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Corte di Cassazione 23/03/2015

Guida in stato di ebbrezza: accertamento con etilometro e garanzie difensive

(Cass. Pen. SS.UU., 02 gennaio 2015, n. 2)

Le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione intervengono nuovamente sulla questione delle conseguenze del mancato avvertimento alla persona da sottoporre al controllo alcolimetrico della facoltà di farsi assistere da un difensore: questa è stata ritenuta una nullità a regime intermedio, che non può ritenersi sanata se non eccepita dall'interessato entro il termine di cui all'art. 182, comma 2, secondo periodo, c.p.p.

Con decreto del 19 ottobre 2014 il Primo Presidente della Corte aveva assegnato alle Sezioni Unite il ricorso proposto dal procuratore generale di Venezia avverso la decisione che aveva ritenuto inutilizzabile l’accertamento del tasso alcolico effettuato dalla polizia con il metodo dell’alcoltest, in quanto gli agenti operanti non avevano avvertito l’interessato dalla facoltà di farsi assistere da un difensore.

La questione posta dal ricorso era quella se l’omesso avviso all’indagato da parte della polizia giudiziaria, prima di procedere ad un atto di indagine urgente quale l’alcooltest, della facoltà di farsi assistere dal difensore costituisca una mera irregolarità, o una nullità, ed in questo caso se tale nullità dovesse essere eccepita:

a) prima del compimento dell’atto o, se ciò non è possibile, immediatamente dopo;
b) dal difensore subito dopo la nomina ovvero entro il termine di cinque giorni previsto per l’esame degli atti;
c) nel primo atto difensivo successivo;
d) non oltre la deliberazione della sentenza di primo grado”.

Preliminare alla disamina delle diverse opzioni presenti in giurisprudenza sulla questione delle garanzie difensive appare pertanto ricordare come la irripetibilità è quella che ricorre nelle ipotesi in cui l'atto attiene alla descrizione di luoghi, cose o persone, di interesse per lo svolgimento delle indagini o per la celebrazione del processo, che siano "suscettibili di modificazione"; e non vi è dubbio che queste caratteristiche siano ravvisabili nel caso in esame in cui la polizia giudiziaria può procedere agli esami previsti dai commi 4 e 5 dell’art. 186 cod strad., attività che vanno senza dubbio qualificate quali atti urgenti ed indifferibili, che, ex art. 354 c.p.p., commi 2 e 3, è possibile compiere, con rilievi sullo stato delle cose, dei luoghi e delle persone nel caso di pericolo di alterazione, dispersione o modificazione.

L'"alcoltest" costituisce atto di polizia giudiziaria urgente ed indifferibile ex art. 354 c.p.p., comma 3, cui il difensore può assistere ai sensi del successivo art. 356 senza però diritto ad essere previamente avvisato. Peraltro ai sensi, poi, dell'art. 114 disp. att. c.p.p., la polizia giudiziaria, nel compimento degli atti di cui all'art. 356 c.p.p. "avverte la persona sottoposta alle indagini, se presente, che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia".

La questione centrale di diritto proposta dalla decisione della quarta sezione è quella di individuare quale sia il momento oltre il quale la nullità a regime intermedio integrata dall’omesso avviso all’indagato, da parte della polizia giudiziaria prima di procedere a un atto di indagine urgente, della facoltà di farsi assistere dal difensore non possa più essere eccepita.

In proposito un primo orientamento, fatto proprio in diverse occasioni dalla quarta sezione, sulla premessa che la violazione del disposto dell'art. 114 disp. att. c.p.p. da luogo ad una nullità di ordine generale ma non assoluta, ha affermato, sin dal 1997 (sez. 1, 6-24 giugno 1997 n. 4017, Pata, RV 207858), che "l'art. 182, comma 2^, cod. proc. pen., nel prevedere che, quando la parte vi assiste, la nullità di un atto possa essere eccepita, al più tardi, "immediatamente dopo" il compimento dell'atto stesso, non pone affatto il detto termine in relazione alla necessaria effettuazione di un successivo atto cui intervenga la stessa parte o il difensore, ben potendo, in realtà, la formulazione dell'eccezione aver luogo anche al di fuori dell'espletamento di specifici atti, mediante lo strumento delle "memorie o richieste" che, ai sensi dell'art. 121 cod. proc. pen., possono essere inoltrate "in ogni stato e grado del procedimento".

Sul punto in dottrina si era però rilevato come non fosse dato capire in che modo la mancata proposizione di memorie o richieste potesse far ritenere tardiva l'eccezione formulata con l'istanza di riesame in mancanza di prova che l'indagato, prima dello scadere dei dieci giorni per proporre l'istanza, avesse già avuto conoscenza della nullità e fosse quindi in grado di eccepirla con altri mezzi. (argomento sufficiente e che non richiede di fare ricorso all’altro argomento sviluppato in merito, ovvero che l'art. 121 cod. proc. pen. si riferisce a memorie o richieste scritte che le parti possono presentare al giudice, e non al pubblico ministero, e riguarda chiaramente casi in cui non sia previsto un apposito strumento processuale per provocare un sindacato del giudice, mentre nel caso in esame è specificamente previsto che il sindacato del giudice debba necessariamente essere richiesto mediante lo strumento, completamente regolato nelle forme e nei termini, dell'istanza di riesame che non può quindi certamente essere surrogata o tanto meno impedita o sostituita da generiche ed informali memorie o richieste scritte).

In altre decisioni si era osservato che l'indagato potrebbe non essere stato in grado di eccepire la nullità del sequestro per il mancato avvertimento della facoltà di farsi assistere dal difensore, ben potendosi presumere l'ignoranza da parte sua, del tutto incolpevole, dell'esistenza del diritto violato, ed allora diverrebbe derimente il dato che il difensore, sia pure nominato di ufficio, dovrebbe ricevere l'avviso del deposito dell'atto, con la conseguenza che questi, esercitando il proprio mandato e comunicando con l'interessato, potrebbe venire a conoscenza della violazione avvenuta e dedurla tempestivamente nei cinque giorni che l'art. 366 c.p.p. gli concede per l'esame degli atti.

Infatti, come si è sostenuto sul punto, una interpretazione logica ed adeguatrice delal disposizione di cui all’art 182 c.p.p. impone di ritenere che la stessa - quanto meno nella parte in cui impone alla parte che vi assiste di eccepire la nullità dell'atto prima del suo compimento - presuppone che sussista la condizione che la parte conosca o quanto meno possa presumersi che conosca o che sia in grado di conoscere la nullità.

Conseguentemente larga parte della giurisprudenza aveva affermato che in tema di accertamento dello stato di ebbrezza con etilometro l’omesso avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore configurava una nullità a regime intermedio che doveva essere eccepita - secondo quanto previsto dall'art. 182 c.p.c., comma 2 - prima del compimento dell'atto ovvero, se ciò non era stato possibile, immediatamente dopo.

Ancora in merito venivano in rilievo ai fini della verifica della effettività della violazione del diritto garantito dalla previsione di nullità, le riflessioni sulla applicabilità del comma primo dell’art. 182 c.p.p., ovvero della sussistenza di un interesse concreto ad eccepire la nullità per avere la parte subito uno specifico, concreto ed attuale pregiudizio dalla omissione rilevata (questione che dovrebbe valutarsi ai fini dell’accoglimento o meno dell’eccezione).

Da qui l’esigenza di chiedere alle Sezioni Unite una valutazione complessiva, esigenza condivisa dal Primo Presidente, che aveva conseguentemente fissato l’udienza del 29 gennaio 2015 per la soluzione della questione.

La notizia di decisione diramata all’esito dell’udienza del 29 gennaio consente di ricavare che secondo le Sezioni Unite, ai fini dell’accertamento della contravvenzione di guida sotto l’influenza dell’alcool, la nullità a regime intermedio conseguente al mancato avvertimento alla persona da sottoporre al controllo alcolimetrico della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia in violazione dell’art. 114 disp. att. cod. proc. pen, non possa ritenersi sanata se non eccepita dall’interessato entro il termine di cui all’art. 182, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen.

Delle motivazioni a sostegno di tali opzioni si darà tempestivamente conto non appena depositate.

La decisione in sintesi

Esito del ricorso

Trattasi di nullità a regime intermedio che va eccepita nei termini di cui all’art. 182, comma 2, c.p.p.

Precedenti giurisprudenziali

Cass. Sez. 1, 21 maggio 2004, n. 24733, Defina; Sez. 4, 25 settembre 2003, Giannandrea; Sez. IV 18 settembre 2006, n, 2584/2007, Bradaschia;

Cass. 3, 7 novembre 2002 - 19 febbraio 2003 n. 8112, Agliolo, RV 223777;

Cass Sez. IV 14 marzo 2008, n. 15739, Alberti.

Riferimenti normativi

Art. 24 Cost;

Cod. proc. pen, artt. 178, 180, 1282, 354, 356, 366;

D.Lgs. 30 aprile 1992 n. 285, articolo 186.

 

(Nota di Alfredo Montagna tratta da Il Quotidiano Giuridico Wolters Kluwer)

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

Sentenza 30 ottobre 2014 – 2 gennaio 2015, n. 2

(Presidente Santacroce – Relatore Zampetti)

Ritenuto in fatto

1. M.E. azionava incidente di esecuzione davanti al Tribunale di Milano, quale giudice competente ai sensi dell'art. 665 cod. proc. pen., avverso il provvedimento di unificazione di pene concorrenti emesso nei suoi confronti in data 21 dicembre 2011 dal Procuratore della Repubblica di Milano. Sosteneva in particolare il predetto condannato che le pene, inserite in detto cumulo, portate dal precedente provvedimento di unificazione di pene concorrenti emesso il 24 gennaio 1985 dal Procuratore della Repubblica di Milano (anni 1, mesi 7 e giorni 19 di reclusione) e dalla sentenza del 19 aprile 1983 del Tribunale di Melfi (anni 1 di reclusione) dovevano essere ritenute estinte per prescrizione, ex art. 172 cod. pen., e quindi non eseguibili.

2. Con ordinanza in data 24 settembre 2012 l'adito Tribunale di Milano, in composizione collegiale ed in funzione di giudice dell'esecuzione, rigettava l'istanza come proposta dal M. , argomentando in sintesi nei seguenti termini: si trattava di pene già dichiarate estinte per applicazione dell'indulto, beneficio peraltro revocato con ordinanza del 27 febbraio 2008 del Tribunale di Melfi; il termine estintivo decennale (trattandosi di delitti) non era dunque ancora trascorso, sul presupposto che detto termine dovesse decorrere dalla data del provvedimento di revoca del beneficio.

3. Avverso detta ordinanza del Tribunale di Milano M.E. ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento ai sensi dell'art. 606, lett. b), cod. proc. pen., per erronea applicazione dell'art. 172 cod. pen..

Ricostruiti i termini della vicenda processuale, il ricorrente ha denunziato l'illegittimità del provvedimento impugnato in quanto assunto in contrasto con il "costante" (tale qualificato dal ricorrente) insegnamento reso dalla giurisprudenza di legittimità in materia di interpretazione della prescrizione della pena, per la quale “Il termine di prescrizione della pena, divenuta eseguibile a causa della revoca dell'indulto precedentemente concesso, decorre dal momento in cui in concreto si è verificato il presupposto per la revoca del beneficio e non da quello in cui è divenuta definitiva la decisione che ne ha accertato la condizione risolutiva” (in tal senso si cita Sez. 1, 13/01/2012, n. 10924), ovvero per cui “Il termine di prescrizione della pena decorre dal momento in cui si sono verificati i presupposti per la revoca del beneficio precedentemente concesso (nel caso di specie, l'indulto), e non dal giorno in cui è divenuta definitiva la decisione che ha accertato la causa di revoca, non potendo porsi a carico del condannato il danno per il ritardo con cui viene presa la decisione” (così Sez. 1, 21/05/2009, n. 26748). In applicazione degli indicati principi, pertanto - sosteneva il ricorrente - il dies a quo nel computo del termine di prescrizione della pena, divenuta eseguibile a causa della revoca dell'indulto precedentemente concesso, non deve essere individuato nel momento in cui è divenuta definitiva l'ordinanza del Tribunale di Melfi del 27 febbraio 2008, con cui è stata accertata la causa della revoca del beneficio, bensì nel momento in cui è diventata definitiva la sentenza della Corte di appello di Milano del 22 settembre 1989, costituente il presupposto per la revoca del concesso beneficio, giusta applicazione dei disposti degli artt. 11 d.P.R. 16 dicembre 1986, n. 865 (“Il beneficio dell'indulto é revocato se chi ne ha usufruito commette, entro cinque anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, un delitto non colposo per il quale riporti condanna a pena detentiva non inferiore ad un anno”) e 10 d.P.R. 18 dicembre 1981, n. 744 (“Il beneficio dell'indulto è revocato di diritto qualora chi ne abbia usufruito commetta, entro cinque anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, un delitto non colposo per il quale riporti condanna a pena detentiva non inferiore a sei mesi”). Ne consegue - argomentava ancora il ricorrente - che nel caso in esame risulta già abbondantemente intervenuta la prescrizione della pena, per decorso del termine decennale stabilito dalla norma dell'art. 172, primo comma, cod. pen., decorrente dalla data di passaggio in giudicato della sentenza del 22 settembre 1989 presupposto della revoca.

4. La Prima Sezione penale, cui il ricorso era assegnato, con ordinanza del 21-22 marzo 2014, n. 30007, depositata il 9 luglio 2014, ha rimesso la trattazione del ricorso stesso alle Sezioni Unite, ex art. 618 cod. proc. pen., rilevando che la questione ivi dedotta evidenziava una problematica su cui verte un contrasto interpretativo tra le Sezioni, concernente il dubbio se, nel caso di subordinazione dell'esecuzione della pena alla revoca dell'indulto, il termine di estinzione della sanzione, a norma dell'art. 172, quinto comma, cod. pen., decorra dalla data in cui è divenuta definitiva la sentenza di condanna costituente il presupposto da cui dipende la revoca del beneficio, ovvero dalla data in cui è diventata definitiva la decisione che abbia accertato la sussistenza della causa di revoca del condono, disponendo quest'ultima. Nell'ordinanza di rimessione il Collegio ha puntualizzato come con riguardo alla sollevata questione sussista, già da tempo, un conflitto giurisprudenziale tra due contrapposti orientamenti interpretativi: l'uno, più risalente, per il quale, nel caso di subordinazione dell'esecuzione della pena alla scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione, il dies a quo da computarsi ai fini dell'estinzione della pena, ex art. 172, quinto comma, cod. pen., decorre dal giorno in cui è divenuta definitiva la decisione (sentenza o ordinanza emessa in sede di esecuzione ex art. 674 cod. proc. pen.) che ha accertato la causa della revoca, disponendo quest'ultima; l'altro, più recente, secondo il quale il termine di prescrizione della pena decorre dal momento in cui si sono verificati i presupposti per la revoca del beneficio precedentemente concesso, ovvero è divenuta definitiva la sentenza di condanna determinante la causa della revoca del beneficio stesso. Elencate le più significative pronunce espressive degli indicati orientamenti, la Prima Sezione ha inoltre precisato le argomentazioni poste a sostegno di entrambe le opzioni interpretative.

Per il più risalente orientamento il termine di prescrizione deve decorrere dal momento in cui, accertata la verificatasi decadenza del beneficio, la pena può essere concretamente posta in esecuzione, ossia dal momento in cui il provvedimento di revoca del condono sia divenuto irrevocabile. È vero, infatti, che la pronunzia giudiziale di revoca dell'indulto ha natura solo dichiarativa, ma per tale interpretazione é aspetto decisivo che, in assenza della relativa declaratoria di revoca, la pena non può essere posta di esecuzione, continuando a conservare efficacia, fino alla sua formale revoca, il pregresso provvedimento di concessione del beneficio. L'indicata esegesi ritiene di presentare una maggiore coerenza con il principio generale sancito dall'art. 172, quarto comma, cod. pen., per il quale il termine prescrittivo decorre dal giorno in cui la pronuncia di condanna è divenuta irrevocabile, ovverosia allorché essa abbia acquisito forza esecutiva ex art. 650 cod. proc. pen. e sia concretamente utilizzabile come titolo esecutivo. Solo dal momento della revoca del condono, infatti, si ha la giudiziale certezza della verificazione della condizione risolutiva prevista per la revoca di diritto del beneficio e solo da tale data la pena può essere concretamente eseguita.

Per il più recente indirizzo interpretativo, invece, la ritenuta coincidenza della decorrenza del termine di prescrizione con il momento di verificazione dei presupposti per la revoca del beneficio precedentemente concesso è da ritenersi preferibile in quanto supportata da una lettura della norma dell'art. 172, quinto comma, cod. pen. sorretta da precisi ed univoci argomenti testuali, logici e sistematici. Il riferimento, presente nella formulazione letterale del dettato normativo, al “giorno in cui [...] la condizione si è verificata” attesta, infatti, che la decorrenza del termine di prescrizione della pena é, di per sé, collegata alla data di realizzazione del presupposto da cui la legge fa derivare la revoca del beneficio, nulla rilevando il successivo momento di adozione formale del provvedimento di revoca. Né è di alcun valore appare, in senso contrario, la giustificazione resa dalla contrapposta tesi, per cui la pena diventa concretamente eseguibile solo in esito all'intervento della decisione di revoca, osservato che “la decadenza dal beneficio [...] opera di diritto, non appena la condanna che la comporta passa in giudicato, e che il provvedimento di revoca ha mera funzione ricognitiva della condizione risolutiva del beneficio, di talché i relativi effetti si producono ex tunc, retroagendo al momento in cui la condizione si è verificata”. L'indicata opzione ermeneutica, inoltre, si pone in termini maggiormente conformi rispetto alla ratio della disciplina della prescrizione, sia del reato che della pena, che si fonda sull'esigenza di garantire la certezza delle situazioni giuridiche. Sotto tale profilo, allora, il termine prescrizionale non può che decorrere dall'obiettiva verificazione delle condizioni legittimanti la revoca di diritto.

5. Il quesito di diritto sottoposto alle Sezioni Unite veniva quindi formulato nei seguenti termini: "Se, nel caso in cui l'esecuzione della pena sia subordinata alla revoca dell'indulto, il termine di estinzione della sanzione, a norma dell'art. 172, quinto comma, cod. pen., decorre dalla data in cui è divenuta definitiva la sentenza di condanna che costituisce il presupposto dal quale dipende la revoca del beneficio, o, invece, dalla data in cui è divenuta definitiva la decisione che accerta la sussistenza della causa di revoca del condono".

6. Il Primo Presidente, con decreto in data 14 luglio 2014, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissandone la trattazione all'odierna udienza camerale, nelle forme di cui all'art. 611 cod. proc. pen.

7. Il Procuratore generale, con requisitoria depositata il 23 settembre 2014, ha rilevato, con specifico riguardo alla questione rimessa alle Sezioni Unite, come debba essere preferita la soluzione discendente dall'orientamento giurisprudenziale più recente ed ormai maggioritario secondo cui il termine di prescrizione della pena, ex art. 172, quinto comma, cod. pen., decorre dal momento in cui si sono verificati i presupposti per la revoca del beneficio in precedenza concesso. In tal senso il requirente ha chiesto che, affermato tale principio, l'ordinanza impugnata sia annullata con rinvio, non mancando peraltro di segnalare come, in sede di giudizio di rinvio, si debba pure verificare l'eventuale sussistenza, nella concreta fattispecie, di cause preclusive della chiesta prescrizione ex art. 172, ultimo comma, cod. pen., a suo giudizio già rilevabili in atti.

Considerato in diritto

1. Il quesito di diritto, come sopra riportato [v. al p.5 del Ritenuto in fatto], al quale le Sezioni Unite devono rispondere, si genera per la diversa interpretazione sistematica data in subiecta materia dalla giurisprudenza di legittimità.

È opportuno, dunque, ripercorrere e qui di seguito riportare l'evoluzione giurisprudenziale che si è andata differenziando in due sostanziali filoni interpretativi.

2. Con un primo orientamento, che ben può definirsi più risalente, ma anche di recente a volte ribadito, la Corte si è espressa, in numerose sentenze, per una interpretazione volta a ritenere che, in ipotesi di subordinazione dell'esecuzione della pena alla scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione, il dies a quo da computarsi ai fini dell'estinzione della pena, secondo il dettato dell'art. 172, quinto comma, cod. pen., debba decorrere dal giorno in cui è divenuta definitiva la sentenza o l'ordinanza che ha accertato la causa della revoca, disponendo quest'ultima.

Secondo tale orientamento, in particolare, il tempo necessario per l'estinzione della pena decorre dal giorno in cui si ha la certezza giudiziale dell'avvenuta verificazione della condizione risolutiva, acquisitile, come nel caso dell'indulto condizionato, solo con il passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della causa di revoca del beneficio. Infatti, pur avendo la relativa pronuncia giudiziale natura dichiarativa e contenuto meramente accertativo di una situazione oggettiva, alla quale è collegata ope legis la decadenza del beneficio indulgenziale, per la concreta espiazione della pena occorre, comunque, indeclinabilmente la previa declaratoria del giudice, che deve essere assunta ai sensi dell'art. 674 cod. proc. pen. a conclusione di un procedimento diretto alla verifica della sussistenza delle condiciones juris alle quali è subordinata l'applicazione della sanzione revocatoria. In mancanza di tale declaratoria, la pena non è suscettibile di esecuzione, essendo ancora in vigore il provvedimento di concessione del beneficio, che conserva efficacia fino a quando non viene ad essere formalmente rimosso.

Nel solco di tale orientamento interpretativo si sono espresse - tra le altre - Sez. 6, n. 199 del 18/01/1978, Cavallo, Rv. 139852; Sez. 6, n. 901 del 30/03/1983, Cerasuolo, Rv. 159712; Sez. 1, n. 294 del 19/01/1994, Ferri, Rv. 197787; Sez. 1, n. 5516 del 03/11/1995, dep. 1996, Buccella, Rv. 203443; Sez. 1, n. 3428 del 16/05/1997, Sannazzaro, Rv. 207973; Sez. 1, n. 2998 del 15/04/1999, Iacofci, Rv. 213589; Sez. 1, n. 395 del 19/01/2000, Bizzarro, Rv. 215384; Sez. 1, n. 1441 del 28/02/2000, Zanon, Rv. 216007, la cui argomentazione sintetizza l'orientamento fin qui esposto sostenendo che “nell'ipotesi di indulto sottoposto alla condizione risolutiva della commissione di un nuovo reato, il termine di prescrizione della pena deve farsi decorrere dal momento in cui, verificatasi la decadenza dal beneficio, la pena può essere concretamente posta in esecuzione. Tale momento non coincide temporalmente con la data di passaggio in giudicato della sentenza di condanna comportante la perdita del beneficio anteriormente concesso, bensì con la data in cui, disposta la revoca del condono, il relativo provvedimento è divenuto irrevocabile. [...] È pur vero, infatti, che la pronunzia giudiziale di revoca di benefici ha natura dichiarativa, tuttavia, in mancanza della relativa declaratoria, la pena non è suscettibile di esecuzione poiché il provvedimento con cui il beneficio è stato concesso conserva efficacia finché non venga formalmente revocato”. Tale interpretazione, peraltro, secondo l'orientamento in esame, si pone “in linea con il principio generale stabilito nel quarto comma dell'art. 172 cod. pen. secondo cui il termine per la prescrizione della pena decorre dal giorno in cui la condanna è divenuta irrevocabile ovverosia allorché essa abbia acquisito forza esecutiva giusto l'art. 650 cod. proc. pen. e sia concretamente utilizzabile come titolo esecutivo”. In tempi più recenti l'anzidetto orientamento è stato ribadito, con analoghe argomentazioni, dalla sentenza Sez. 1, n. 22707 del 05/12/2012, dep. 2013, Mirabella, Rv. 256481.

I medesimi concetti - sostanzialmente coerenti all'indirizzo suddetto - sono stati espressi dalla Suprema Corte anche in relazione all'analogo tema della prescrizione della pena in relazione alla revoca della sospensione condizionale della stessa. In Sez. 1, n. 13414 del 21/02/2013, Strusi, Rv. 255647, è stato affermato che il dies a quo da cui decorre il termine di prescrizione della pena, oggetto di sospensione condizionale poi revocata, deve essere individuato nel giorno di passaggio in giudicato della decisione che ha disposto la revoca del beneficio, e non dal momento in cui è stato commesso il reato che ha dato luogo alla revoca medesima, e sebbene da ciò possa scaturire un danno al condannato, derivante dall'eventuale ritardo con cui è possibile venga accertata la causa della revoca, questa soluzione appare comunque quella da preferirsi, essendo necessario che a prevalere sia il generale interesse alla certezza dei rapporti giuridici. Tale orientamento, sempre in tema di prescrizione della pena in relazione alla revoca della sospensione condizionale della stessa, è stato ribadito nelle più recenti decisioni Sez. 1, n. 43489 del 05/07/2013, Longhitano, Rv. 257412 e Sez. 1, n. 39565 del 13/06/2014, Venosa, n. m.

3. A fronte dell'indicato indirizzo interpretativo, si è nel tempo consolidato un opposto orientamento esegetico, per il quale il termine di prescrizione della pena, in caso di indulto successivamente revocato, decorre dal momento in cui si sono verificati i presupposti per la revoca del beneficio precedentemente concesso, ovvero è divenuta definitiva la sentenza di condanna determinante la causa della revoca dell'indulto stesso.

In sostanza, per questa più recente opzione ermeneutica, ai fini dell'individuazione del dies a quo per il decorso della prescrizione della pena, in caso di revoca di benefici, si deve fare riferimento al momento in cui siano per legge maturate le condizioni che abbiano portato alla revoca stessa e non a quello in cui viene adottato il provvedimento di revoca del beneficio.

Tale indirizzo interpretativo, che pur annovera plurimi non recenti precedenti, a dimostrazione che il tema è stato sempre dibattuto (si vedano, tra le altre, Sez. 1, n. 5897 del 17/11/1995, Montaldo, Rv. 203039 e Sez. 1, n. 5145 del 18/10/1995, Novellis, Rv. 202898, con cui la Corte ha espressamente affermato il principio per cui ai fini dell'individuazione del dies a quo per il decorso del termine di prescrizione della pena, in caso di revoca di benefici, si deve far riferimento al momento in cui siano per legge maturate le condizioni che avrebbero dovuto portare alla revoca stessa, a prescindere dal fatto che queste siano state, o non, subito dichiarate, in quanto le cause di revoca dei benefici operano di diritto, e cioè all'atto del verificarsi dei loro presupposti, e le sentenze che le accertano rivestono natura meramente dichiarativa e non costitutiva) è stato più di recente ribadito.

Nella sentenza Sez. 1, n. 41574 del 12/12/2006, Capetta, Rv. 236015, quindi, è stato ulteriormente chiarito che l'indirizzo interpretativo che fa decorrere il termine di prescrizione della pena dal momento in cui sono per legge maturate le condizioni che avrebbero dovuto portare alla revoca del beneficio, indipendentemente dal fatto che queste siano state, o meno, subito dichiarate con sentenza, “risulta rispondente ad una lettura dell'art. 172 cod. pen., quinto comma, che è sorretta da precisi ed univoci argomenti testuali, logici e sistematici. [...] Dalla formulazione letterale della norma traspare, quindi, un primo elemento che milita a favore della soluzione qui condivisa, dato che l'esplicito riferimento al giorno in cui [...] la condizione si è verificata inequivocamente attesta che la decorrenza del termine di prescrizione della pena è, di per sé, collegata alla data in cui si è realizzato il presupposto dal quale la legge fa derivare la revoca della sospensione condizionale della pena, non rilevando, per contro, il momento in cui è adottato il provvedimento di revoca del beneficio. Né vale obiettare, a giustificazione della tesi contraria, che la pena diventa concretamente eseguibile soltanto a seguito della decisione di revoca, per l'evidente ragione che la decadenza dal beneficio della sospensione condizionale della pena opera di diritto, non appena la condanna che la comporta passa in giudicato, e che il provvedimento di revoca ha mera funzione ricognitiva della condizione risolutiva del beneficio, di talché i relativi effetti si producono ex tunc, retroagendo al momento in cui la condizione si è verificata. Un ulteriore argomento esegetico dispiega incidenza decisiva a sostegno dell'opzione ermeneutica favorevole alla tesi che fa decorrere il termine di prescrizione non dalla data della revoca del beneficio, ma da quella di avveramento della condizione risolutiva. Se si considera, infatti, che la ratio della disciplina della prescrizione, sia del reato che della pena, è indissolubilmente legata all'esigenza di certezza delle situazioni giuridiche, appare chiaro che il termine prescrizionale non può che decorrere dal fatto oggettivo della verificazione delle condizioni che rendono revocabile di diritto la sospensione condizionale della pena, dato che, se così non fosse, la prescrizione verrebbe collegata ad una data che varia in relazione alle contingenti determinazioni dell'autorità giudiziaria: con l'ulteriore conseguenza che i termini e il decorso della prescrizione verrebbero fatti dipendere da cause riferibili alla maggiore o minore tempestività delle decisioni degli organi deputati all'esecuzione della pena e alla revoca del beneficio, in palese violazione dei principi di certezza e di legalità”.

Analoghe valutazioni sono state, poi, riaffermate nella sentenza Sez. 1, n. 40678 del 16/10/2008, Narzisi, Rv. 241562, ed in Sez. 1, n. 18552 del 05/03/2009, Canarecci, Rv. 243644, nella quale è stato, in particolare, ribadito come l'indicata soluzione risulti preferibile “sia perché non pone a carico del condannato il ritardo con cui il p.m. procede alla richiesta di revoca ed il giudice decide, spettando a tali organi operare con celerità, sia perché consente una interpretazione della norma conforme ai principi di ragionevolezza e di tempestività nella esecuzione delle pene, di cui agli artt. 3 e 27, secondo comma, della Costituzione, con riguardo ai quali non appare accettabile che una pena definitiva e che dovrebbe essere eseguita tempestivamente venga di fatto eseguita dopo decenni, soltanto per inerzia degli organi a ciò preposti, in contrasto con l'effetto rieducativo della pena per cui la esecuzione deve essere tendenzialmente prossima alla commissione del reato o quanto meno alla definitività della condanna. D'altronde anche l'interpretazione letterale del quinto comma dell'art. 172 cod. pen. suggerisce tale soluzione poiché impone che il tempo necessario per la esecuzione della pena decorre, nel caso in cui la esecuzione sia condizionata, dal momento in cui si è verificata la condizione, con ciò evocando i presupposti di fatto e di diritto per il verificarsi della condizione e non anche un provvedimento di accertamento definitivo della verificazione della condizione”.

I medesimi temi interpretativi sono, quindi, rinvenibili, con riferimento alla giurisprudenza più recente, nelle sentenze Sez. 1, n. 26748 del 21/05/2009, Papallo, Rv. 244714, e Sez. 1, n. 10924 del 13/01/2012, Gargiulo, Rv. 252553. Da ultimo, nella decisione Sez. 1, n. 34145 del 03/07/2014, Saorin, n. m., è stato osservato che “ove la revoca del beneficio sia collegata alla commissione del reato, potrebbero teoricamente venire in rilievo tre momenti: il momento storico di commissione del reato (presupposto di fatto); il momento di accertamento giudiziale di tale commissione, che deve essere definitivo (presupposto giuridico); il momento in cui il beneficio viene revocato”. Escluso che i termini di prescrizione possano decorrere dal mero dato fattuale della commissione di un reato entro il previsto termine quinquennale, essendo a tal fine indispensabile un accertamento della relativa responsabilità disposto con sentenza irrevocabile di condanna, non possono neppure decorrere i predetti termini “dall'ultimo di tali momenti, che si riferisce a decisione meramente ricognitiva di condizione verificatasi, il cui eventuale ritardo non può dunque gravare sul condannato. L'unico momento in cui possono invece considerarsi perfezionati i presupposti di fatto e di diritto per la revoca, e da cui può validamente (in base al principio contra non valentem agere non currit praescriptio) decorrere il termine di prescrizione, è perciò il secondo: quello dell'accertamento giudiziale definitivo della commissione del reato da cui consegue la revoca”.

Deve, infine, essere rimarcato come anche con riguardo al presente indirizzo esegetico rilevino alcune pronunce, dall'identico tenore di quelle espresse in tema di indulto condizionato, pronunziate dalla Suprema Corte in sede di esame del diverso istituto della sospensione condizionale della pena. Così, infatti, in Sez. 6, n. 1465 del 02/06/1983, Marziani, Rv. 160523, è stato affermato che nel caso di revoca del beneficio della sospensione condizionale della pena il termine per la prescrizione decorre dal giorno in cui è divenuta irrevocabile la sentenza con la quale è stata pronunciata la condanna che determina la revoca. Nello stesso solco interpretativo, quindi, la sentenza Sez. 1, n. 17346 del 11/04/2006, Petrella, Rv. 233882, ha stabilito che il termine di prescrizione della pena, nel caso in cui sussistano le condizioni per revocare la sospensione condizionale, decorre dal momento in cui si sono verificate dette condizioni e non da quello in cui è adottato il provvedimento di revoca del beneficio, e ciò sulla base sia del dettato letterale dell'art. 172, quinto comma, cod. pen. che della ratio della disciplina della prescrizione, la quale, poiché ispirata all'esigenza di certezza delle situazioni giuridiche, non può dipendere dalle contingenti determinazioni dell'autorità giudiziaria.

4. Tanto rievocato - e rilevato poi come in sede dottrinale lo specifico argomento risulti assai poco frequentato e per lo più con riproposizione assertiva delle decisioni di questa Corte - vale qui affermare essere corretta soluzione al quesito posto quella discendente dalla seconda, sopra riportata, più recente opzione ermeneutica.

A tanto conduce, senza possibilità di equivoci interpretativi, il dato testuale, quello logico e quello sistematico, anche in una lettura che sia, doverosamente, costituzionalmente e convenzionalmente orientata.

Il dato testuale - di per sé pressoché autosufficiente - assume, in materia, un'importanza decisiva. Poiché il tema centrale è l'estinzione della pena per decorso inattivo del tempo, e cioè la prescrizione della stessa, l'individuazione del dies a quo è argomento nel quale la formulazione normativa, in un tema che riveste carattere sostanziale, non può che assurgere al paradigma della tipicità. Non è consentito, dunque, all'interprete percorrere vie esegetiche (per quanto anch'esse non prive di argomenti logico-sistematici) che esulino dal dato testuale assolutamente preciso e chiaro; orbene, ai nostri fini, nel caso in cui l'esecuzione della pena sia subordinata al verificarsi di una condizione, “il tempo necessario per l'estinzione della pena decorre dal giorno in cui [...] la condizione si è verificata”, come recita testualmente il quinto comma dell'art. 172 del codice penale. Orbene, nel caso in cui l'esecuzione della pena sia condizionata alla revoca dell'indulto, tale revoca, e con essa l'eseguibilità della pena, si determina con il solo fatto dell'avverarsi della condizione risolutiva che, a mente delle pertinenti diposizioni dei provvedimenti legislativi di indulto, è stabilita con riferimento alla condanna per reato successivamente commesso. Nella fattispecie, in relazione alla normativa indulgenziale applicata (come si evince in atti), si tratta del d.P.R. 18 dicembre 1981, n. 744, e del d.P.R. 16 dicembre 1986, n. 865, che presentano, entrambi, la medesima dizione testuale in ordine al determinarsi della revoca del beneficio, rispettivamente all'art. 10 ed all'art. 11: “il beneficio dell'indulto è revocato di diritto qualora chi ne abbia usufruito commetta, entro cinque anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, un delitto non colposo per il quale riporti condanna a pena detentiva”. Tale specifica disposizione, in tema di revoca dell'indulto, è diventata poi un dato tralaticio, essendo riportata pedissequamente nei successivi provvedimenti indulgenzali, e cioè dall'art. 4 del d.P.R. 394/90 e dall'art. 3 della legge. 241/2006.

Dunque l'ineludibile conclusione discendente, in modo chiaro e piano, dai correlati disposti normativi si propone nei seguenti termini da ritenere cogenti trattandosi di norme che, attenendo alla pena, rivestono carattere e valore sostanziale: la revoca dell'indulto si determina ope legis (“il beneficio dell'indulto è revocato di diritto”) al verificarsi della condizione risolutiva (aver commesso un delitto entro il termine indicato); il dies a quo dal quale decorre la prescrizione della pena è quello in cui la citata condizione risolutiva si è verificata (art. 172, quinto comma, cod. pen.)- Tale condizione risolutiva si verifica, di necessità, con l'irrevocabilità della sentenza che determina il presupposto della revoca, e cioè l'accertata commissione, da parte di chi abbia usufruito dell'indulto, del fatto di reato implicante, ope legis, la revoca stessa (in tal senso si veda, con assoluta chiarezza, la sopra citata sentenza Sez. 1, n. 34145 del 03/07/2014, Saorin).

È quindi evidente, dal complesso interpretativo fin qui elaborato, che il provvedimento di revoca, successivo e ricognitivo di un effetto già verificatosi, resta estraneo al decorrere del tempo ai fini dell'estinzione della pena per prescrizione.

Tale impostazione, del resto, è coerente con le affermazioni, che si rinvengono in entrambi gli orientamenti giurisprudenziali sopra rievocati, secondo cui da un lato la revoca dell'indulto opera di diritto al verificarsi della condizione risolutiva, dall'altro la disposizione giudiziale di revoca ha natura meramente formale, dichiarativa e ricognitiva.

Non è chi non veda, allora, l'incongruenza logica dell'impostazione che fa capo a quello che sopra si è indicato come più risalente orientamento, secondo cui la revoca dell'indulto si determina ope legis al verificarsi del presupposto, ma pur tuttavia l'eseguibilità della pena dovrebbe attendere il provvedimento giudiziale dichiarativo di tale revoca. Siffatta impostazione offre il fianco - all'evidenza - alla critica, che peraltro ampiamente si rinviene nella giurisprudenza di legittimità, che deriva dall'essere tale eseguibilità dipendente dai tempi, i più vari e spesso lunghi, dell'attività giudiziaria diretta alla declaratoria di revoca, con due negative e non accettabili ricadute: l'essere esposto il condannato alla maggiore o minore tempestività dei provvedimenti giudiziali, con lesione del principio di uguaglianza; subire lo stesso condannato le conseguenze della revoca a maggiore distanza di tempo, così vulnerando i principi, di rango costituzionale, relativi all'effettività ed alla ragionevole durata del processo (anche della fase esecutiva, ex art. 111 Cost.), ma anche afferenti ai valori rieducativi (art. 27, secondo comma, Cost.) per cui l'esecuzione della pena deve essere il più vicino possibile alla commissione del reato ed alla definitività della condanna.

Va dunque affermato che la soluzione qui privilegiata si propone decisamente anche come interpretazione costituzionalmente orientata e, quindi, in tal senso dovuta.

Nessun dubbio, poi, che l'opzione ermeneutica che questa Corte assume, anticipando il tempo dell'esecuzione della pena al momento dell'avveramento della condizione risolutiva (anziché attendere i più lunghi e variabili tempi di una successiva declaratoria di revoca), si presenta del tutto coerente con i principi di ragionevole durata, di sollecita definizione e di minor sacrificio esigibile evincibili dagli artt. 5 e 6 CEDU.

Anche sul piano sistematico e sull'operatività del meccanismo processuale che ne deriva, il contrario orientamento non appare convincente, posto che esso, spostando il baricentro della propria valutazione sulla necessità della declaratoria di revoca, finisce per sottolineare il momento ricognitivo, come tale formale, rispetto a quello sostanziale. Peraltro il lato più debole di siffatta, più risalente, impostazione va rinvenuto nella di certo non condivisibile logica di voler legare il dies a quo della prescrizione della pena alla concreta eseguibilità della stessa che si avrebbe - sostiene quell'orientamento - solo con la definitività del provvedimento di revoca. Non è difficile cogliere il duplice errore che si cela dietro tale argomentazione, peraltro contraria al chiaro dettato normativo: a) sotto un primo aspetto, la prescrizione è istituto legato al decorrere del tempo e, per quanto attiene all'estinzione della pena, non sono previste cause di sospensione, mentre l'interruzione si ha solo con l'inizio della sua concreta esecuzione; dunque, a fronte di un dies a quo determinato per legge, il preteso rinvio del decorso della prescrizione fino al momento della (presunta) successiva eseguibilità, è argomento che, introducendo una sospensione della prescrizione non prevista, non ha basi normative e si pone come anomalo nel sistema: questo prevede invero cause di sospensione dell'esecuzione (già avviata: v. art. 656 cod. proc. pen.), ma non sospensioni della prescrizione della pena; ed invero, ancora, l'art. 172 cod. pen. prevede diversi dies a quibus (a seconda dei casi: condannato che si sottrae volontariamente all'esecuzione già iniziata; verificarsi di una condizione), ma non, come appena detto, ipotesi di sospensione del corso della prescrizione rispetto ad un inizio fissato per legge; b) l'eseguibilità della pena non si ha di necessità solo con il provvedimento di revoca dell'indulto; in caso di avveramento della condizione risolutiva, efficace ope legis, deve affermarsi invero l'immediata eseguibilità della pena senza attendere la dichiarazione formale e meramente ricognitiva della revoca del beneficio; in quest'ultimo senso deve invero rilevarsi, come la Corte di cassazione ha già avuto modo di ricordare (si veda Sez. 1, n. 8670 del 17/02/2006, Urso, Rv. 233584, in tema di sospensione condizionale, e Sez. 1, n. 23457 del 24/01/2011, Ianni, Rv. 250419, in tema di indulto), come il pubblico ministero possa, ed anzi debba, in forza dell'art. 655 cod. proc. pen., porre subito in esecuzione la pena, e dunque anche quella derivante dall'avvenuto avveramento della condizione risolutiva del concesso beneficio; avveramento che egli stesso può rilevare - trattandosi di un'operazione che di norma non richiede articolate valutazioni, di mero recepimento di una sentenza irrevocabile di condanna - contemporaneamente chiedendo al giudice dell'esecuzione di procedere, ai sensi dell'art. 674 cod. proc. pen., alla dichiarazione (come detto, ricognitiva) della revoca del beneficio; seguendo, se proposto, eventuale incidente di esecuzione in opposizione.

Peraltro ben può il giudice della cognizione, nel momento stesso in cui accerta la commissione, da parte di chi abbia usufruito dell'indulto, di un reato per il quale infligge condanna non inferiore al limite previsto nel provvedimento indulgenziale, pronunciare, con la sentenza, la revoca di diritto del beneficio; tale operazione giuridica - oggi possibile ed affidabile con la maggiore tempestività consentita dall'inserimento telematico dei provvedimenti nel casellario giudiziale - diventerà poi immediatamente operativa con la definitività di tale sentenza.

Dunque, in definitiva, anche sul piano pratico si devono ritenere dissolte le preoccupazioni pratiche che sembra essere state sottese all'orientamento contrario a quello qui affermato.

La soluzione al posto quesito che qui si afferma come corretta risulta poi fornita di evidente coerenza rispetto al parallelo istituto della prescrizione del reato (artt. 157 e segg. cod. pen.) e dunque presenta il pregio di comporre una sistematica unitarietà. Ed invero - allo stato della normativa, di cui occorre prendere atto, al di là dei più vari progetti di riforma - come il dies a quo per l'estinzione del reato decorre dalla commissione del fatto (elemento sostanziale), e non dall'inizio del processo di cognizione diretto ad accertarlo, così il dies a quo per l'estinzione della pena non può non decorrere dall'irrevocabilità della sentenza o, per quanto rilevi, dall'avverarsi della condizione risolutiva che costituisce il presupposto della revoca (elemento sostanziale), e non dall'attività processuale, peraltro di conclamata natura formale e ricognitiva, nonché variabile nei tempi, che prenda atto del già avvenuto avverarsi di tale condizione risolutiva.

5. In definitiva, al quesito di diritto posto alle Sezioni Unite deve essere data corretta risposta nei seguenti termini: "Nel caso in cui l'esecuzione della pena sia subordinata alla revoca dell'indulto, il termine di prescrizione della pena decorre dalla data d'irrevocabilità della sentenza di condanna, quale presupposto della revoca del beneficio".

6. Per conseguenza l'ordinanza impugnata, che si è attenuta a criterio diverso, qui ritenuto errato, deve essere annullata con rinvio per violazione di legge.

Il giudice del rinvio, che deve essere individuato nel Tribunale di Milano in composizione collegiale quale giudice dell'esecuzione, procederà quindi a nuovo esame dell'istanza proposta da M.E. , attenendosi, ai sensi dell'art. 627, comma 3, cod. proc. pen., al principio di diritto enunciato da questa Corte di legittimità.

7. È peraltro del tutto evidente che, permanendo comunque nel giudice del rinvio, ex art. 627, comma 2, cod. proc. pen., tutti i poteri propri del giudice a quo, nella fattispecie dell'esecuzione, lo stesso dovrà attentamente valutare l'eventuale concreta sussistenza, nel caso in esame, delle cause ostative all'estinzione della pena quali previste dall'ultimo comma dell'art. 172 cod. pen.; vaglio non compiuto nell'ordinanza impugnata in ragione della (errata) soluzione motivazionale adottata.

P.Q.M.

Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Milano.

 

da Altalex

 

 

Lunedì, 23 Marzo 2015
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