte deducente aveva inteso chiamare a deporre il figlio di quel sig. B. che aveva coltivato il terreno in questione.
La valutazione del fatto processuale operata dalla Corte di merito appare senz'altro condivisibile, ove si tenga conto di ciò, che il suddetto elemento di determinazione estrinseca del teste ha consentito, nonostante l'errore sul nome, di identificare il soggetto e di intimare proprio lui e non altri, tant'è che la parte odierna ricorrente non ha addotto nè in allora nè ora che vi fosse altra persona, collegata ai fatti di causa, che rispondesse al nome di B.R..
Nessun rilievo, invece, hanno le ulteriori precisazioni emerse in sede di esame testimoniale, allorchè il teste ha ulteriormente chiarito di essere figlio di P. e non di B.E., quest'ultimo essendo il nome del nonno. Si tratta di puntualizzazioni affatto estranee al tema dell'identificazione o dell'identità del teste e che rientrano nell'insieme delle risposte che quest'ultimo ha reso durante il suo esame. Pertanto, ogni considerazione svolta al riguardo nel motivo d'impugnazione fuoriesce da1'ambito del dedotto error in procedendo.
5. - Anche il terzo mezzo è infondato.
La sentenza impugnata si basa non solo e non tanto sull'esistenza - di per sè sola non decisiva - di rapporti fra il convenuto e i testi da lui indotti, ma anche e soprattutto su altra motivazione non attaccata dal motivo in esame, ossia quella per cui i testi di parte attrice sono stati ritenuti maggiormente attendibili per la maggiore sicurezza mostrata nell'identificare il fondo e la porzione di esso che è contesa fra le parti.
E tale apprezzamento di puro merito, di per sè sufficiente e logico, si sottrae in quanto tale al sindacato di legittimità di questa Corte.
6. - In conclusione il ricorso va respinto.
7. - Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza del ricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 2.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre IVA e CPA come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 settembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2013.
da Altalex