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Imputato compie atti di autolesionismo: non è resistenza a pubblico ufficiale

(Tribunale Asti, sez. penale, 24 aprile 2014 n. 650 )

La condotta autolesionistica non può essere considerata "violenta", per la sussistenza del reato di resistenza a pubblico ufficiale, in quanto orientata esclusivamente verso se stessi. E' quanto emerge dalla sentenza 24 aprile 2014, n. 650 della Sezione Penale del Tribunale di Asti.

 

Durante un'operazione di traduzione di un imputato presso il C.I.E. di Torino, l'uomo estraeva improvvisamente dalla bocca una lametta con la quale incominciava a colpirsi sull'avambraccio sinistro. Nel tentativo di impedire un ulteriore tragico sviluppo dei gesti di autolesione, gli agenti intervenivano ammanettando l'imputato il quale opponeva una vigorosa resistenza e pronunciava frasi del tipo "lasciatemi andare a casa o oggi mi ammazzo", integrando la fattispecie di reato di resistenza a pubblico ufficiale, di cui all'art. 337 c.p. Secondo la giurisprudenza di legittimità, il delitto di resistenza a pubblico ufficiale può essere integrato anche da una condotta autolesionistica dell'agente, quando la stessa sia finalizzata ad impedire o contrastare il compimento di un atto di ufficio ad opera del pubblico ufficiale.

 

Al tempo stesso, si ritiene che integri la condotta di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale anche il comportamento mediante il quale il soggetto minacci di privarsi della vita per ritorsione ad un atto legittimo, quando la minaccia sia idonea ad intralciare la pubblica funzione (Per tutte Cass. pen., Sez. VI, 20287/2001 e Cass. pen., Sez. VI, 10878/2009). In merito al concetto di "violenza", si afferma che questa si identifichi in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente della libertà di determinazione e di azione l'offeso, il quale è costretto a tollerare od omettere qualche cosa, contro la sua volontà; del pari, per "minaccia" si intende la prospettazione di un male futuro ed ingiusto, la cui verificazione dipende dalla volontà dell'agente, che ben può derivare anche dall'esercizio di una facoltà legittima, utilizzata per scopi diversi da quelli consentiti dalla legge.

Sulla basi di tali premesse, secondo i giudici di merito, considerare "violenta" qualsiasi condotta in grado di coartare il soggetto passivo costituirebbe un approccio suscettibile di trasformare indebitamente reati a forma vincolata, con quello in esame, in reati a forma libera, con la conseguenza che, per ritenere sussistente la fattispecie di cui all'art. 337 c.p., occorre che la violenza si presenti come invasiva della sfera giuridica altrui.

 

A conferma dell'assunto viene preso in considerazione l'art. 43 c.p.m., ai sensi del quale "agli effetti della legge penale militare, sotto la denominazione di violenza si comprendono l'omicidio, ancorché tentato o preterintenzionale, le lesioni personali, le percosse, i maltrattamenti e qualsiasi tentativo di offendere con armi". L'accoglimento di tali considerazioni portano i giudici a escludere che una condotta di autolesione possa rilevare quale violenza penalmente rilevante ai sensi dell'art. 337 c.p.

 

"E' del tutto ovvio che simili gesti sono suscettibili di coartare gli organi della P.A., e vengono spesso posti in essere proprio con il fine di coartare. Ma ciò non è sufficiente ai fini dell'integrazione della fattispecie perché la condotta deve anzitutto potersi qualificare come violenta, indipendentemente dall'idoneità offensiva e dal fine del soggetto agente che rappresentano tratti ulteriori della fattispecie".

 

(Nota di Simone Marani)

 

 

Tribunale di Asti

Sezione Penale

Sentenza 11-24 aprile 2014, n. 650

 

 

da Altalex

 

 

 

 

 

Giovedì, 24 Aprile 2014
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