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Marijuana: coltivazione illecita se pianta è idonea a produrre sostanza per consumo

(Cass. Pen., sez. VI, 13 novembre 2013,n. 45622)

La Sesta Sezione della Corte Suprema considera perfezionato il reato di coltivazione illecita, perché giudica tale condotta non legale, in sé, e la ritiene perfezionata sotto il profilo dell’offensività (vale a dire della messa in pericolo di quelle esigenze, che più propriamente definite “beni giuridici”, la norma dovrebbe tutelare).

 

Giungono a tale conclusione i giudici di legittimità, affermando “la loro (delle piante n.d.a.) media potenzialità di sviluppo correlata tra l’altro all’ambiente di coltivazione (davanzale di una finestra di una abitazione, luogo relativamente riparato e caratterizzato notoriamente da dispersione termica), in Catanzaro (località con clima temperato)”.

 

In buona sostanza la Corte di Cassazione afferma che l’offensività della condotta di coltivazione “va ricercata ed individuata nella idoneità del bene…a produrre la sostanza per il consumo….Pertanto non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza ma la conformità delle pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità e luogo di coltivazione, a giungere a maturazione e produrre la sostanza stupefacente”.

 

Pur nel rispetto della decisione del giudice di legittimità, credo che una posizione interpretativa di questo indirizzo non sfugga affatto ad evidenti critiche, per una serie di considerazioni.

 

1) Va contestato, prima facie, l’adottato criterio (meramente ed esclusivamente) probabilistico.

 

Esso si fonda su di una prognosi di ipotetica (e tutt’altro che certa) futura maturazione della pianta, impostazione che differisce e rinvia nel tempo gli eventuali effetti della condotta.

 

Si osserva che sia assai singolare che, per valutare una condotta tenuta ora, vengano usati parametri astratti e differiti nel tempo.

 

Differire ad ipotetiche prospettive di maturazione, risultato ottenibile in un futuro (prossimo, remoto?), il decisivo giudizio di offensività della condotta, pur in presenza di dati certi obbiettivi immediati (l’eventuale percentuale di thc), contraddice il consolidato principio per cui il reato di coltivazione appartiene alla categoria dei reati pericolo concreto (e non astratto).

 

Vale, dunque, a dire, che non pare informato a condivisibili metodiche valutative, (né sul piano giuridico, né su quello biologico-scientifico), la scelta di negare, a priori, la possibilità di utilizzare il dato biologico inequivocabile del principio attivo, il quale venga rinvenuto all’atto del sequestro delle piante e delle correlative verifiche.

 

Per vero ed a contrario, invece, si deve rammentare che, in numerose pregresse decisioni, proprio la stessa Corte di Cassazione aveva individuato, nel principio attivo, uno dei cardini interpretativi da usare effettivamente per potere sostenere la irrilevanza penale (o meno) o meno della condotta di messa a dimora di piante.

 

2) Parimenti, suscita rilevanti perplessità la scelta di legittimare la declaratoria di illiceità della condotta sulla scorta di due condizioni necessarie e cioè:

a) conformità della pianta al tipo botanico previsto,
b) teoretica idoneità della stessa a pervenire alla conclusione del ciclo di maturazione.

 

Quanto al primo dei due elementi richiamati esso sembra apparire tanto ovvio, quanto parrebbe inutile la sua evocazione.

 

Se, infatti, l’agente pone a dimora un altro tipo di pianta cessa, evidentemente sin dall’origine, la materia del contendere.

 

Invece, probabilmente in modo involontario, la Suprema Corte, ha dato concretezza ad un principio fondatissimo, il quale, però, smentisce e contraddice l’assunto sostenuto dalla sentenza stessa.

 

Per comprendere la osservazione, si devono proporre una breve riflessione di carattere tecnico-biologico, di carattere generale, ma rilevante.

 

Essa attiene al fatto che è necessario verificare preventivamente se le piante rinvenute siano maschi od ermafroditi (che producono una percentuale irrisoria di THC, inidonea a produrre effetti droganti) oppure femmine (che costituiscono la categoria che produce, tramite i fiori, il principio attivo in questione).

 

Non è, quindi, possibile, senza una minima verifica preliminare distinguere fra le due specie, pena il rischio di incorre nel rischio di ricondurre al genere femminile – unico idoneo in teoria a produrre THC utilizzabile – anche piante che, invece, non producono THC in tale misura e, dunque, sfuggono, comunque, ad un giudizio di idoneità.

 

Quanto al secondo elemento, esso, invece, pare improntato a criteri di assoluta genericità.

 

E’, quindi, il termine idoneità, (riferito alle piante) usato in sentenza, che appare il volano del ragionamento da sviluppare.

 

L’aggettivo idoneo si riferisce ad una persona od ad una cosa che ha le qualità indispensabili per esercitare una particolare attività o funzione (V. Sabatini-Coletti).

 

Essere, però, ritenuto idoneo non sta, però, a significare la certezza dell’esercizio futuro della funzione ipotizzata, in quanto si verte in una campo di incerta futuribilità in ordine alla traduzione nella pratica di prospettive meramente potenziali.

 

Il giudizio di idoneità si riassume, dunque in una valutazione meramente possibile, in relazione alla quale difetta, però, il requisito della evidenza e della esatta collocazione nel tempo.

 

Essa, inoltre, ben potrebbe venire disattesa nel corso della progressione dell’iter temporale che, nell’idea originale, dovrebbe – congetturalmente - portare al risultato, nella specie della coltivazione, la maturazione.

 

L’elemento impeditivo la maturazione potrebbe derivare, ad esempio a seguito di condizioni climatiche avverse, o potrebbe essere consequenziale ad una mala gestio od inesperienza del coltivatore stesso.

 

Va ricordato che, nel caso specifico ,le piantine erano di varia altezza (dagli 8 ai 15 cm.), dunque esse erano proprio all’inizio di un ciclo di germinazione, si che non era affatto possibile formulare null’altro che una vaga prognosi di maturazione e non sufficientemente di idoneità, se non sul piano esclusivamente teorico .

 

Per fare ulteriore chiarezza, è, poi, opportuno ricordare che il bene giuridico, che forma oggetto di tutela da parte del dpr 309/90 (e, dunque, anche dell’art. 73 in relazione alla condotta di coltivazione) attiene al pericolo di diffusione della circolazione di sostanze stupefacenti.

 

Tale pericolo, come detto di natura concreta, però, non può venire evocato quando esso appaia ancora puramente vago, potenziale ed astratto, quindi, privo di ricadute di qualsiasi genere minimamente concreto (come ad esempio un coltivazione di piante in itinere, dunque, non ancora mature).

 

Se si aderisse al ragionamento della Corte, oggetto di critica, si rischierebbe di anticipare il momento di asserita rilevanza penale di talune ipotesi di reato, anche a fasi del tutto neutre ed allo stato prive di riflessi concreti, quali per esempio anche la vendita di semi (che è del tutto lecita).

 

Si verrebbe, così impropriamente ed illegittimamente, a coinvolgere tutte le condotte preliminari che si ritengano (ad un giudizio puramente soggettivo e prevenuto) possano favorire la diffusività del prodotto cannabis.

 

Pertanto, si deve dissentire decisamente dall’indirizzo assunto dalla Corte che mira a fare coincidere offensività di una condotta con potenziale pericolosità della stessa.

 

Per completezza, poi, si deve osservare che gli ulteriori riferimenti “alle modalità ed al luogo di coltivazione” non paiono offrire spunti di condivisione e sostegno dell’orientamento in esame.

 

In special modo il riferimento “al luogo di coltivazione” inteso come localizzazione geografica della zona ove le piante si trovano materialmente pare introdurre, invece, ulteriori elementi di confusione.

 

Se il criterio interpretativo è quello della valorizzazione dell’ubicazione geografica del luogo ove si trovano le piante oggetto di coltura, allora si introducono gravi distonie.

 

Esemplificativamente, se a Catanzaro (tanto per citare la sentenza) il clima temperato permette una previsione favorevole di maturazione delle piante in via di coltura, e quindi la prognosi risulta sfavorevole all’indagato che viene ritenuto responsabile, l’adozione del medesimo metro di valutazione permette di concludere in senso diametralmente opposto, nell’ipotesi della messa a dimora di qualche pianta in qualche località di alta montagna della Alpi, dove il clima è assolutamente sfavorevole.

 

Il criterio sopra indicato che, quindi, permette di pervenire a decisioni opposte (affermando nell’un caso la responsabilità penale ed in altro negandola), all’esito dell’esame di condotte tra loro oggettivamente identiche, solo in dipendenza di fattori così eterogenei ed opinabili, non pare, a chi scrive, affatto condivsibile.

 

3) Non è, quindi, affatto sostenibile la tesi fatta propria dalla Corte (pg. 3) secondo la quale facendo “dipendere la sanzionabilità della condotta dai risultati a termini” si incorrerebbe in una “evidente aprioristica negazione del criterio dell’offensività”.

 

Valgano in proposito le considerazioni relative alla ragione che sostiene l’impianto del dpr 309/90 e cioè che si intende, attraverso una legislazione repressiva, evitare la diffusione delle sostanze stupefacenti.

 

La coltivazione di qualsiasi vegetale, però, proprio per la sua modalità, destinata a dipanarsi in un arco temporale o di stagioni (più o meno lungo) pur potendo essere in grado di suscitare un allarme, deve – però – presentare caratteri di concretezza produttiva (maturazione e produzione di principio attivo drogante) ai quali ricollegare la illiceità della condotta.

 

L’offensività della condotta, in tal modo, quindi, non viene affatto negata, anzi, viene determinata con sicurezza attraverso l’ausilio di parametri certi (dati dal livello di maturazione di ciascuna pianta e dalla rilevazione del principio attivo contenuto eventualmente in ogni arbusto).

 

4) Da ultimo, sia consentito dissentire decisamente anche dall’interpretazione del concetto di offensività che la Corte offre, in sentenza.

 

Come più volte sostenuto da chi scrive, l’offensività non può – e non deve - essere circoscritta alla sola possibilità delle piante – intese singolarmente – di produrre principio attivo.

 

Se come detto lo scopo principale del D.P.R. 309/90 è quello di contrastare la diffusione e l’ampliamento del mercato degli stupefacenti, è considerazione elementare che si debba tenere in debito conto, per giudicare se una condotta effettivamente sia strumentale a tale illecito fine, la volontà della persona-agente.

 

Tale volontà è desumibile da una pluralità di parametri privi del carattere della tassatività (ad es. il numero delle piante, le modalità di tenuta delle stesse, lo stato di assuntore continuativo, eventuali prove di contatti con ambienti criminosi, etc.).

 

La verifica di questo orientamento personale, ad avviso di chi scrive, costituisce l’in sé dell’offensività, in quanto, laddove la persona giustifichi e dimostri convincentemente la condotta di coltura con il fine del consumo personale del prodotto ricavato, non può ravvisarsi offensività della condotta.

 

Non vi è, infatti, in tale occasione, intenzione alcuna di introdurre sul mercato ulteriori quantitativi di stupefacenti e, semmai, vi è il proposito del tutto opposto.

 

Il comportamento coltivativo, dunque, esaurirebbe la propria parabola, all’interno della sfera privatistica dell’agente, non minacciando in alcun modo alcuna proiezione ab externo.

 

(Nota di Carlo Alberto Zaina)

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

Sentenza 23 ottobre - 13 novembre 2013, n. 45622

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

 

Dott. AGRO' Antonio S. - Presidente -

Dott. GARRIBBA Tito - Consigliere -

Dott. GRAMENDOLA Francesco P. - Consigliere -

Dott. LANZA Luigi - rel. Consigliere -

Dott. PETRUZZELLIS Anna - Consigliere -

 

ha pronunciato la seguente:

 

sentenza

 

sul ricorso proposto da:

 

D.C.G., nato il giorno (OMISSIS);

 

avverso la sentenza 11 luglio 2012 della Corte di appello di Catanzaro;

 

Visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

 

Udita la relazione fatta dal Consigliere Luigi Lanza;

 

Sentito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale Carlo Destro, che ha concluso per il rigetto del ricorso, nonchè il difensore del ricorrente avv. Napolitano, che ha chiesto l'accoglimento dell'impugnazione.

 

Svolgimento del processo

 

1. D.C.G. ricorre, a mezzo del suo difensore, avverso la sentenza 11 luglio 2012 della Corte di appello di Catanzaro, di condanna per il reato D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, comma 5, per aver coltivato all'interno della propria abitazione 17 piante di marjiuana, con un principio attivo pari a mg.1,25 corrispondenti a circa 0,05 dosi (recidiva reiterata infraquinquennale).

 

Motivi della decisione

 

2. Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, sotto il profilo che, contrariamente all'assunto dei giudici di merito,il principio attivo era di soli mg. 0,75 pari a 0,5 dosi di marjiuana, trattasi invero a giudizio del difensore di una realtà inidonea a creare e a mettere in pericolo il bene tutelato dalla norma.

 

3. Il motivo è privo di fondamento per più profili.

 

Innanzitutto è infondata la questione della diversa entità del principio attivo, comunque non dedotta nell'atto di appello, attesi i risultati dell'analisi Arpa (pag.21), che hanno indicato un principio attivo pari a gr. 1,25 equivalente a 0,05 dosi.

 

Ciò detto, ritiene la Corte che, nella specie, le 17 piantine di canapa indiana, dell'altezza da 8 a 15 cm., integrano e realizzano l'offensività punita dalla norma, laddove si consideri la loro media prevedibile potenzialità di sviluppo, correlata tra l'altro all'ambiente di coltivazione (davanzale di una finestra di una abitazione, luogo relativamente riparato e caratterizzato notoriamente da dispersione termica), in Catanzaro (località con clima temperato).

 

In proposito, premesso che ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante, dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti, spetta al giudice verificare in concreto l'offensività della condotta, ovvero l'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile (Cass. pen. sez. 6, 22110/2013 Rv. 255733), va ribadito, in adesione ad una recente decisione di questa sezione, che detta offensività va ricercata ed individuata nella idoneità del bene (nella specie: vegetale erbaceo tipo "cannabis") a produrre la sostanza per il consumo, considerata in materia la formulazione delle norme e la "ratio" della disciplina, anche comunitaria.

 

Pertanto, non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità e luogo di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente (cfr. in termini: Cass. pen. sez. 6, 22459/2013 Rv. 255732; Massime precedenti Conformi: N. 44287 del 2008 Rv. 241991).

 

Diversamente opinando, si farebbe dipendere la sanzionabilità della condotta dai "risultati a termine" della attività illecita, il che equivarrebbe a sostenere che solo la naturale crescita e maturazione finale delle 17 piante, che ben possono raggiungere l'altezza compresa tra gli 80 cm. e gli oltre due metri, renderebbe operante il divieto di coltivazione domestica, con evidente aprioristica negazione del criterio dell'offensività.

 

Con un secondo motivo si lamenta l'omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche fondato sui soli precedenti penali.

 

La doglianza, al limite dell'inammissibilità, è inaccoglibile.

 

La sussistenza di attenuanti generiche è infatti oggetto di un giudizio di fatto, e può essere esclusa dal Giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, per cui la motivazione, purchè congrua e non contraddittoria - come nella specie in cui si richiamano i molteplici precedenti penali del ricorrente - non può essere sindacata in Cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell'interesse dell'imputato" (Cass. Penale sez. IV, 12915/2006 Billeci).

 

Il ricorso pertanto risulta infondato, valutata la conformità del provvedimento alle norme stabilite, nonchè apprezzata la tenuta logica e coerenza strutturale della giustificazione che è stata formulata.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2013.

 

Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2013.

 

 

da Altalex

Mercoledì, 13 Novembre 2013
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