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Corte di Cassazione 30/09/2014

Dipendente pubblico naviga su siti porno? C'è doppio reato

(Cass. Pen., sez. II, 25 giugno 2014, n. 27528)

Il delitto di appropriazione indebita (art. 646 c.p.) è integrato anche qualora la persona offesa non abbia concretamente subito un danno, essendo sufficiente per la sussistenza del reato de quo che il soggetto attivo si appropri di un bene entrato nell’altrui patrimonio. È quanto emerge dalla sentenza 25 giugno 2014, n. 27528 della II Sezione della Suprema Corte.

 

Il caso vedeva come protagonista il dipendente di una società, il quale, al fine di visualizzare taluni siti internet dal contenuto pedopornografico, si appropriava della linea telefonica presente nel posto di lavoro. Nel fare ciò, inoltre, lo stesso distoglieva il computer dalla gestione dell'impianto pubblico di illuminazione comunale, così determinando il blocco di tale servizio pubblico.

 

La questione centrale affrontata dagli Ermellini concerne la necessità o meno che il soggetto attivo abbia, con la propria condotta, cagionato un danno alla persona offesa dal reato. Nel dare risposta negativa, i Giudici di Piazza Cavour si sono mantenuti nel solco di un orientamento già espresso in precedenti pronunce all’uopo richiamate (Cass. sez. 6A, 23/10/2000 n. 3879; sez. 6A, 9/5/2006 n. 25273; sez. 6A, 26/2/2007 n. 21335).

 

Il problema, nel caso di specie, risultava particolarmente rilevante, poiché la società-datore di lavoro godeva di un c.d. contratto “flat” con il fornitore del servizio di telecomunicazione, tale per cui un maggiore o minore uso della linea non avrebbe determinato alcun aumento dell’importo dovuto o diminuzione della qualità o quantità della linea stessa e, di conseguenza, una concreta diminuzione della capacità del patrimonio di soddisfare gli interessi del suo titolare.

 

Nel confermare la sentenza d’Appello, il percorso seguito dalla Corte è stato il seguente: anzitutto, essa ha affermato che risulta <> l’accertamento di un danno al titolare del bene protetto. In secondo luogo, che il fatto, così come ricostruito dal giudice di merito, è consistito non tanto nell’uso dell’apparecchio telefonico quale oggetto fisico, così come aveva prospettato il ricorrente, quanto piuttosto <> già entrate a far parte del patrimonio dell’offeso.

 

L’iter argomentativo del Supremo Consesso impone alcune riflessioni.

 

Nulla da eccepire in ordine alla seconda affermazione. Il corpus che può divenire oggetto materiale della condotta, infatti, è non solo la <>, intesa come porzione materiale della realtà fisica, ma anche, ai sensi dell’art. 624, comma 2, c.p. <>. La ricostruzione operata dal giudice di prime cure, dunque, coglie nel segno.

 

Meno chiara, anche in punto di connessione logica, è la prima affermazione, secondo cui non rileverebbe la mancanza di un danno alla persona offesa per il fatto che questa, in virtù del contratto flat, sostenesse un costo unico e fisso per il servizio internet. Più esattamente, non si comprende anzitutto in cosa dovrebbe consistere l’asserita <> del danno; le conclusioni lasciano intuire che, con tale espressione, i giudicanti si riferiscano al fatto che l’art. 646 c.p., diversamente da altre disposizioni (es. art. 640 c.p.), non prevede il nocumento come elemento costitutivo della fattispecie. In altri termini, il danno non sarebbe necessario per integrare una appropriazione indebita.

 

Sul punto occorre esprimere alcune perplessità.

 

Il sistema dei delitti del Titolo XII ruota attorno al bene giuridico <>. Questo svolge, principalmente, una funzione garantista, quella, cioè, di escludere la rilevanza penale di fatti che ad esso non arrechino una reale offesa. Tale assunto è tanto più vero alla luce del principio di offensività (ritenuto oramai unanimanente accolto da dottrina e giurisprudenza; art. 49 c.p.), in base al quale il reato sussiste (nullum crimen sine iniuria) solo se esso si traduce in una reale offesa al bene tutelato dalla norma incriminatrice, offesa, si badi, che può arrestarsi alla fase del pericolo, o giungere fino a quella della lesione. Tale principio emerge come espressione di un diritto penale a base (prevalentemente) oggettivistica, come il nostro, in cui, cioè, la risposta penale scatta non già di fronte alla semplice volontà antigiuridica, ma solo come conseguenza di condotte realmente offensive. Una deroga nell’ottica di un diritto penale a base soggettivistica, inteso come anticipazione della soglia di punibilità ad atti ancora non concretamente offensivi, può giustificarsi solo per ragioni di contingente eccezionalità o per la tutela di beni primari.

 

Alla luce di tali considerazioni, dunque, può agevolmente concludersi che i delitti contro il patrimonio, nel silenzio della norma, vanno interpretati nel senso che è sempre necessario l’accertamento di un danno concreto (salvo che sia richiesto il semplice pericolo: es. artt. 630 e 642 c.p.). Prova, questa, non fornita nel caso in esame.

 

La sentenza in commento va infine evidenziata per un ulteriore profilo, questa volta di natura processuale. Tra gli elementi di prova su cui si fonda la condanna, rientrano anche quelli che emergono dalle videoriprese effettuate dalla persona offesa, sul luogo del lavoro, in maniera autonoma e successivamente all’apertura delle indagini.

 

La Corte dimostra come ormai sia divenuto ius receptum l’approdo raggiunto dalle Sezioni Unite nella nota sentenza n. 26795/2006 in materia di videoriprese, con la quale è stato chiarito in modo netto il discrimen tra atti e documenti. Anche nella pronunzia in esame, infatti, si ribadisce che l’art. 234 c.p.p. si riferisce ai soli documenti formati fuori, pur se non necessariamente prima, del processo; in altre parole, è documento la sola rappresentazione di fatti, persone o cose, contenuta su una base materiale, e formata per finalità extraprocessuali.

 

Gli Ermellini hanno dunque correttamente ritenuto ininfluente l’elemento temporale, poiché esso non rileva ai termini della fattispecie ex art. 234 c.p.p.

 

Per completezza, vale ricordare che neppure un richiamo (mancante) all’art. 4, L. 300/1970, nella parte in cui vieta gli impianti volti al controllo dell’attività dei lavoratori, avrebbe potuto escludere l’utilizzabilità dei risultati probatori. Tralasciando l’annosa questione dell’irrilevanza processuale di violazioni sostanziali nell’iter di acquisizione della prova, è sufficiente notare che le finalità di tutela del patrimonio aziendale e di prevenzione dei reati sono idonee, di per sé, ad escludere l’illiceità e l’inutilizzabilità dei risultati delle videoriprese effettuate nel luogo di lavoro.

 

In questi termini si è espressa più volte la stessa Cassazione (Cass. Sez V n. 20722/2010; Cass. Sez V n. 34842/2011), affermando che l’art. 4, L. 300/1970 vieta i soli impianti audiovisivi tesi al controllo dell’attività dei lavoratori, e non anche, invece, quelli impiegati per tutelare il patrimonio aziendale da offese altrui, inclusi i lavoratori. Di conseguenza, conclude la Corte, i risultati probatori delle videoriprese effettuate per tali ultime finalità sono pienamente utilizzabili nel processo.

 

 

(Nota di Luca Gessaroli)

 

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II PENALE

Sentenza 25 giugno 2014, n. 27528

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Ciro - Presidente -

Dott. CASUCCI Giuliano - Consigliere -

Dott. PRESTIPINO Antonio - Consigliere -

Dott. VERGA Giovanna - rel. Consigliere -

Dott. PELLEGRINO Andrea - Consigliere -

 

ha pronunciato la seguente:

 

sentenza

 

sul ricorso proposto da:

 

G.L. N. IL (OMISSIS);

 

avverso la sentenza n. 2427/2007 CORTE APPELLO di BARI, del 03/12/2012;

 

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

 

udita in PUBBLICA UDIENZA del 21/03/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIOVANNA VERGA;

 

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. BALDI Fulvio che ha concluso per l'annullamento con rinvio limitatamente al reato di interruzione di pubblico servizio.

 

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

 

Con sentenza in data 3 dicembre 2013 la Corte d'appello Bari confermava la sentenza del Tribunale di Trani, sezione distaccata di Molfetta che il 19 giugno 2007 che aveva condannato G. L. per appropriazione indebita aggravata dall'art. 61 c.p., n. 11 e interruzione di pubblico servizio.

 

Riteneva la corte territoriale che l'attività illecita posta in essere dall'imputato integrava, sotto il profilo storico materiale, gli estremi dei reati contestati. L'imputato nella sua qualità di dipendente si era appropriato della linea telefonica della Multiservizi di S.p.A. e del collegamento via Internet determinando un evidente pregiudizio economico per la società per la quale prestava la propria attività. Egli inoltre aveva distolto le apparecchiature informatiche, operative 24 ore su 24 in quanto utilizzate per il monitoraggio degli impianti di pubblica amministrazione, dalla telegestione cui erano preposte, interrompendo, per la durata degli illeciti collegamenti, il servizio pubblico. Ricorre per cassazione l'imputato deducendo che la sentenza impugnata è incorsa in:

 

1. violazione di legge processuale con riferimento agli artt. 189, 190 e 266 c.p.p. sostiene che non possono essere considerate prove documentali ex art. 234 le videoriprese eseguite da un privato della propria struttura aziendale dopo che ha sporto querela e si sia aperto un procedimento penale,seppure a carico di ignoti;

 

2. mancanza e contraddittorietà della motivazione. Rileva che manca nel capo di imputazione l'indicazione dell'oggetto della propria azione. Lamenta che l'utilizzo del computer non ha determinato alcun danno alla società. Sostiene che non vi sono i presupposti per la sussistenza dei reati contestati;

 

3. violazione di legge con riguardo alla L. n. 260 del 1998, art. 4.

 

Sostiene che in maniera del tutto apodittica la corte territoriale ha affermato che i filmati e le immagine erano pedopornografici. Lamenta l'assenza dell'elemento soggettivo del reato.

 

4. contesta l'eccessività della pena.

 

L'Avv. Oronzo Amato, difensore di fiducia del ricorrente, depositava dichiarazione di adesione all'astensione dalle udienze deliberata dall'organismo unitario dell'avvocatura italiana e chiedeva differimento dell'udienza. Il collegio, rilevato che l'istante non ha dimostrato di aver comunicato agli altri avvocati costituiti la propria dichiarazione di astensione, in ottemperanza a quanto previsto dal già citato art. 3, comma 1, lett. b), cod. autoreg.

 

rigetta l'istanza di rinvio.

 

Il primo motivo di ricorso è infondato.

 

Per la soluzione della questione occorre prendere le mosse dalla pronuncia delle Sezioni Unite nella sentenza 28-3-2006 n. 26795, nella quale - con riferimento alla materia delle videoregistrazioni-, è stata rimarcata la distinzione esistente tra "documento" e "atto del procedimento" oggetto di documentazione.

 

In tale decisione è stato chiarito che le norme sui documenti, contenute nel codice di procedura penale, sono state concepite e formulate con esclusivo riferimento ai documenti formati fuori (anche se non necessariamente prima) del processo. Nel caso in esame, come indicato dai giudici di merito, si tratta di captazioni visive effettuate dal privato, di propria iniziativa, all'interno dell'edificio di propria spettanza, e quindi correttamente le immagini sono state acquisite ai sensi dell'art. 234 c.p.p..

 

Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.

 

E' stato accertato, così come contestato, che l'imputato approfittando dell'assenza dell'addetto all'ufficio ed avendo la disponibilità dei locali anche al termine delle attività di ufficio, invece di provvedere unicamente alle pulizie avesse scelto di utilizzare il computer per visitare siti pedopornografici.

 

E' irrilevante il fatto che, a dire dell'imputato, la parte offesa non avrebbe avuto danni perchè la società aveva stipulato un contratto fiat con la società Fastweb che comportava un unico e solo costo (periodico) per l'azienda.

 

Il fatto, così come ricostruito, si è sostanziato non nell'uso dell'apparecchio telefonico come oggetto fisico, ma nell'appropriazione delle energie costituite da impulsi elettronici che erano entrate a far parte del patrimonio della parte offesa. Ne consegue che tale condotta integra l'ipotesi contestata di appropriazione indebita.

 

Tale conclusione è in linea con la giurisprudenza pressochè costante di questa Suprema Corte in materia di peculato (cfr. Cass. sez. 6A, 23/10/2000 n. 3879; sez. 6A, 9/5/2006 n. 25273; sez. 6A, 26/2/2007 n. 21335).

 

E' altresì indubbio che l'agente si sia rappresentato e voluto l'ingiustizia del profitto realizzato (visione di siti pedopornografici utilizzando un collegamento internet di proprietà di terzi).

 

Così come correttamente i giudici di merito hanno ritenuto che l'imputato, distogliendo il computer dalla gestione dell'impianto pubblico di illuminazione comunale per destinarlo all'accesso ai siti pornografici, ha interrotto per la durata dei collegamenti illeciti, il servizio di monitoraggio svolta nell'interesse pubblico, realizzando il reato contestato di cui all'art. 340 c.p..

 

Anche il terzo motivo di ricorso è infondato. I giudici di merito, con un accertamento in fatto, incensurabile in questa sede hanno affermato che il materiale relativo allo sfruttamento minorile non solo fu visualizzato ma anche acquisito nella cartella dei files temporanei di internet.

 

La doglianza in punto pena è manifestamente infondata perchè generica. Il ricorrente si limita a contestare l'eccessività della pena senza considerare che il giudice ha indicato in sentenza tutti gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti nell'ambito della complessiva applicazione di tutti i criteri di cui all'art. 133 c.p..

 

Il ricorso deve pertanto essere respinto. Deve però rilevarsi che i reati contestati si sono medio tempore, estinti per intervenuta prescrizione (3.2.2013). Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perchè i reati ascritti al G. si sono estinti per prescrizione. Devono essere confermate le statuizioni civili.

 

P.Q.M.

 

Respinta l'istanza di rinvio. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè i reati ascritti si sono estinti per prescrizione.

 

Conferma le statuizione civili.

 

Così deciso in Roma, il 21 marzo 2014.

Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2014.

 

 

 

da Altalex

 

 

 

 

Martedì, 30 Settembre 2014
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